Battitore libero
Titolo originale: “La Luna diventa di miele” © 2013 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea ottobre 2012 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-254-3 I edizione e-book febbraio 2013 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-303-8 www.giovaneholden.it
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Marco Gagliardi www.giovaneholden.it/autori-marcogagliardi.html
A Silvia.
I
L’arrivo della sposa
Nel cuore del pomeriggio, a Torino, città magica, è il primo settembre del 2002 e fa un caldo infernale. Sono il fu Tommaso Grandi, un tempo Tommy per gli amici. Sono morto quando avevo quasi diciannove anni. Il Sole splende alto nel cielo, incandescente come tungsteno giallo canarino, e spacca tutto a martellate. Gli ospiti del matrimonio, vestiti di tutto punto, sono in chiesa, disposti come ordinati pinguini, in fila dietro un semaforo nel mezzo del deserto. Fuori, come un palo della luce in cima alla bollente scalinata della chiesa della Gran Madre, sotto le verdi colline, ci sono solo io, un ragazzo biondo, spettinato e pallido. Oggi non verrà celebrato il mio matrimonio, ma quello di un’altra persona: Valentina, la mia ex ragazza, che si sposa con un altro. Due corvi sono appollaiati sulle statue della Gran Madre, uno su quella a sinistra, la statua della Fede, e l’altro su quella a destra, la Religione. Si dice che questa chiesa sia un simbolo dell’occulto. Guarda che caso. Il clima è però tutt’altro che esoterico. Niente nebbia, nessuna livida Luna nel cielo. Niente vento sibilante. Niente pipistrelli. Niente scenari da film dell’orrore. Solo una calma piatta sotto un cielo blu cobalto scioccante, fermo come una lapide di marmo. L’asfalto si scioglie. Cola nel fiume Po che, simile allo Stige, improvvisamente si è trasformato in un lento flusso di fango. Si dice che un tempo Fetonte, figlio del Dio Sole, ci sia caduto dentro. Beato lui, bel bagno nella melma si è fatto. La chiesa, dal canto suo, circolare come un panettone estivo, cuoce come un uovo che sta per diventare sodo. E io, un fantasma fuori dal contesto, impazzisco dal caldo. La cravatta nera mi strozza come se fosse un nodo scorsoio. La camicia bianca è diventata una seconda lucida pelle, come se fosse di cellophane. La giacca, nera petrolio, sembra attaccata alla camicia con uno strato
di silicone. Dio Mio. Che sensazione sgradevole, mi sento appiccicoso come se fossi cosparso di miele. È proprio vero che i matrimoni d’estate sono una persecuzione per gli ospiti, penso. ‘Voi cuocete, mentre noi ci sposiamo,’ dovrebbe essere il crudele ricorrente pensiero degli sposi. E dire che quando ero vivo avrei scommesso che Valentina si sarebbe sposata un giorno d’inverno, magari in montagna, magari con me. Invece no. Valentina. Valentina si sposa. Valentina si sposa con un altro, in piena estate. Provo per l’ennesima volta una sensazione bruciante di sconforto. Il mio stomaco vorrebbe una tripla razione di Maalox. Mi guardo intorno. Per ora non è ancora arrivata. Nessuna macchina è scesa dalle colline o ha attraversato il ponte sul Po. Ancora tutto calmo. Lancio un’occhiata dentro, al di là delle tende della chiesa. Vedo ventagli bianchi che si muovono lenti e stanchi alla stessa velocità, come se ci fosse un ritmo celestiale che li guida. Attraversano l’aria ma non la smuovono di un centimetro. Non servono a niente. Qualcuno si schiarisce la gola. Qualcun’altro si aggiusta il nodo della cravatta. Tutti si sciolgono come ghiaccioli sui banchi. Gli uomini sono vestiti esattamente come me. Abiti scuri. Camicia bianca. Gocce di sudore. Scarpe strette. Ah. Le scarpe. Almeno le mie sono comode. Sono le All Star rosse. Stonano con il vestito, ma con loro potrei andare ovunque. Non conosco nessuno. Ci sono gruppetti di amici, coppie dall’aria annoiata di tutte le età. Potrei ancora scappare. Tagliare la corda. Non se ne accorgerebbe nessuno. È l’ultimo momento buono, mi dico. Scappa. Fallo per salvare tuo labile equilibrio mentale!
Io però sono venuto per lei. Per vedere Valentina. Per giocarmi l’ultima chance. Al solo pensiero una scarica di adrenalina mi attraversa le vene. Vetriolo! Improvvisamente una signora anziana, forse la zia di uno dei due sposi, con un modo di fare agitato, si affaccia sulla porta della chiesa e si guarda intorno. Mi vede. Perché mi vede? Io sono un fantasma. “Che cosa ci fa fuori dalla chiesa?” chiede. “Non lo sa che la sposa bisogna aspettarla dentro? Sta per iniziare la marcia nuziale! Amici e parenti della sposa a sinistra, amici e parenti dello sposo a destra. Lei, ragazzo biondo, di chi è amico o parente?” Mi sta parlando? Eppure sì. È ato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno mi ha parlato. Che cosa ha chiesto? Che cosa ci faccio qui? Esatto. Che cosa ci faccio qui? Vuole sapere le ragioni della mia presenza, signora? Vuole fare un salto indietro nel tempo? È forse anche lei un fantasma inquieto, gentile signora? Eh? È una lunga storia, sa? Lo chieda alla sposa. Una storia d’amore di due diciottenni, carica di ingenuità e rimorsi, condita da un errore fatale del sottoscritto. Una caduta, una caduta di stile. Risponderei. Giusto per parlare. Ma non dico niente. Ricambio lo sguardo con l’espressione ebete di una mucca che guarda are il treno. “Entri, entri anche lei, signore. Prenda posto, come tutti. Sta arrivando la sposa!” Sta arrivando. Sarà vestita di bianco. Le spose sono sempre vestite di bianco. Sarà emozionata. Le spose sono tutte emozionate. Sarà bella com’era allora? No.
Sarà ancora più bella. La vecchia mi ha quasi convinto. Devo adeguarmi all’etichetta, anche nelle vesti non convenzionali di fantasma? Devo sottrarmi al desiderio di vederla per primo, per scacciare subito i mostri? Devo dirigermi lentamente dentro la chiesa, come se fossi un robot telecomandato. Forse mi sentirò meno a disagio lì dentro, perché sarò uno dei tanti ospiti del matrimonio, una comparsa, anche se non compaio affatto. Mentre stacco il primo piede mi accorgo però che la suola è rimasta attaccata al marmo della scalinata. Sono appiccicato come un francobollo. Con la scarpa. E anche l’altro piede. Mi faccio forza. Non sento forza nelle gambe. Cerco di muovere le articolazioni, prima un ginocchio, poi il piede. Ce la sto per fare. Crick-crack fanno le ossa. Poi sento un rumore. Un rombo. Alzo lo guardo dal pavimento. Vedo lustrini attaccati agli specchietti. Una lamiera nera, lucida come uno specchio, paraurti in ottone come le Cinquecento di una volta, spari di luce dalle cromature. Un’auto di altri tempi si sta avvicinando verso la scalinata della chiesa. Anche i corvi appollaiati sulle due statue della chiesa, in fondo alla scalinata, si sono voltati. La vecchia che mi aveva chiesto di entrare fa un balzo e sparisce dietro le tende come un gatto. Mi accorgo di un sussurrare che proviene da dentro, parole che si accavallano, cariche di emozione. “Sta arrivando! Sta arrivando la sposa! Venga, venga dentro!” Mi appoggio a una colonna. Respiro. Non sono io lo spaventaeri che aspetta davanti all’altare. Mi sento mancare. Valentina! Allento il nodo scorsoio della cravatta. Rischierei di soffocare se non fossi già morto. Mannaggia. Cerco di ingoiare il rospo della malinconia. Mi devo fare forza. Su. Su. Su, Tommy. Devi distruggere i fantasmi del ato. Devi vederli in
faccia, affrontarli e farli scappare. Sei venuto qui per questo, proprio per questo. Poi tornerai a casa, o dove dovrai andare, senza fantasmi. Tornerai, ma non prima di averle parlato. Oppure mi dissolverò. Diventerò blu come il cielo o bianco come le nuvole, oppure marrone come il Po. Diventerò aria, che non pensa. Non importa. Finalmente sarò libero. Senza rimpianti per tutto quello che è successo, senza domande del tipo: “Come sarebbe andata se non fossi morto quando non avevo neanche diciannove anni?”
II
Trucco e parrucco. La sposa si prepara
A quanto pare il gran giorno è arrivato, pensava Valentina Valdieri pettinandosi i capelli. Mi sto vestendo da sposa. Insieme a lei c’erano la migliore amica, Lucilla, e la sorella gemella, Vittoria, uguale come una goccia d’acqua ma con un carattere completamente diverso. Dal giorno alla notte. Sabato. Erano a casa delle due sorelle. I genitori erano via per tutto il weekend. La radio suonava Rhythm is a dancer degli Snap, la canzone riempipista. “A che punto siete? Io mi devo solo vestire e truccare.” Lucilla era chiusa nel bagno da venti minuti. Poteva restarci ore, perché doveva farsi bella. Vittoria frugava nei cassetti del guardaroba della madre, nella cabina armadio a fianco alla stanza. “Vale, la mamma non ha una camicetta bianca? Vorrei mettermela, non la trovo.”
“Non so, cerca,” rispose la sorella. “Dai, Lucilla!” aggiunse con un tono irritato. “Puoi uscire dal bagno?” “Un attimo. Adesso!” Era Vittoria. “Ma come diavolo si fa a diventare la Regina della Notte?” “Eh, se non lo sai tu!” In fondo a me basta solo un po’ di trucco. Farà il resto il vestito, pensava Valentina. Io sarò la sposa. Era in mutandine e reggiseno. Il suo corpo era slanciato e sottile, i capelli neri, lunghi sulla schiena. Gli indumenti intimi invece erano bianchi, esattamente come il vestito da sposa sul letto matrimoniale dei genitori, comprato per trentamila lire al mercato del Baloon. Finalmente la porta del bagno si aprì. Uscì Lucilla muovendosi a ritmo con la canzone degli Snap, con un vestito succinto, una specie di fazzoletto rosso di paillettes, scintillante, che conteneva a malapena le sue abbondanti forme. Era truccatissima, con una parrucca fucsia in testa, tacchi a spillo come trampoli e un calice mezzo vuoto in mano. “Luci. Accipicchia. Sei una bomba! Dove l’hai trovato quel rossetto?” “Ti piacciono le mie labbra vermiglie, sposa? Sensuali, non trovi? Chiedilo a tua mamma, dove l’ha comprato.” Valentina si mise a ridere. Si era infilata il vestito. La taglia era perfetta. Si guardava allo specchio. Era proprio una bella sposa. “Comunque anche tu, Vale, non sei affatto male. Beato il tuo futuro marito!” Un attimo di silenzio. “Chi potrà mai essere il fortunato? Certo che tu, vestita così, non sembri la persona adatta per farmi da testimone!” “Perché? Non sono abbastanza elegante?” Le due risero.
“Dai su, beviamoci un altro bicchiere.” Avevano preso dal frigorifero una bottiglia di champagne del padre. In pochi minuti era evaporata. In quel momento entrò nella stanza Vittoria. “Allora, voi due! Siete pronte? Ma che bella sposa. Non è che porta sfortuna indossare quel vestito?” Lei indossava un tailleur. Calze nere, tacchi alti ma non troppo. Un giacchetta aperta e sotto una camicetta bianca. “Sfortuna? Perché? Siamo quasi pronte,” rispose Valentina. “Tu sembri una donna d’affari.” “O una segretaria,” fece eco Lucilla. “Tu sei pronta, Vale?” “Io ci sono quasi. Ma c’è un problema. Mi manca il bouquet. Una sposa senza bouquet non va da nessuna parte.” “Il bouquet? Come sarebbe a dire? Non ci avevi pensato?” “Accidenti, sorella,” aggiunse Vittoria. “Ora cosa possiamo fare?” “Troveremo una soluzione. Magari un fioraio aperto, una fioriera sul ponte… Boh?” “A quest’ora? È troppo tardi. Scordatelo.” Lucilla uscì dalla stanza e rientrò dopo pochi secondi. “Questo potrebbe andare?” chiese indicando un mazzo di fiori di plastica, estratto da un vaso decorativo di casa. Le due la guardarono. “Sei pazza!” rispose Vittoria. “Nostro padre non sarà per niente contento. Prima gli abbiamo bevuto la bottiglia, ora i fiori… Potrebbe farci fucilare!”
“Ma dai,” replicò Valentina, “capita una volta sola che la figlia del Generale si sposi, no? Come bouquet non è il massimo della vita. Ma mi posso accontentare.” Lucilla prese un nastro. Recise il gambo troppo lungo. “Ecco. A posto,” aggiunse, porgendo il bouquet improvvisato. “Ora sei pronta. Possiamo andare. Sempre se qualcuno ci viene a prendere.” Proprio in quel momento suonò il citofono. “Puntuale come la morte,” disse Vittoria. “Achille ha detto che non avrebbe tardato un minuto. E dire che ne spara in continuazione. Lui che ha fatto questo, lui che ha fatto quello, lui che è parente di questo e di quello. E poi si scopre che non c’è niente di vero. Racconta un sacco di balle! E ieri fa: ‘Non vi preoccupate, spaccherò il secondo!’. Gli avete creduto? Io non avrei scommesso mille lire. Invece eccolo qui.” Lucilla lanciò un’occhiata verso Valentina. “Beh. Quando gli capita di avere in macchina tre belle ragazze come noi?” disse. “No? Mi sta sempre appiccicato. Non lo sopporto.” “Perché non lo fai felice, eh, almeno una sera?” chiese Vittoria. “Stai scherzando? Che cosa vorresti dire? Io con quello? Sei matta! Se per caso lo sfiorassi, non me lo toglierei più di dosso.” “Se ti pagasse? Tutto ha un prezzo, no?” “Beh… Ma se non ha una lira! Finiscila, Vittoria.” “Dai,” aggiunse lapidaria Valentina, “non mi sembra proprio il suo tipo.” “Giusto, Vale. Comunque, per cambiare discorso, volete sapere un’altra cosa? Mi ha detto che alla festa ci sarà anche lui. Il suo amico, quello biondo della terza c.” “Chi?” chiese Vittoria. “Valentina lo sa…” rispose Lucilla lanciando un’occhiata all’amica.
Valentina le fece eco, inclinano la testa. “Sarà vero?” “Mah. Quando Achille ne spara una… bisogna vedere,” rispose Lucilla sorridendo. “Insomma, Vale, sei emozionata? Non sei contenta che ti sposi?” Valentina non rispose. “Non me lo volete dire chi è?” chiese Vittoria spazientita. “Non importa. Comunque, possiamo andare?” “Un attimo. Solo un attimo.” Lucilla e Vittoria, ormai sulla porta, si voltarono verso Valentina. “Non mi è ancora chiaro un particolare.” Le due la guardarono con aria interrogativa. “Chi è che dovrei sposare oggi?”
III
La messa. In piedi, seduti.
Sono sicuro che la sensazione che ho provato quando sono tornato sabato notte, dopo la festa di Carnevale, fosse la stessa del primo astronauta che ha camminato sulla Luna. Estasi totale, leggerezza e spensieratezza, un tuffo continuo in discesa su un ottovolante. Forse anche meglio. Finalmente ce l’avevo fatta. Galleggiavo a dieci centimetri dal suolo con l’immagine dei suoi occhi azzurri,
colorati come le luci del locale. Durante la notte mi ero alzato ed ero andato nell’altra stanza. Nicotina, la mia gattina grigio argento, dormiva sul divano. Mi ero affacciato dalla finestra, davanti a me c’era corso Francia, il corso più lungo, dalle montagne al cuore della città, mille luci bianche da una parte e rosse dall’altra, automobili che sfrecciavano con i loro fari nel buio. E sopra, anche se non le vedevo, di certo c’erano mille stelle pulsanti d’argento che ridevano come pazze alle tre del mattino. Preso la chitarra. Avevo imparato una trentina di canzoni di sco De Gregori, il mio cantautore preferito. Avevo iniziato a suonare con la cassetta in sottofondo. “Gli aerei stanno al cielo… come le navi al mare… come il Sole all’orizzonte la sera… Com’è vero che non voglio tornare… a una stanza vuota e tranquilla… dove aspetto un amore lontano… e mi pettino i pensieri… col bicchiere nella mano!” Si chiamava Renoir, quella canzone. A un certo punto mi ero accorto che c’era luce. Il Sole si affacciava timidamente e mi diceva che era ora di tornare a letto. Poi la luce svaniva, si dissolveva. Poi il buio. Oggi siamo nel 2002. Sono ati dieci inutili anni da allora, anche se non li ho vissuti, se non nei rapidi istanti che mi hanno portato qui, al matrimonio di Valentina. Nel frattempo la vita me la sono buttata alle spalle come se fosse uno zainetto Invicta e sono diventato quello che sono. Un fantasma. Ora però sono arrivato. In carne e ossa, o quasi, con i miei capelli biondi, spaghetti spettinati. Devo recuperare il tempo che ho perso. Lancio un’occhiata al mio Swatch, che non conta mesi e anni, né insignificanti minuti e ore. Le lancette sono rimaste ferme alle diciotto e trentuno, il momento esatto della mia morte. L’auto si è fermata davanti alla scalinata della Gran Madre. Tre fotografi si sono precipitati come falchi, si sono messi tra me la sposa. Non riesco ad avvicinarmi.
Non riesco a vederla. Mitragliano istantanee a raffica, immortalano ogni istante di lei che scende. Sparano scatti alla velocità della luce. Faccio un tentativo, salgo sulla punta dei piedi, cerco di vincere il peso di tonnellate che mi pressano dall’alto come nuvole, mi alzo di due o tre centimetri, combatto contro la ruggine delle ginocchia che scricchiolano. Cerco di sbirciare sopra gli obiettivi, di guardare nei display delle macchine fotografiche, di rubare l’immagine che desidero. Sto per vederla. Una scarica di adrenalina si diffonde nelle vene. Manca una frazione di secondo. Sento un incendio nello stomaco. Come se mi avessero sparato addosso con un fucile a pallettoni. Come se avessi mangiato un chilo di tritolo, poi esploso. L’incendio non potrebbe essere spento neanche da una secchiata di Citrosodina, magnesio e alluminio idrossido. La devo vedere. Ce la devo fare. La devo chiamare. La devo portare via, devo fare qualcosa prima che si sposi. Ma altri fotografi sono usciti come api dalla chiesa. Non mi vedono. Perché sono un fantasma. Mi spingono via come fossi una piuma. Inciampo nei gradini. Non solo non riesco a vederla. Cado. Colpisco una colonna. Mi rialzo giusto in tempo per vedere il Generale Valdieri, un uomo alto e distinto, che cammina in alta uniforme con il petto in fuori, con tanto di luccicante sciabola al seguito, come un pinguino di guerra sotto il caldo africano, a braccetto di una schiena bianca, quella della sposa. Non riesco a vedere altro. Il Generale è il papà di Valentina. Un uomo tutto d’un pezzo. Serio. D’acciaio. Lo stereotipo del militare di carriera. Uno così che cosa poteva pensare di me, quando uscivo con sua figlia e mi presentavo a casa loro con la maglietta dei Clash? C’era poco da immaginare.
Il Generale è lo stesso che me l’ha portata via, maledetto. “Missione segreta dietro la cortina che si sta sgretolando. Dobbiamo mettere le basi per l’espansione della nato aldilà del muro. Perché in Europa non esisterà più il comunismo, questa brutta bestia,” aveva detto a Valentina, pochi giorni prima di partire con lei e la mamma. Via da Torino. Così è andata. La storia gli ha dato ragione. Ora la guida dentro la chiesa, tenendola sotto braccio, per consegnarla a uno sposo molto più pettinato di me. Un altro! Mi rialzo. Mi massaggio le ginocchia. Non avrei mai pensato che un fantasma potesse avere dolori alle articolazioni. “We are spirits, in a material world…” canterebbero i Police. Prendo fiato. Respiro. Gonfio i polmoni come se fossero i braccioli per il bagnetto di un bambino. Respiro. Almeno ci provo. Ma l’aria che ingoio è calda. Mi a nel torace come se fosse uno scolapasta. Non riesco a respirare. Mi faccio forza. Bravo, mi dico. Tutto sommato sei venuto qui proprio per questo. Per farti del male. Tanto male. E nella condizione in cui sei non è neanche indispensabile respirare. Improvvisamente esplode nell’aria incandescente la marcia nuziale, suonata da un organo che infrange potente il silenzio. Due corvi neri si alzano dalle statue gracchiando. Mi sembra che ripetano: “Crepa-cretino, crepa-cretino!” Planano per qualche metro nella mia direzione, poi si librano nell’aria volando via verso il Sole di fuoco di cui non hanno paura. Andate a farvi fottere, maledetti uccellacci! “Crepa-cretino, crepa-cretino!” Faccio a fatica un o dopo l’altro. Uno alla volta, uno alla volta. Lentamente entro.
Il Generale con cervello imbottito di sabbia e tritolo e la futura sposa sono ormai arrivati all’altare. Sono troppo lontano per vederli. Dopo la mia dipartita, tra tutti gli effetti collaterali, c’è anche stato un notevole e progressivo calo delle diottrie. Sono un fantasma che dovrebbe andare dall’oculista! Intravedo lassù, circondato da fiori bianchi, un vecchio prete. Di certo non è un angelo. Sembra l’uomo con gli arti palmati, il record-man del volo senza paracadute. Con quel vestito candido e dorato è immenso. La luce delle candele lo illumina come se fosse alogena e celestiale nel suo massimo splendore. Ci sono altri due suoi colleghi anziani, uno a destra e uno a sinistra. Sembrano angeli spennati, con le sembianze di Icaro. Addirittura tre, tre preti! Che staff! Di certo lo sposo è uno di quelli che contano. La sua famiglia deve essere conosciuta, onorata e rispettata. Deve essere una famiglia tradizionalista, timorata di Dio, che muove le leve giuste non solo sulla Terra, ma anche lassù in Paradiso, sulla collina di Torino. Così dai piani alti hanno mandato una bella squadra di sacerdoti, non ne bastava uno come per tutti. Un terzetto stile Nirvana, voce-chitarra, basso e batteria. Strisciando i piedi, un o alla volta, mi spingo nell’angolo più buio e polveroso della chiesa. Se qualcuno mi vede mi potrebbe scambiare per una statua, cosparsa di fuliggine, ingobbita e con le budella attorcigliate in un gomitolo. Potrei appendermi al soffitto per somigliare a un Batman senza arte né parte, con bucatini al posto dei capelli. Oppure stare in piedi come tutti. Certo. Sono io il particolare sbagliato della cerimonia. Sono l’unico che non è stato invitato. Sono uno spirito mimetizzato tra la polvere. Ma il fatto è che sono ancora perdutamente innamorato della sposa, anche se qualcuno lassù ha staccato la spina. Inizia la messa. In piedi. Seduti. Amen. In piedi, seduti. Amen.
In piedi. Amen, seduti. E così via per circa quaranta minuti. A un certo punto un attimo di silenzio. Un colpo di tosse. Quando inizia il primo colpo, tutte le volte, qualcun altro si ricorda che deve tossire e si sente il secondo. E poi il terzo. E magari anche il quarto, come se ci fosse l’eco. Improvvisamente si diffonde nell’etere un suono elettronico. Come una canzone da discoteca. Tutti si voltano nella direzione da cui proviene il rumore. Una signora cinquantenne, vestita con un abito arancione scintillante, armeggia nervosamente nella sua piccola borsetta. “Accidenti, accidenti, il telefonino…” dice. Non capisco che cosa sia, il telefonino. Deve essere pazza. La musica continua a suonare. La messa è interrotta e tutti fissano la signora. Secondi interminabili di imbarazzo. “Non lo trovo, non lo trovo…” ripete continuando a frugare nella borsa. Si arrende. Esce dai banchi e zampetta su tacchi altissimi verso l’uscita, sotto lo sguardo scandalizzato di molti, con la stupida musica elettronica che continua a suonare. Quando finalmente il suono si dissolve e la signora sparisce sui suoi trampoli la messa può ricominciare. Io sono rimasto in piedi, immobile. Se provassi a piegarmi mi scricchiolerebbero le ginocchia. Crick-crack. Se qualcuno sentisse il rumore potrebbe dire ancora una volta che questa chiesa è il simbolo del demonio e che Torino è una città maledetta. Forse è vero. Perché io sono la prova provata dell’esistenza dei fantasmi. Esistono, e ce ne sono da tutte le parti. Non solo sotto la Mole Antonelliana. Non mi muovo di un centimetro, rimango attaccato alla colonna come un ragno. Divento polvere. “Scambiatevi un segno di pace,” dice a un certo punto uno dei preti. Tutti i pinguini e le ancelle si salutano stringendosi la mano, come si conoscessero e non si fossero mai insultati a un semaforo. Si dicono: “Pace-
pace-pace,” con sorrisi falsi, stampati in faccia come francobolli. Perché non vi scambiate un segno di pace, torinesi falsi cortesi, quando siete incolonnati incazzati neri in fila a un semaforo? Perché solo ora che ve lo sta chiedendo qualcuno? Mi stringo ancora di più alla colonna. Voglio scomparire, diventare di marmo. Non devo fare pace con nessuno, se non forse con me stesso. Perché devo dimenticare la sposa. Lei. Lei. Lei. Occhi colore dello spazio e capelli neri come il buio. Pelle bianca come la Luna e sorriso di latte. All’improvviso una sagoma spunta nel buio. Un’ombra viene verso di me con un sorriso di circostanza spiaccicato in faccia, porgendo una mano ossuta che spunta da un abito fuori misura. “Pace!” esclama. La luce di una candela illumina il suo volto spigoloso. Lo riconosco. Lui, quel personaggio rachitico, il mio compagno di classe, ossa sottili e il sorriso sempre triste. Era il mio migliore amico. Achille Sparviero. ava il tempo chino dentro scatole di Commodore 64 e Vic 20. Beveva birra Adelscott o Ceres e cantava La leva calcistica del ’68, mentre suonavo la chitarra. Ogni tanto spariva per qualche giorno e quando tornava raccontava storie incredibili. Tutti lo consideravano il Banfone-di-prima-categoria. Anche se si chiama Achille, era tutto il contrario di un eroe omerico. Appena mi vede fa un balzo. Sgrana gli occhi. Spalanca la bocca, come se avesse visto un fantasma. “Tu… Tommy? Tu qui…” balbetta. Anch’io sono stupito. “Mi vedi, Achille?” “Ti vedo. Altrimenti non parlerei, non ti sembra?” risponde come se fosse la cosa più banale del mondo. “Hai ragione. Ebbene sì, guarda a caso, sono tornato proprio oggi. Ci ho messo
tanto, tanto tempo.” “Dove sei stato?” “Lontano.” “Lo sapevo, me lo sentivo che saresti arrivato.” “Sì? Come mai? Sono ati tanti anni. Quand’è l’ultima volta ci siamo visti? Durante quell’estate, dopo la maturità? In un’altra vita? Su un cornicione?” Diventa bianco come un cencio. Ancora più di quanto già non fosse. “No. Sul cornicione no. Non ci siamo visti sul cornicione. Che cosa intendi dire? Non sono stato io a spingerti giù, Tommy. Non sono stato io ad ammazzarti.” “Sono caduto da solo?” Achille non risponde. Non mi guarda in faccia. “Te lo giuro, te lo giuro. Almeno tu… dovresti sapere…” “Achille,” dico appoggiandogli una mano sulla spalla. “Ti credo. Sono certo che non sei stato tu. E poi oggi non voglio pensarci. Sono qui per vedere Valentina.” Achille rialza la testa. “Valentina? C’è anche lei?” mi chiede stupito. “Achille, stai bene? Hai perso qualche rotella?” “Sì! Sì, tante rotelle! Come fai a saperlo?” “Beh. Già dieci anni fa non eri così a posto.” “Comunque grazie, grazie amico mio. Sono contento, sai? Ho aspettato tanto questo momento, le tue parole, la tua assoluzione.” Sorride. Resta ancora un attimo in silenzio. “Mi assolvi, eh? Vero che mi assolvi? Sono felice. E tu oggi puoi rivedere Valentina… Sei emozionato?” mi chiede poi più rilassato. “Ah. Lo sai? Da qualche parte c’è anche Lucilla. Forse fa la testimone. Dovremmo cercare anche lei. Io, te, Valentina e Lucilla. Noi quattro. Come ai bei tempi. Come quella volta che siamo andati in montagna, tanti anni fa.”
Lucilla. Detta Luci. La nostra amica in comune. Achille, Valentina, lei e io. Inseparabili. Insomma, apparentemente inseparabili. “E poi parliamo, io e te,” riprende. “Mi spieghi che cosa avevi in testa di fare, quel giorno, quando te ne se andato? Stavi partendo per Praga? Eh? Me lo dici una volta per tutte? Mi spieghi? Mi dici poi perché ti è venuto in mente di andare a fare lo scherzetto agli spacciatori?” Eh sì. “Erano amici tuoi, Achille? Perché non me lo avevi detto prima?” Ma qualcuno aveva pensato bene di ammazzarmi. Achille? Proprio tu, amico mio?, penso. Non mi risponde, il suo sguardo è perso nel vuoto. “Ah, Achille. Che ora è?” Si risveglia di colpo. “Diciassette e trentacinque!” dice senza guardare l’orologio, perché non ce l’ha. Sbircio il mio Swatch, ma è fermo da allora. Guardo l’orologio di una signora vicino a me. Esatto. Diciassette e trentacinque. Ai tempi in cui ci frequentavamo aveva dimostrato un certo sesto senso quando si trattava di capire che ora fosse. Non sbagliava di un minuto. “Allora non sei cambiato.”
IV
Gli sposi si possono baciare
“I can’t get no… satisfaction,” urlava a squarciagola Mick Jagger. Lucilla lanciò un’occhiata furtiva verso la pista. La festa di Carnevale di sabato 20 febbraio 1992 era un successo. La luce bianca accecante della strobo a intermittenza, raggi colorati che attraversavano l’aria densa di fumo. Sotto ballavano tutti, tranne lei e altri due. Valentina, la sposa, era appoggiata a una colonna e stava baciando Tommy, vestito come uno dei Blues Brothers, con un abito scuro, la cravatta nera e le All Star rosse. Un bacio romantico, non come quelli che era solita dare Luci. “Ora gli sposi si possono baciare…” dicono nei film americani. L’inizio di tutto? La fine di tutto? Non era facile per Lucilla, dalla sua posizione, tenerli d’occhio. Ma tanto ormai era troppo tardi. E non le importava più. Il dj in quel momento era di fronte a lei. Lei era in ginocchio all’altezza della cintura del dj, sotto la consolle. Ma chissenefrega. Mi devo divertire anch’io. E stasera non ho nessuna intenzione di fare la santarellina. Era salita sul palco del dj quando si era accorta che Valentina e Tommaso parlavano da troppo tempo, senza staccare gli occhi l’uno dall’altra, come se fossero calamitati. Aveva capito che per lei non c’era spazio, perché ormai il Biondo, il più figo della scuola, aveva scelto Vale. Quindi doveva trovare una soluzione alternativa. Si era guardata intorno. C’era una massa di adolescenti sbarbatelli, sudati e sgomitanti, alcuni affetti da acne e da infantilismo non ancora guarito. Qualcuno di loro era vestito da Zorro, come se quella fosse la festa di Carnevale delle elementari. Ma Lucilla non aveva nessuna intenzione di fare la babysitter. Lei era molto più avanti. E vestita così, con la parrucca fucsia, le cosce scoperte, le tette di fuori e uno strato di rossetto rosso, senza dubbio dimostrava molto più dei suoi anni. Quindi poteva farsi chi voleva. Anche un vero uomo. L’unico che sicuramente aveva più di vent’anni, decisamente molti di più, forse
anche di trenta, era il dj, appollaiato come un gufo sul trespolo sopra la pista, raggiungibile salendo una ripida scala a chiocciola. Lucilla aveva preso un mojito per sé e uno per lui. Era andata sotto la consolle e aveva iniziato a farsi vedere, ballando in modo sensuale nella sua direzione. La sua maschera di Carnevale, se così si poteva chiamare, l’aiutava a metterla in luce. L’abito di paillettes sparava scintille da tutte le parti. Lui le aveva lanciato uno sguardo d’assenso e subito dopo aveva fatto un cenno a quelli della sicurezza davanti alla scala affinché la fero salire. Lucilla non aveva perso tempo. Lassù si aspettava di vedere dischi da tutte le parti. Invece no. Intorno al dj non c’era praticamente nulla. C’erano cinque o sei quarantacinque giri. Che strano, pensò. È tutta la sera che suona, avrà cambiato almeno trenta canzoni. Ma dove la prende la musica? Si accorse che la stava fissando. Da vicino le sembrò ancora più interessante di quello che le era parso da sotto. Capelli neri, occhi neri e un profilo sfuggente. Unghie lunghe e affilate. Uno sguardo che faceva un po’ paura. Ma lui era un uomo, non come tutti quei ragazzini appena svezzati che si dimenavano come tarantole sulla pista. Si avvicinò a un palmo dal dj. Gli porse il mojito. Appena finì una canzone lui lo prese. Cambiò il vinile e ne appoggiò un altro sul piatto. Posò la puntina e partirono le note di Smell like teen spirit dei Nirvana. In pista si stava per scatenare il finimondo. Correva alla disperata il 1992, e quella era la canzone più ascoltata dai giovani di tutta la Terra. Kurt Cobain era ancora vivo e vegeto e cantava il pezzo più bello, pura adrenalina e voglia di spaccare tutto. Il dj fece a Luci un cenno di avvicinarsi. Cobain urlava disperazione. Qualche anno dopo si sarebbe sparato in bocca. Il dj abbracciò Luci con una certa forza e le mise la lingua in bocca. Peccato. Tommy piaceva anche a me, pensò Lucilla in quell’istante. Con quello
sguardo perso, i capelli biondi e i suoi silenzi. Ma ci ha pensato prima Vale. Non fa niente. Perché io sono la Regina della Notte. Nel frattempo Achille, vestito da vampiro, cercava Lucilla da tutte le parti. E dire che con quella parrucca era difficile perderla di vista. Ma lì, tra le gambe del dj, non l’avrebbe di certo trovata. Achille girava intorno alla pista con una sensazione di sconfitta, mentre raggi di luce attraversavano il fumo che sovrastava la folla, come se fossero frecce infuocate, e le note precipitavano come una pioggia di bombe. Cercava di stropicciarsi gli occhi per vedere meglio. Aveva bevuto tantissimo. Un Cuba libre dietro l’altro, la sua drink card sembrava un groviera e gli girava la testa. Niente da fare. Non la trovava da nessuna parte. Accidenti. Erano mesi che ronzava intorno a Lucilla. Non era bella. Ma in fondo neanche lui era considerato granché dal genere femminile. E poi si diceva Luci fosse una che ci sapeva fare e che fosse di bocca buona. Per tutta la settimana aveva pensato che la festa potesse essere la migliore occasione per provarci. Era nervosissimo. Andò verso il bagno, pensando che forse Lucilla potesse essere lì. Avrebbe tentato il tutto per tutto, anche se sentiva le gambe pesanti e barcollava, decisamente ubriaco. Da un momento all’altro con il suo mantello da pipistrello avrebbe potuto prendere il volo. Quando arrivò davanti al bagno degli uomini, un ragazzo gli disse: “Ehi tu, Dracula, vieni che è la tua serata fortunata”. Achille non ebbe il tempo di rispondere che venne tirato dentro. Aveva la vista annebbiata. Appena riuscì a mettere a fuoco si accorse che davanti ai lavandini erano in quattro. Erano i brutti ceffi che spacciavano davanti al liceo. Vestiti come i Drughi di Arancia Meccanica, con tanto di bombette e trucco in viso. Uno dei quattro aveva bloccato la porta con un piede. “Sai, no, chi siamo?” esordì uno. “Io sono il capo. Mi chiamano Il Ruvido. I miei amici,” aggiunse indicando gli altri, “sono Il Topo, Capestroni e La Spia. E tu chi cazzo sei?”
“Mi chiamo…” iniziò a biascicare Achille. “Non importa,” lo interruppe Il Ruvido. “Tu per noi sei Dracula. Va bene?” Gli altri annuivano. “Allora, Dracula. Vuoi provare la nostra bamba?” chiese. Cosa? Subito Achille non capì che cosa stesse succedendo. Fino ad allora non aveva mai tirato cocaina. E mai nessuno gliela aveva offerta. Con Tommaso aveva fumato un po’ di maria. Una volta avevano provato il popper. Nient’altro. In quel momento però era sbronzo. E parecchio deluso per la piega che aveva preso la serata. Lucilla era sparita. Tommy era con Valentina. In quel momento Achille sentì per la prima volta dentro di sé quell’istinto autodistruttivo che lo avrebbe accompagnato durante tutta la vita, fino alla fine. Quell’istinto, nutrito dall’alcool e dall’insoddisfazione di aver preso l’ennesimo due di picche, ebbe la meglio. “Va bene. La provo… la bamba. Grazie.” Tirò la prima striscia che gli avevano preparato. E subito la seconda. Quando uscì dal bagno, tra le pacche sulle spalle dei quattro Drughi, gli bruciava un po’ il naso ma gli sembrava di volare. Che bello. Non pensava più a Lucilla. Che bello. Non pensava più a niente. Stava bene, stava benissimo! Cosa poteva fare? Poteva fare tutto! Poteva andare a prendere un altro Cuba libre e iniziare a divertirsi sul serio. Poteva cercare Lucilla, oppure poteva provarci con la prima che gli capitasse sotto mano. Poteva poteva poteva. Gli era rimasto impresso quello che aveva fatto il Ruvido. Non se lo sarebbe dimenticato.
“Allora, Dracula, che cosa ne pensi? Ti è piaciuto? Sai dove trovarci. E se ti comporti bene possiamo anche cercare un lavoretto per te.” Quando il giorno dopo raccontò a Tommaso quello che gli era successo, ebbe l’impressione che non gli credesse. “Gratis? Te l’hanno data gratis?” aveva chiesto incredulo. “E tu, che non sai rollare neanche una canna, l’hai presa? Davvero?” Presto sarebbe andato a cercare quei quattro.
V
Lo scambio degli anelli
Praga. La sola parola risveglia un fiume di ricordi. Uno su tutti, l’ultima in cui ci siamo visti prima che Valentina partisse, proprio per Praga. Luglio avanzato. Erano ati quasi cinque mesi dalla festa di Carnevale. In quei giorni i mafiosi avevano fatto saltare in aria il giudice Borsellino e la sua scorta, la piccola Danimarca aveva vinto gli Europei di calcio e Valentina e io avevamo superato l’esame di maturità. I risultati degli esami dovevano ancora uscire, ma avevo l’impressione che fosse andata bene, meglio di quanto potessi sperare. Avevo azzeccato il senso della versione di greco, scritto un tema che sembrava leggibile e superato gli orali rispondendo a tutte le domande che mi avevano fatto. Vale e io eravamo stati insieme tutti i giorni. Di giorno studiavamo e la sera uscivamo da soli o con gli amici. Eravamo inseparabili, io, lei e Nicotina, la gattina di sei mesi, un proiettile d’argento. Ma dietro l’angolo si nascondeva una triste realtà.
Quella sera, l’ultima, eravamo andati al cinema. Dopo il film eravamo andati a fare due i sul Lungo Po, dove tra le increspature della corrente si riflettevano le luci della città. Intanto trascorrevano secondi dopo secondi, minuti dopo maledetti minuti. Il nostro tempo si stava consumando. Mi ricordo ogni istante. Stava per finire tutto. Erano ati tre giorni da quando mi aveva detto che suo padre, il Generale Valdieri, non ne voleva sapere di lasciarla studiare a Torino. Sarebbero partiti tutti: papà, mamma e lei. Se ne sarebbe andata. Sarebbe rimasta a Torino solo sua sorella Vittoria che anche se aveva la sua stessa età era un anno più avanti. Frequentava il primo anno di Economia e Commercio. Valentina aveva litigato furiosamente con il Generale. Gli aveva ripetuto che non voleva partire, non voleva lasciare i suoi amici e il suo fidanzato. “Potrai studiare là. Avrai nuovi amici. E quello lì, il biondo, è un poco di buono. Quindi non perdi niente a lasciare Torino e tutto il resto,” aveva risposto. Valentina aveva minacciato di scappare. Ma lui non ne aveva voluto sapere. Gli ordini erano ordini e un soldato semplice, come la figlia, doveva ubbidire senza battere ciglio. Così, da un giorno all’altro, mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Se ne sarebbe andata poche ore dopo. Mi avrebbe abbandonato. “Cercherò un lavoro. Metterò da parte i soldi e verrò da te,” le dissi. “Lo prometto. Ti porto via.” Mi abbracciava. Il Po intanto stava in silenzio ad ascoltare e annuiva, e anche le sue increspature sembravano sorrisi beffardi. Una morsa mi stringeva lo stomaco. “Te lo giuro, ti raggiungo appena posso. Appena ho i soldi. Prendo la chitarra, Nicotina, il nano da giardino, qualche vestito e parto. Tu aspettami.” Mi guardava negli occhi. Poi diede un’occhiata al suo Swatch. Ne aveva uno identico al mio. “È ora. Parte l’ultimo tram.” Fissavo l’asfalto. Strisciavo i piedi come un bambino ribelle. Scalciavo i mozziconi di sigarette.
Salimmo sul 13 arancione che dopo pochi secondi iniziò a calpestare le rotaie, sferragliando nella città. Ogni fermata di quel mostro era un o verso l’imminente addio. Ci mancava poco che il tram iniziasse a fare ciuf-ciuf, come uno di quei treni a vapore che portano all’oblio. A un certo punto arrivammo sotto casa sua. Scendemmo. Ci salutammo. Rimasi da solo. Sul tram del ritorno c’eravamo solo io e l’autista, che sicuramente aveva altri pensieri per la testa. Ogni tanto sbirciava nello specchietto per vedere se il ragazzo biondo, rannicchiato su un seggiolino, la smetteva di tirare calci contro il sedile di fronte. A un certo punto disse: “Brutta bestia, eh, la guerra?” “Eh sì,” risposi pensando al Generale. “Anche quelli che la fanno, la guerra.” Poi Valentina partì. Mi trovai nel pieno di una lunga estate. Arrivò l’autunno con le foglie che cadevano. Il Sole diventava un pallone di cuoio grigio e consumato, con le cuciture che saltavano via, e la malinconia era sempre più umida e densa, come le nuvole nel cielo di Torino. Novembre. Dicembre. Freddo, sempre più freddo. Chissà cosa sta succedendo dietro la cortina di ferro, crollata a Praga dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989. Fuori dalle finestre, pochi giorni prima di Natale, c’era una nebbia che avviluppava ogni cosa. Era ferma immobile sulla neve quasi sciolta, nascondeva tutto. Io ero chiuso in casa con Nicotina, nel massimo splendore dell’abituale disordine. Il nano da giardino, souvenir di una gita in montagna, sottratto alla compagnia dei suoi sei fratelli, mi fissava con il suo sguardo ebete. Ero stanco morto. Avevo lavorato ininterrottamente per mettere da parte i soldi. Venti, trentamila lire al giorno. Qualche monetina e mancia. Briciole. Non mi bastavano neanche per pagare il treno. Vivevo da solo in un buco. I miei genitori erano tutti e due morti qualche anno prima in un incidente stradale. Mi avevano lasciato debiti, un affitto da pagare e una razione esagerata di rabbia da consumare ogni giorno, come dei pacchetti di
cracker per un topolino. Nel frattempo avevo finito la scuola. Avevo scoperto che alla maturità avevo fatto il pieno: sessanta sessantesimi, il massimo. Anche se non ero mai stato uno studente modello, mi ero improvvisamente trasformato in un ‘secchione’. Mia zia aveva chiesto se avevo intenzione di iscrivermi all’università. Mia nonna aveva detto che se i miei genitori, se ci fossero ancora stati e non mi fossi laureato, non sarebbero stati contenti. E la vecchia professoressa di italiano ogni tanto ava da casa mia, suonava il citofono e chiedeva se avessi scelto tra lettere e storia. Oppure chimica, visto che ero tanto bravo, o anche qualcos’altro, l’importante era continuare a studiare. “Ma il fattorino no, proprio no,” ripeteva. “Tu, Tommy, devi restare sui libri.” Io invece facevo il pony express, dribblavo le macchine ai semafori come faceva all’epoca Roberto Baggio con i difensori, e cercavo di risparmiare. E poco importava se negli anni prima ero stato il migliore a scrivere i temi e se conoscevo a memoria la tavola periodica. Stavo per compiere diciannove anni e non avevo altro pensiero oltre al viaggio a Praga. Avrei fatto una sorpresa a Valentina. Sarei comparso quando meno se lo aspettava. Il problema però era che i sogni di gloria erano destinati a naufragare. Rivoltai le tasche. Feci un calcolo di quello che avevo. Era troppo poco. Dovevo fare qualcosa, trovare in fretta una soluzione. Qualsiasi cosa. Il 23 dicembre ricevetti una proposta. Li avevo incontrati in un locale. C’erano tutti e quattro: Il Ruvido, Il Topo, Capestroni e La Spia. avano il tempo nel parco davanti alla scuola a vendere fumo e coca. Il loro giro in pochi mesi si era allargato. Vendevano anche a quelli delle medie. Li conoscevo di vista. E loro conoscevano me. A scuola sapevano tutti della mia storia e dei miei guai familiari, e mi rispettavano. Molti pensavano che fossi più sveglio della media, forse perché a diciotto anni ero l’unico che, volente o nolente, viveva da solo. Mi presero in disparte. “Tu non hai famiglia, non fai le scuole, i il tempo su un motorino,” mi disse Il Ruvido. “Senti che cosa abbiamo da offrirti.” Ascoltai e il giorno successivo ci pensai. Una fitta di adrenalina mi attraversò le vene. Tanto sono una manica di stupidi, quando si accorgeranno che li avrò fregati
sarò già oltre il confine. Mi avevano chiesto se volevo aiutarli. Si trattava di portare dei soldi al loro fornitore, un solo viaggio, e prendere il fumo che dovevano vendere. Girava voce che la polizia li stesse tenendo d’occhio, e avevano bisogno di qualcuno di insospettabile e fuori dal giro. Mi dissero che avrebbero pagato bene. Ero solo in casa con Nicotina che correva da una parte all’altra della stanza per rincorrere una palla da ping pong. L’idea mi frullava nella testa come una trottola. Era diventata come la pallina di Nicotina. Correva da un parte all’altra del mio cervello. Il nano da giardino, piazzato davanti alla porta d’ingresso, mi guardava con aria severa, come per dirmi: “Non-ti-mettere-nei-guai”. Non ce la facevo più a stare fermo. Avevo bisogno di soldi. Di tanti soldi. Per partire. Per sparire. E mettermi nei guai mi era sempre piaciuto. Sì. Avrei detto di sì. Mi vennero i brividi, dalla punta dei piedi fino alla nuca. “Nicotina, te la senti di fare un bel viaggio? Aspettami, torno subito. E tu, maledetto nano, fatti gli affari tuoi, oppure ti riporto dove ti ho trovato.” Scesi per strada e andai alla cabina del telefono. Chiamai Il Ruvido. “Ci ho pensato. Ci sono. Va bene.” “Perfetto. Domani vieni da me, facciamo tutto in giornata. Poi alle sette ti vengo a trovare, mangiamo una fetta di panettone, una bella canna e siamo a posto. Buon Natale, come si dice da queste parti.” Ah ecco. Era la Vigilia di Natale. Mi sarei fatto un regalo. Il viaggio. Il giorno dopo lo raggiunsi. Mi diede dieci milioni di lire. Una cifra pazzesca. Non avevo mai visto tanti soldi insieme. Dovevo andare a prendere tre chili di fumo. “Ci fidiamo di te perché sappiamo dove stai, e se fai il furbo sappiamo dove venirti a prendere,” aveva aggiunto con un’aria da duro, prima di salutarmi. Se mi beccava la polizia finivo dritto al carcere delle Vallette, a are Natale e
Capodanno tra le sbarre, vestito a strisce orizzontali bianche e nere. Altroché Praga. Io però sapevo cosa fare. Sarebbe filato tutto liscio. “Non c’è nessun problema. Vado in motorino. Oggi è Natale, in giro non ci sarà nessuno, tranne Babbo Natale. Ci vediamo alle sette.” Tornai a casa con i soldi. Non sarei andato a prendere il fumo. La vado a cercare. La vado a cercare! Posso partire. Ripeteva nella mia mente l’idea che rimbalzava impazzita. Ero agitato. Dovevo fare in fretta. Più rapido della luce. Sarei andato alla stazione e avrei preso il primo treno, sarei scomparso come una goccia di pioggia nel mare. Frugai nei cassetti per vedere se c’era qualcosa che mi sarebbe potuto servire. Calze, mutande, una maglietta. Sì, no, no. Quattro cose e basta. In fondo a un cassetto trovai una drink card. C’era scritto: nottata d’inferno! festa di carnevale. Erano segnate cinque consumazioni che non erano state bucate. Accidenti. Com’era possibile? Una drink card non esce mai da un locale. Bisogna sempre consegnarla all’uscita, dopo aver pagato. Se esce fuori è perché è successo qualcosa di strano. Lo sanno tutti, anche i ragazzini di quindici anni. Da dove arrivava quella tessera? La guardai meglio. E mi ricordai. Una botta di dopamina si diffuse nel mio cervello. Era della discoteca dove Valentina e io ci eravamo conosciuti. Alla festa di Carnevale. Quella festa. Lei era bellissima, vestita da sposa. Io ero uno dei Blues Brothers, con un abito nero, una camicia bianca e una cravatta nera. Solo lo Swatch e le All Star rosse stonavano. Avevamo ballato, ci eravamo baciati. Ci eravamo messi insieme proprio quel giorno. Avevo perso la testa proprio quel giorno.
Presi la drink card. Me la misi in tasca. Forse mi avrebbe portato fortuna. L’avrei fatta vedere a Valentina, anche lei si sarebbe ricordata di quella serata. Mancava ancora mezzora alle sette. Dovevo però fare in fretta. Mi misi in spalla la chitarra e infilai Nicotina nella sua gabbietta. “Piccola, non ti preoccupare, presto arriveremo da Valentina.” Nicotina era brava, non piangeva, si accucciava sulla sua copertina e si guardava intorno curiosa di tutto. Andai in bagno. Diedi un’ultima occhiata allo specchio. Mi venne in mente una canzone di De Gregori che mi sembrava appropriata per quel momento. “Arriva Babbo Natale… Carico di ferro e carbone… Il figlio del figlio dei fiori lo uccide… con un coltello e un bastone… Le nuvole ano dietro la Luna… e da lontano sta abbaiando un cane…” Lo specchio rifletteva un’immagine coraggiosa e determinata, un viso sereno. Ecco. Steve McQueen prima della Grande Fuga. “In pochi minuti si sparse la voce… che Babbo Natale era stato ammazzato… Così Dolly del mare profondo… e il figlio del figlio dei fiori… si danno la mano e ritornano a casa… tornano a casa dai genitori.” Dlllimmm, con un accordo che si perde nel silenzio. Poteva bastare. Mi avvicinai alla porta d’ingresso e misi la gabbietta accanto al nano da giardino a cui dissi addio. Era questione di attimi e avrei tagliato la corda. “Andiamo, Nicotina.” In quel momento però sentii un rumore. Arrivava dalla porta, dalla serratura, da fuori. Oddio. C’era qualcuno che stava girando la chiave. Forse hanno visto che non sono andato all’appuntamento per comprare la droga, pensai.
Mi stavano tenendo d’occhio. Cosa potevo fare? Non mi dovevano vedere. Mi buttai verso la finestra. La serratura della porta d’ingresso era un po’ difettosa, ci voleva del tempo per aprirla. Sentivo che dall’altra parte c’era qualcuno che trafficava ma non riusciva a girare la chiave. Ora sparisco. Evaporo. In tasca avevo la busta con i soldi. Avevo la custodia della chitarra a tracolla. Forse sarebbe stato meglio se avessi lasciato qualcosa. Aprii la finestra. Uscii sul cornicione. Un freddo cane. Forse era arrivato a Torino l’Abominevole Uomo delle Nevi portandosi dietro il gelido clima della montagne. Ero al primo piano. Dovevo solo fare qualche metro, arrivare fino alla grondaia e calarmi giù come l’Uomo Ragno. Sarebbe stato un gioco da ragazzi. La finestra alle mie spalle si richiuse di scatto. Con una mano mi appoggiavo al muro, nell’altra stringevo la drink card. Il muro era umido. Pensai che dopo una manciata di minuti sarei stato in viaggio verso la mia nuova vita. Sarei stato di nuovo felice. Con Valentina. Si scivolava. Su quel maledetto cornicione si scivolava. Non ci avevo pensato. C’era uno strato di ghiaccio, viscido come sapone. In un lampo mi venne in mente l’immagine di lei e la sensazione di camminare sulla Luna. Walkin’ on… walkin on the Moon. Ero sospeso nel vuoto. Mi sentivo leggero. Leggerissimo. Senza gravità. Non era stata una buona idea, uscire dalla finestra. Merda, si scivola. Merda, le All Star non fanno presa.
Feci qualche o incerto indietro. Ficcai le unghie nella parete. Sentii l’intonaco che si sgretolava. Arrivai lentamente all’altezza della finestra. Chiusa. La finestra era chiusa! Fu in quel momento che la tenda si apri. La finestra si spalancò violentemente verso l’esterno. Contro di me. Sbirciai. Ma non ebbi il tempo di rendermi conto di chi ci fosse dietro. Poi un buco nero nella memoria, come quelli dello spazio, quelli di cui ci aveva parlato il professore di chimica. Stavo volando. Una sensazione di vuoto. Rapida. Istantanea. Come quando Achille e io ci tuffavamo dalla roccia a tre metri dall’acqua gelida del mare ligure. Ecco, ebbi il tempo di pensare, questa è la sensazione che prova Wile il Coyote mentre insegue Road Runner che fa il suo irridente verso, beep-beep!, e Wile si trova improvvisamente oltre il precipizio per qualche frazione di secondo, il tempo giusto per stiracchiarsi, darsi una grattatina e accorgersi di sprofondare nel vuoto. Nel vuoto, ci sono frazioni di secondo che sembrano lunghissime, prima dell’impatto. Pochi istanti prima di essere abbracciato dall’acqua gelata, del mare. O dal cemento indistruttibile. Beep-beep! Poco, poco tempo ancora prima di fare un’esplosione al suolo. Un botto e una nuvoletta di polvere per il povero coyote caduto ancora una volta nel Grand Canyon. Beep-beep! E lì l’acqua non era né calda né fredda. L’acqua non c’era. C’era l’asfalto. Duro come la pietra. Improvvisamente sentii un’ondata di calore alla testa, alla schiena, un formicolio che si accese e si spense in un lampo.
Un flash di luce. Poi il buio. Titoli di coda. Stop. Fine delle trasmissioni. Un bipcostante-encefalogramma-piatto. Biiiiiiip… Ora riapro gli occhi. Wile il Coyote si è rialzato. Achille Sparviero è al mio fianco, dentro la chiesapanettone della Gran Madre, con lo sguardo perso nel vuoto, nascosto anche lui come me nell’ombra. La sua cera sembra quella di un vampiro. Forse è ancora Carnevale. La cerimonia è iniziata da un pezzo. Il prete ha letto il Vangelo. Ha biascicato il nome degli sposi. È giunto il momento fatidico. “Sì, lo voglio,” dice lo sposo. “Sì, lo voglio,” dice la sposa. La voce di lei sembra diversa. È normale, sono ati così tanti anni, mi dico. Un luccichio impercettibile, poi un raggio proviene dall’anello che lui le mette al dito, si dirige alla velocità della luce verso di me e mi colpisce dritto in mezzo agli occhi. Lancio un’occhiata disperata ad Achille. “Perché lo sta facendo? Perché Valentina sta sposando un altro?” Non risponde. Il suo sguardo sembrerebbe voler dire: “Non te ne deve importare niente,” oppure: “Io nel frattempo sono stato lobotomizzato”. Poi penso: Ma mi vedi, Achille? Perché mi vedi?
VI
L’addio al celibato
Erano ati tre mesi dalla festa di Carnevale. Dracula, quando il suo treno, puntuale come un orologio svizzero, partì da Torino, si accorse immediatamente di essere finito nello scompartimento sbagliato. Era in mezzo a un gruppo di cinque trentenni che andavano a festeggiare un addio al celibato di uno di loro. Appena il treno uscì dalla stazione di Porta Nuova tirarono fuori patatine, birre e bottiglie di vino. Non era certo l’atmosfera adatta a un viaggio come il suo, inevitabilmente carico di tensione dall’inizio alla fine. “Aoh! Apriamo ’a vodka?” chiese a un certo punto uno con un forte accento romano. “Come no?” rispose un altro con lo stesso accento. “Non stiamo a perde’ttempo, so’ già le dieci der mattino.” Il viaggio fino a Parigi con quella compagnia sarebbe stato lungo. Eterno. “Ragazzì’, che mi sai di’ l’ora?” chiese uno ad Achille, che rispose di scatto: “Tredici e cinquantasei”. Un altro diede un’occhiata all’orologio e guardò Achille con aria stupita. “Anvedi oh! Spacca er minuto. Li mortacci sua!” Parigi era ancora lontana. Laggiù Achille sarebbe dovuto scendere in fretta e cercare di non perdere la coincidenza per Amsterdam. Poi finalmente sarebbe sceso e avrebbe portato a termine il lavoro, la spedizione. Rapido. Sicuro e determinato. Ma l’arrivo era lontano e quando il treno non era ancora arrivato a Lione i cinque erano ubriachi marci. “Tu, ragazzì’,” biascicò improvvisamente uno dei cinque, “’ndo vai di bello?”
Era finita la magia. In uno scompartimento, se il viaggio è lungo, è impossibile che qualcuno non si faccia avanti per una conversazione. Soprattutto se quel qualcuno è ubriaco. Fino ad allora Achille, sperando di essere diventato invisibile, era rimasto rannicchiato contro il finestrino, con alle orecchie le cuffie del Walkman che sparavano le note dei Doors. Aveva parlato solo quando gli avevano chiesto l’ora. “Io? Vado in Olanda,” balbettò. “Ah. Bravo ragazzì’! Ma quanti anni hai? Cosa vai a fare, ’na vacanza studio?” “No. Vado per lavoro. Torno domani.” “’Mbeh? Perché torni subito?” Gli altri ascoltavano attenti. “Non è che per caso vai a comprà’ qualcosa che in Italia è vietato?” Ma perché non mi sono inventato qualcos’altro?, pensò. Tutti fissavano Achille in attesa della risposta. “No. Vado a vedere il museo di Van Gogh. Devo fare una tesina per la scuola,” inventò. “Ah, anvedi,” disse uno. “Ah sì?” gli fece eco un altro. Gli altri restavano in silenzio grattandosi la testa, come se dalla forfora dei capelli potessero spuntare fiori. “Ma voi gli credete, al moretto?” chiese uno lanciando un’occhiata interrogativa ai compagni. “Io no,” rispose uno. “No, no,” disse un altro. “Sarà forse una deformazione professionale. Mi sa che il soggetto qui presente ce sta a di’ ’na fregnaccia.” Di nuovo. Anche persone sconosciute. Mai nessuno che mi creda. Perché? Non sono abbastanza bravo a raccontare storie?
Nessuno credeva ad Achille, era il triste destino del Banfone-di-prima-categoria. “Ragazzì’,” riprese il festeggiato, “lo sai che noi cinque semo tutti sbirri? Eh, lo sai che sei caduto male?” Avrei dovuto immaginarlo. Ce lo avete scritto in faccia! Sembrate il clone der Monnezza e dei suoi soci. “Ah sì?” rispose istintivamente. “Che bella notizia.” “Sì, esatto. Abbiamo un ottimo fiuto da investigatori, anche se iamo il tempo su una volante co’ a sirena. Sai, ragazzì’? Potremmo fare una telefonata ai tu’ genitori per sapere se è vero che te ne stai annà’ a vede’ er museo, oppure se invece te stai a fa’ un giro per comprà’ droghe per tu’ amichetti…” Perché non ho detto che mi fermo a Parigi? Perché non mi sono morso la lingua? Achille era più pallido del grigio metallo sotto il finestrino dove c’era una targhetta che diceva: bitte keine gegenstaende aus dem fester werfen. “Oppure,” riprese sorridendo, “unisciti a noi e diventa ’n amico… In fondo non stiamo a lavorà’, e il brigadiere qui presente se sposa una volta sola! Non sta’ a rosicà’!” Prese la bottiglia di vodka. La ò ad Achille che non aveva neanche fatto colazione. E aveva saltato il pranzo. Iniziò a bere a stomaco vuoto. Non aveva il coraggio di dire di no. L’alcool sciolse i suoi timori. Raccontò che ad Amsterdam aveva anche una ragazza, anzi, due ragazze. Bionde. Alte. Occhi azzurri come il cielo. Raccontò che sarebbe rimasto con una il pomeriggio, con l’altra la sera. I cinque lo guardavano con gli occhi sbarrati e non facevano altro che ripetere: “Li mortacci sua”. Quando scese dal treno era ubriaco e tutto roteava come una trottola. I cinque poliziotti lo salutarono calorosamente con vigorose pacche sulle spalle. E per puro caso che Achille, barcollando in mezzo ai binari, riuscì a salire per il treno per Amsterdam, mentre un altoparlante in sottofondo ripeteva strane destinazioni
in se pizzicando la erre. Quando si sedette al suo posto posò lo zainetto vuoto che si portava dietro. Per il momento era al sicuro. L’importante era non incontrare le stesse persone al ritorno, quando avrebbe avuto con sé tre chili di hashish. Nella sua mente, tra un vortice e l’altro, ricordò le parole del Ruvido: “Dracula, quando torni ti facciamo un bel regalino, oltre alle trecentomila lire che ti spettano,” aveva detto. “Che regalino?” “Una bella russa per un paio d’ore, ti andrebbe bene?” Achille era rimasto senza parole. La prospettiva era allettante. Finalmente una donna. A pagamento, ma pur sempre una donna. L’importante era andare e tornare, e che tutto filasse liscio come l’olio. Un viaggio solo, un’operazione chirurgica, un taglio di bisturi. Avrebbe poi incassato i soldi e il regalino, e sarebbe potuto tornare a fare il suo onesto lavoro di riparatore fallito di computer nel negozio dei nonni, ma con maggiore serenità. Se raccontassi questo viaggio ai miei amici, non mi crederebbe nessuno. Mi guarderebbero come fossi pazzo, pensando che anche questa volta Achille ne sta sparando una delle sue. Invece no. È tutto vero.
VII
Il vestito dello sposo e dei testimoni
È tutto vero, penso. La realtà è cruda. Valentina si sta sposando con quello. La sua cravatta e quella degli altri due. Mi sembra di vederle. I due testimoni hanno la stessa cravatta. Identica. Di sicuro è la stessa. Magari con un
fazzoletto bianco, tutti e tre, nel taschino. Come se si fossero messi d’accordo. Ma non sono sicuro. Non ci vedo granché bene. Siamo nel cuore della messa. Uno dei tre preti sta facendo una predica. Ogni tanto chiama per nome gli sposi. Ogni volta dice un nome diverso. Achille mi sta mitragliando nell’orecchio. Bisbiglia parole senza punteggiatura: “…Mi sembra di vedere e sentire in continuazione il mio giudice con la toga i capelli bianchi quasi viola denti aguzzi come un mostro marino una barbetta come muschio e la pappagorgia. Legge quella frase con la bava alla bocca come un vinile che salta mentre io incredulo piccolo come quando ero bambino ascolto con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata esterrefatto stupito senza capire che cosa stia succedendo. Ci ho messo delle ore a capire che il mondo mi era crollato addosso e mi aveva schiacciato come un’albicocca marcia e quando l’ho capito mi sono accorto che presto sarei impazzito”. Prende fiato. Ricomincia. “Achille Sparviero, il sottoscritto. Precedenti per spaccio. Pizzicato davanti alla chiesa della Gran Madre, dopo un funerale, una mattina d’inverno dopo il Natale del 1992, zero gradi fuori e trenta grammi di fumo addosso. Ma quello era il meno. Mi accusavano di un omicidio, mi dicevano che avevo ammazzato te, proprio te, il mio migliore amico. Ecco. Mi resi conto di essere rovinato.” Ho sentito le ultime parole. Le ho . Ho capito bene che cosa ha detto? “Perché, Achille? Perché ti accusavano?” “Nessuno mi ha creduto, sai? Mai nessuno mi ha creduto.” Tanto per cambiare. Anche noi, in effetti, spesso non ti credevamo. Le sparavi troppo grosse. “Achille. La porta di casa era chiusa da dentro. È entrato qualcuno che aveva le chiavi. Chi? Com’è possibile?” “È la stessa cosa che ha sostenuto l’accusa. Uno dei motivi per cui hanno condannato Achille Sparviero.”
“Ovvero?” “Solo io avevo le chiavi. Non ti ricordi? Me le avevi date per avere qualcuno che bagnasse le piante e ti permettesse di entrare in casa se ti chiudevi fuori. Secondo loro io sono entrato in casa tua esattamente alle diciotto e trentasette. Solo io avrei potuto farlo. Ti avrei seguito quando eri andato a prendere i soldi dagli spacciatori. Sarei entrato e ti avrei spinto giù dalla finestra per rubare i soldi per pagare i debiti del negozio. Per questo mi hanno condannato.” “Ma le prove?” “Un uomo che ha testimoniato di avermi visto uscire dal portone di casa tua quando ormai eri riverso al suolo.” “Ha detto il falso?” “No. Quell’uomo ha detto la verità. È vero. Il testimone ha anche detto come ero vestito, dalla testa ai piedi. Ha anche azzeccato l’ora. Ero dentro il palazzo. Ma non sono entrato in casa. Te lo giuro, Tommy. Non ho mai varcato la soglia. Avrei voluto, stavo per farlo. Ero io che ti aspettavo all’appuntamento, ero io che dovevo ritirare il fumo che dovevi comprare. Sì. Sì. Mi avevano mandato Il Ruvido e gli altri. E avevo paura che ti venisse in mente di fare proprio quello che in effetti avevi deciso di fare. Così ero venuto a cercarti. Volevo entrare per avvisarti di stare attento, di non fare cazzate, di non fare scherzi agli spacciatori che ti tenevano sotto controllo. Non sono riuscito ad arrivare in tempo. A un certo punto ho sentito delle grida dalla strada. Qualcuno che ti aveva trovato per terra. Mi sono precipitato fuori. Era troppo tardi.” “Chi è il testimone che ti ha accusato?” “Uno del gruppo degli spacciatori.” “Mi stavano tenendo d’occhio?” “Sì. Sì. Te l’ho detto.” Resto in silenzio per un attimo. Bella sorpresa. Forse meglio tardi che mai. Il mio vecchio amico ha un’aria sconsolata. “Non sono stato io, Tommy. Te lo giuro.”
“Ti credo, amico mio. Non potrei mai pensare che proprio tu mi abbia spinto giù. Perché, poi, avresti dovuto farlo?” Per i soldi? Perché eri diventato pazzo? “Sei l’unico, Tommy. L’unico che mi crede. Ma per me è importante.” “Chi è stato?” Achille non risponde. “Non lo so, non so.” “Uno di loro?” “Non lo so. Non lo so. Io non ho visto nessuno. L’ho ripetuto mille volte alla polizia. Ma quelli niente. Mi guardavano come un cane che guarda la ciottola vuota, nel disinteresse totale. Dicevano che ho rubato i soldi.” “Che fine hanno fatto i soldi?” “Un mistero. Li hanno trovati a casa mia. Qualcuno li ha portati a casa mia. Te lo giuro.” “Ma scusa. Dimmi solo una cosa. Perché, perché Achille, non hai suonato il citofono per avvisarmi che stavi salendo? A chi hai dato le chiavi di casa mia?” Rimane qualche secondo in silenzio. “Non le ho date a nessuno… le chiavi.” Non so cosa aggiungere. Non importa, è uguale. “Ah, lo sai?” aggiunge. “Non è vero che in prigione ti devi mettere una divisa a strisce orizzontali, come in America. Ti puoi vestire come vuoi. Non come qui, che sono vestiti tutti nello stesso modo.” Mi giro verso l’altare. I due testimoni sembrano i bronzi di Riace. Sono vestiti uguali. La stessa giacca dello sposo. Di sicuro sono andati a comprare l’abito tutti e tre insieme.
VIII
La lettura degli articoli del codice
“In nome del Popolo Italiano la Corte d’Assise di Torino, visti gli articoli 533 del Codice di procedura penale e 575 del Codice penale, dichiara Achille Sparviero colpevole dei reati a lui ascritti e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, lo condanna per omicidio doloso ad anni venti di reclusione per la morte da lui cagionata a Tommaso Grandi.” Achille snocciolava nella sua mente una a una le parole della sentenza, come se fossero un rosario, e nel frattempo lasciava scorrere il cronometro del suo cervello. Esattamente in quindici secondi, e mi hanno condannato, mi hanno annientato. Nonostante quello che si diceva in giro, per gente come lui, emeriti sconosciuti e notoriamente falliti, la Giustizia italiana non era così lenta. Niente affatto. Era una scheggia, una scheggia impazzita che sputava sentenze in manciate di secondi, e aveva la g maiuscola, gigantesca quasi. Era già dietro le sbarre. Erano venuti fuori i suoi precedenti. Avevano ricostruito i viaggi in giro per l’Europa. Lo avevano descritto come un giovane criminale. Esperto di droghe, viaggiatore per spaccio e, dulcis in fundo, omicida volontario del migliore amico. Nel frattempo lo avevano tenuto dentro, in attesa del giudizio di secondo grado. Quando ormai la sentenza era definitiva, le chiavi della cella erano in fondo a un pozzo sconosciuto. Tutto nel giro di due anni e mezzo. Alla faccia della lentezza dei processi! Nel frattempo Achille si era guardato intorno. Era dimagrito di qualche chilo, nonostante fosse già un chiodo. Stava male, malissimo, sempre peggio. Il dottore del carcere gli aveva diagnosticato un disturbo bipolare. La galera lo aveva fatto
impazzire e l’avrebbe annientato, fino a quando di lui non sarebbe rimasto altro che ossa mangiucchiate dalle tarme e un cervello in tilt. Stava deperendo. Non riusciva ad abituarsi. E non era soltanto il carcere. La cosa che non gli dava pace era il pensiero costante di essere stato condannato per avere ucciso il suo migliore amico. Non sono stato io! Io sono innocente! Non ho fatto niente!, continuava a ripetersi, mentre si consumava nel tempo in cui brucia una candela.
IX
Il lancio del riso
Ma chi ha mai detto che è meglio bruciare in un istante che spegnersi lentamente? Chi può essere stato così stupido anche solo da pensare una cosa del genere?, pensavo sdraiato sull’asfalto, spiaccicato come un pomodoro troppo maturo o un pipistrello ubriaco investito da una macchina. 25 dicembre 1992. Ore diciotto e trentuno. Ero scivolato, volando giù come fiocchi di neve che scendevano dal cielo, ma con molta, molta meno spensieratezza. In pochi istanti ero precipitato al suolo, sulla schiena che si era spezzata come un grissino rubatà di Torino. Ero morto. La sera era notte, intanto, fuori dalle mie orbite fisse. Era fonda come una vecchia bottiglia di vino, sulla città deserta che era esplosa in mille pezzi, al cospetto di una Mole Antonelliana che da qualche parte fissava la scena come un faro che sbircia sul mare. In lontananza sentivo suoni ovattati, macchine e sirene di ambulanze, musica di autoradio, tram notturni, grida e clacson. Sentivo tutto come se fossi stato
immerso in una botte di benzodiazepina, con i tappi nelle orecchie e il naso chiuso. Navigavo. Fluttuavo. I rumori, ritmati ma irregolari, forse seguivano i battiti sincopati del mio cuore che stava smettendo di contare i quattro quarti. Mi accorsi che c’era un uomo che mi frugava nelle tasche. Che cosa fai? Vattene. Cercai la forza di reagire nel cervello, nelle vene, fino alle punta delle dita. Cercai di gridare, ma non riuscii. Io devo partire per Praga! Poi improvvisamente una morsa mi strinse il cuore. Lei mi sta aspettando. Ma non riesco ad alzarmi. Adrenalina pura. Ecco la forza che cercavo. Valentina mi aspetta. Mi sembrò che il sangue scorresse di nuovo come un fiume impetuoso, che il cuore avesse ricominciato a battere, più forte di prima. Riaprii gli occhi. No. Non avevo male, stavo bene. Che strano. Pioggia mista a neve mi rinfrescava la faccia, il freddo mi pizzicava la pelle. Non sentivo dolore. In quel momento l’uomo che mi aveva rubato la busta si guardava intorno. Non riuscivo ad alzare la testa per capire chi fosse. Sono i miei soldi. I miei soldi! Ridammeli!
Ma non riuscivo a parlare. Non riuscivo ad alzarmi. Il ladro girò l’angolo e sparì. Questo dieci anni fa. Dieci anni trascorsi da fantasma. Ora c’è una pioggia di riso che cade come neve sugli sposi che escono mano nella mano dalla chiesa. Non li vedo bene. Non li vedo per niente. Per non farmi notare sono uscito prima che la messa finisse e mi sono defilato sotto la scalinata della chiesa. Sulla statua alla mia sinistra, quella della Fede, ci sono i due corvi. “Sei-crepato-cretino! Sei-crepato-cretino!” Guardo la scena da lontano. La luce del Sole, alto nel cielo sulla chiesa, abbaglia. Il caldo è ancora più forte di prima. Devo farmi forza. Perché questa giornata sarà ancora lunga, fino a quando riuscirò a parlare. Solo io e Valentina, come una volta. Sono qui per questo, prima che la Luna diventi di miele. Perché, Valentina, hai deciso di sposarti in una giornata così luminosa e calda? Beh. Certo. Senza dubbio io sono uno che preferisce il freddo. Ho scelto l’inverno per fare un salto nel vuoto. Per scivolare come Pippo su una buccia di banana. Spinto da qualcuno, però. Quel Natale del 1992, il giorno della mia morte, dopo essere caduto, mi rialzai. Mi staccai dall’asfalto cosparso da mozziconi di sigarette, come se fossi una figurina della Panini o una sottiletta Kraft. Mi guardai intorno. Il ladro era sparito. Aveva iniziato a nevicare sul serio. Diedi un’occhiata allo Swatch. Il vetro si era scheggiato e le lancette erano ferme. Ma forse ero ancora in tempo. Sarei partito lo stesso, anche senza i soldi. Recuperai la chitarra. E mi incamminai traballante verso la stazione. Ora i chicchi di riso sembrano i fiocchi di neve di quel giorno. Una folla di persone nasconde gli sposi. Baciano lei e abbracciano lui. Io preferisco non farmi vedere. Aspetterò il momento giusto per incontrarla da solo e spiegarle tutto. Per dirle che quel Natale ho fatto tardi per un imprevisto. Per ora resto in disparte. Piano piano la gente si dirige verso le macchine, mentre gli sposi, dopo essersi
liberati dalla folla che li ha leccati bacio dopo bacio, si fanno fotografare davanti alla chiesa. Vicino a me riconosco la vecchia che mi ha detto di entrare prima che arrivasse la sposa. Se mi ha parlato una volta mi parlerà di nuovo. Su! Su! Devo farmi coraggio. Oggi sta succedendo qualcosa. “Signora, gentile signora!” dico avvicinandomi. “Posso chiederle se può cortesemente darmi un aggio per raggiungere il luogo dove si terrà la cena nuziale? Mi deve scusare, sono venuto qui con un tram, il 13. Quello!” aggiungo, anche se non è vero, indicando il tram arancione che sonnecchia al capolinea accanto alla Gran Madre. Lo stesso tram di quell’ultima notte, secoli fa, quando ho visto Valentina per l’ultima volta. Per un attimo non risponde. Sembra guardare nel vuoto, alle mie spalle. Chissà per quale motivo mi vede. “Prego,” dice improvvisamente. “Venga pure. In macchina c’è solo il mio povero marito. È rimasto vedovo, qualche mese fa. Ora trascina qua e là e le ossa, trascorre il tempo residuo nell’attesa del suo momento.” “È rimasto vedovo…” È anche lei un fantasma? Ecco perché mi vede. Io e la signora abbiamo qualcosa in comune. Salgo dalla portiera posteriore. Il vecchio non se ne accorge. È una vecchia Punto, lucidata per l’occasione, con tanto di coccarde bianche legate agli specchietti e all’antenna, come le altre macchine degli invitati. Dentro c’è un forte odore di naftalina. E la foto in bianco e nero della signora, decisamente più giovane, attaccata al cruscotto con uno scotch ingiallito, come il ricordo di una persona cara che se n’è andata, di fianco all’immagine di Padre Pio. Sorride. Il marito della signora avrà ottant’anni, come lei. Vorrei presentarmi e dire come mi chiamo. Ma non mi vede. Bene. L’autista è vivo e vegeto. Mi chiedo chi sia e come potrebbe presentarsi. Potrebbe dire: “Piacere. Sono un prozio di Valentina. È suo amico?” “Sì, ci conoscevamo al tempo del liceo,” potrei rispondere. “Ero il suo ragazzo.”
“Ah!” esclama improvvisamente la vecchia come se mi avesse letto nel pensiero. “Ma noi non ci siamo già visti? Lei è forse uno degli amici di Valentina dei tempi del classico, prima che partisse per Praga con mamma e papà?” Praga. Praga. Praga. “Ci siamo andati anche noi due, quando eravamo giovani. Io e mio marito, che bella coppia. Lui a Praga mi ha chiesto di sposarlo.” Ora il vecchio guida l’auto. Nessuno lo accompagna al matrimonio della nipotina. Bastardi parenti, lo avete lasciato solo. “Quando siamo tornati, poi, ci siamo messi a lavorare. Una vita intera, in un negozio di elettrodomestici, con nostro nipote che combinava guai…” aggiunge la signora. Accidenti. Sto per caso parlando con i nonni di Achille? Non li avevo mai visti. Per quanto ne sapevo non uscivano mai dal negozio. “Ma noi,” dice lanciando uno sguardo al marito, “siamo stati bene, con le nostre cose, io e lui, sempre vicini.” La vecchia, al suo fianco, lo guarda con amore, come se il tempo non avesse lavato via i ricordi. Lui guarda fisso davanti a sé, stringendo il volante con mani tremolanti e una lacrima che sta scendendo su una guancia. Magari pensa alla moglie. Magari pensa a Praga. “Signore, vedrà che almeno la cena sarà ottima. Di sicuro gli sposi hanno provato per lei squisite portate. E sua moglie, anche se non la vede, è ancora al suo fianco,” vorrei dirgli. Ma non sentirebbe. Sbircio nello specchietto retrovisore. Lo guardo per una frazione di secondo negli occhi. Il suo è uno sguardo vacuo. A un certo punto, mentre quasi mi sento tranquillo, faccio un salto sul sedile. Ci sono due persone, fuori dal finestrino. È una coppia che attraversa la strada. Li conosco. Non posso crederci. Mi stropiccio gli occhi. Sì. Sembrano proprio loro. Sono abbracciati e vestiti con uno stile anni Ottanta.
Il vecchio li lascia are. Smettono per un attimo di parlare. Alzano la testa. Mi vedono. Sorridono. Salutano. Sono i miei genitori quando erano giovani. Sono sicuro che sono loro, anche se sono ati tanti anni da quando ci siamo visti l’ultima volta. Li seguo con lo sguardo, mentre si dirigono verso la Gran Madre. “Si fermi! Si fermi!” grido al vecchio. Non mi sente. Certo. Perché dovrebbe sentirmi, lui? La moglie si gira. Mi sorride, fa un gesto come per dire: “Lascia stare, non puoi farci niente”. Sì. Ha ragione, signora. Allora forse ho anche sbagliato a venire fino a qui. I miei genitori stanno sorridendo, si allontanano abbracciati. Sembrano felici, sono ancora insieme.
X
La prova del pranzo nuziale
Era domenica mattina. L’estate del 1992 era appena iniziata. Quel maledetto inverno era ancora lontano e non era ancora arrivata la notizia che la famiglia di Valentina si sarebbe dovuta trasferire a Praga. Per motivi segreti e importantissimi per il destino politico e l’intelligence dello
Stato italiano, è richiesto il dislocamento del Generale Valdieri. Così ci sarebbe stato scritto sulla lettera del Ministero della Difesa, che non era ancora arrivata a destinazione. Il Generale si aggirava inquieto per la casa. Le ragazze stavano facendo colazione insieme alla mamma. Si era messo sull’attenti sull’uscio della cucina. Era estremamente soddisfatto del quadro domestico. Sembrava la pubblicità del Mulino Bianco. La casa era pulita, la moglie era una donna elegante e silenziosa e, soprattutto, le due bimbe erano bellissime. C’era solo un neo, in quello scenario. Non c’era un bel figlio maschio, da nutrire a latte e vitamine, da far crescere come un piccolo campione. E poi da educare come si deve, fino ai suoi diciotto anni, quando finalmente sarebbe entrato nell’Esercito. Disciplina e rigore, pane e biscotti del Mulino, nutrimento ideale per un piccolo ufficiale, il sogno di papà Generale. Il soldatino però non era arrivato. E dire che ci aveva provato più volte, aveva sparato tutte le cartucce, senza riuscirci. Peccato. Però, magari… magari le mie figlie mi daranno un bel nipotino. Magari anche due o tre. E caschi il mondo se almeno il nipotino (o nipotini?) non prova la carriera militare e non arriva un giorno a indossare l’alta uniforme, pensava. Certo. È indispensabile che i mariti delle mie figlie siano persone per bene, che appartengano a famiglie che sappiano aver scolpito nei figli una cultura adeguata e, soprattutto, i giusti valori l’amore per la Patria. Questi strani pensieri ronzavano nella testa del Generale, proprio mentre trascorreva l’ora della colazione. Vittoria aveva ato la serata con i colleghi di Economia e Commercio in ludoteca. Era tornata presto, accompagnata a casa dal fidanzato. Per Valentina invece la serata, iniziata all’Imbarchino del Valentino, si era dilungata nella notte e poi trasformata in un’alba bianca come la panna montata dei Murazzi. Avevano festeggiato la fine dell’esame di maturità da Giancarlo e poi al Dottor Sax, il locale che chiude alle dieci del mattino e che fabbrica zombie. In quel periodo i locali, oltre ad avere un nome, avevano una propria identità, come se fossero anche loro degli amici da andare a trovare e con cui trascorrere la notte. Presto sarebbero stati pubblicati i risultati della Maturità ma,
soprattutto, finalmente erano iniziate le vacanze. Alla fine Tommy aveva accompagnato Valentina a casa con il primo 13 della mattina. Si erano salutati. Lei era entrata in casa senza fare nessun rumore, per evitare che i genitori si svegliassero e vedessero che ora fosse. Aveva dormito tre ore e sentiva ancora sulla pelle l’odore degli spiedini che le marocchine arrostivano ai Murazzi. Tre ore erano abbastanza per avere ancora nitido ogni ricordo della serata, della musica, dei discorsi e dei baci alcolici di Tommy e anche della musica di Giancarlo e del Sax, ma tre ore erano troppo poche per poterla rendere reattiva e tollerante alle parole farneticanti del padre, fastidiosissime e del tutto fuori luogo. Non aveva nessuna intenzione di sentirlo blaterare, né tanto meno di ascoltare quello che stava per dire. “Ragazze, siete diventate grandi, oramai.” L’esordio non era dei migliori. Quando il Generale abbandonava il divano e il giornale, quando iniziava così, specialmente di domenica mattina, c’era sotto qualcosa. “Siete cresciute. È ora di iniziare a pensare al futuro.” Valentina aveva distolto lo sguardo dalla tazza di caffellatte dove bollicine componevano simboli misteriosi, come codici segreti da decifrare. Forse nel fondo della tazza, come diceva la nonna, c’era la soluzione per sconfiggere il mal di testa e fare scomparire il Generale dalla cucina. “Quindi io, vostro padre, sarei felice se voleste accettare, come auspico, la proposta che sto per fare.” Le due sorelle lo guardavano con aria interrogativa. Erano immobili. Anche la madre, affaccendata sui fornelli, si era fermata. Che cosa aveva in mente? “Ecco che cosa vi voglio dire. È giunto il momento che presentiate a me e alla mamma i vostri rispettivi fidanzati. Stasera, a cena in un bel ristorante che conosco.” Forse fuori dalla finestra ci sono maiali verdi che volano. Oppure è atterrato un ufo in piazza Vittorio, oppure la Mole si è messa un paio di infradito e si è data alla fuga. Oppure… Boh? Mio padre sta forse dicendo che Tommy dovrebbe mangiare con tutta la famiglia?
Nella mente di Valentina si alternavano immagini surreali e deliranti. Sarebbe stato un dramma. I suoi non avevano mai neanche incontrato Tommaso. Forse sarebbe stato simpatico alla mamma, ma suo padre lo avrebbe giudicato. Lo avrebbe catalogato, vivisezionato e scrutato con il microscopio. Poi, alla fine, lo avrebbe inevitabilmente condannato a morte e squartato vivo. Non c’era nessun dubbio. Davanti al plotone di esecuzione! “Allora, ragazze. Dovete solo dire se preferite che prenoti il ristorante alle sette e mezza o alle otto.” “Papà… ma io non so se Edoardo stasera può. Così, sai, all’ultimo momento,” rispose Vittoria. “Può, può di sicuro,” rispose il Generale posando una mano sulla spalla della figlia. “Ma… papà, devo chiederglielo.” Valentina stava zitta. Aveva abbassato lo sguardo nella tazza di caffellatte. Se fosse stato acido muriatico si sarebbe buttata dentro. Noi non siamo nell’esercito! Non ci puoi dare ordini. Io stasera voglio andare al cinema con Tommaso. Ci siamo messi d’accordo ieri. Il Generale non si era aspettato di dover organizzare una strategia, di combattere una battaglia contro le figlie. Di solito chiedeva e quelli che stavano sotto dicevano: “Sissignore,” e basta. “Va bene, allora Vittoria avvisa Edoardo. E tu, Valentina? Ti sei per caso mangiata la lingua?” “No. Stasera non se ne parla neanche. Vado al cinema con Tommaso.” Si può perdere una battaglia, ma non la guerra. Un generale sa che una scaramuccia, qualche morto di qua e di là non devono scoraggiare le truppe che devono mantenere sempre alto il morale. Mortai. Cannoni. Bombardamento aereo. Poi assalto, tutti fuori dalla trincea, con il coltello tra i denti. E alla fine si vince, si sbaraglia il nemico. È solo una questione di resistenza. “Ah. Allora pare che Valentina e il fidanzato stasera abbiano un altro
importantissimo impegno. Vorrà dire che faremo domenica prossima, va bene ragazze? A questo punto non potete dire di no.” La mamma non aveva detto niente. Era rimasta in silenzio, spiazzata dall’idea del marito. Quando parlava lui, raramente diceva la sua e soprattutto non contestava le sue decisioni. “Sì papà, molto meglio,” rispose subito Vittoria. “Sarà bello fare una cena tutti insieme. Lo dico subito a Edo.” Valentina invece non rispondeva. Sul fondo della tazza di caffellatte c’era scritto qualcosa. Provò a guardare meglio. C’era scritto: sei stata fregata. Sette giorni ano alla velocità della luce. Quando Valentina guardò l’orologio si accorse che erano le sette in punto della domenica successiva. Qualcuno aveva suonato il citofono. Dio ti prego. Fa’ che sia Tommy. Fa’ che sia lui che è arrivato puntuale e non in ritardo come tutte le volte. Ti prego, pensava. Aveva più paura di quando era andata a farsi interrogare all’esame. Aveva finito di truccarsi. In fretta, senza esagerare. Si era vestita come sempre, mentre sua sorella sembrava che si fosse preparata per una serata di gala. Quando aveva detto a Tommaso che il padre voleva conoscerlo, si era stretto nelle spalle. “Ci saranno anche tua sorella e il fidanzato? Io non ho nessun problema. Dove?” Ecco. Dove. Circolo degli ufficiali. Quello era il ristorante preferito dal Generale. Un posto elegante e raffinato, decorato con medaglie al valore e corredato di busti e immagini di eroi. Di guerra. “Ah. E come mi devo vestire? Vanno bene le All Star rosse?” Valentina sorrise. “Certo. Perfette. Vestiti come sei.” Era Tommy. Aveva spaccato il secondo. Si era pettinato i capelli biondi. Aveva messo una camicia. Era la prima volta che
Valentina lo vedeva con una camicia. Indossava pantaloni blu, un po’ corti, abbastanza eleganti. Ai piedi portava le All Star rosse, le uniche scarpe che aveva. “Buonasera,” disse porgendo la mano al padre di Valentina. “Buonasera, signora,” aggiunse educatamente stringendo la mano alla mamma. Il Generale stava fissando le All Star con un’aria perplessa. Dovettero aspettare un quarto d’ora. Edoardo si presentò con un bottiglia di Barolo per il padre di Vittoria e un mazzo di fiori per la mamma. “Buonasera Generale,” disse porgendo la mano a lui. “Buonasera,” disse alla mamma, “Vittoria non mi aveva detto di avere un’altra sorella, oltre a Valentina…” aggiunse sorridendo. Presentazione di seconda mano, rubata da un film. I genitori si misero a ridere. Avevano apprezzato. “Questi sono omaggi dei miei genitori,” disse mentre si presentava sulla porta. Tommaso era arrivato a mani vuote. E non aveva i genitori. E non aveva una lira. Edoardo si era vestito in giacca e cravatta, con tanto di fazzoletto bianco nel taschino. Aveva anche un orologio che poteva essere un Rolex. Era alto un metro e cinquantacinque, aveva i capelli a spazzola, un principio di calvizia e scarpe nere lucide come uno specchio. Vittoria lo guardava orgogliosa. Tommaso fissava il muro. Andarono al Circolo degli ufficiali con due macchine, la Mercedes dei genitori e la Polo di Edoardo. Durante il tragitto sulla Polo nessuno parlava. Sul sedile posteriore Valentina abbracciava Tommaso. “Mi dispiace, Tommy,” gli sussurrò nell’orecchio, “vedrai che erà in fretta.” Si sedettero e iniziò la cena. Parlarono del più e del meno. “Allora, ragazzi, non vi sembra che questo sia un magnifico posto per un pranzo nuziale? Se volete potete considerare questa cena come la prova che si fa prima del matrimonio.” Quando suo padre disse quella frase, Valentina si rese conto che non stava scherzando. Era impazzito.
“Ma papà, che cosa dici?” chiese imbarazzata Vittoria. Valentina diede un’occhiata a Tommy che cercava di scavare in un vol-au-vent ripieno di fonduta, come se non avesse sentito. Tommy aveva sbagliato sin dall’inizio la scelta delle forchette e bevuto più di tutti. L’anziano cameriere che seguiva il loro tavolo indossava una divisa militare bianca e versava il vino. Aveva riempito sette volte il calice di Tommy, mentre dagli altri era andato solo due o al massimo tre volte. Ogni tanto Edoardo, pieno di sé e con un’espressione da adulto, faceva volteggiare il bicchiere, come fanno i sommelier o i finti intenditori di vino. Poi annusava, sorseggiava con l’espressione sul volto di uno che la sapeva lunga. Tommaso invece beveva, beveva e basta. Perché il vino era buono. Tutto lì. “Allora, ragazzi,” disse a un certo punto il Generale, “volete raccontarmi quello che fate, il vostro lavoro e quello dei vostri genitori? Mi dite poi se avete già scelto in quale corpo dell’esercito svolgere il servizio militare? Cominci tu, ragazzo?” E indicò con lo sguardo Edoardo. Fino a quel momento aveva parlato solo il Generale. Un lungo monologo sulla situazione politica, sul crollo del comunismo, sugli arresti di Tangentopoli. Sull’occupazione di Saddam Hussein dell’Iraq, sulla necessità di intervenire, bombardare, distruggere. Poi qualche episodio di gioventù, consumato in una sperduta e grigia caserma di provincia. Le grappe, le donne che erano fuori ad aspettare, episodi di nonnismo e uscite notturne con i commilitoni. E poi teorie moralistiche e conservatrici a trecentosessanta gradi, dalla politica locale allo sport. Praticamente nessuno aveva potuto dire la sua. Solo Edoardo annuiva alla fine di ogni frase, come se ne condividesse ogni parola. Tommaso invece era rimasto in silenzio, come quando si ascolta distrattamente la radio. Guardava i suoi bicchieri, quello dell’acqua e quello del vino. I suoi erano pieni di ditate e sembravano sporchi. Quelli di tutti gli altri erano ancora brillanti come quando erano arrivati. Perché?, si chiedeva. Come si fa a bere senza sporcare il bicchiere? Per fortuna non era ancora il suo turno. Toccava a quel fighetto di Edoardo: “Allora,” iniziò, “sono studente del secondo anno della facoltà di Economia e Commercio di Torino. Non escludo però di trasferirmi il prossimo anno alla
Bocconi…” E così via, mentre il cameriere versava a Tommaso l’ottavo bicchiere di vino. Ben presto sarebbe toccato a Tommaso che, sotto il tavolo, stringeva la mano sudata di Valentina.
XI
L’aperitivo di benvenuto
Anche se la sera si avvicina, qui a Torino ci saranno ancora almeno quaranta gradi, ma io ne sento cinquanta o sessanta. La città, ai piedi della collina, è una pentola d’acqua bollente. Sono finito all’Inferno, dopo una lunga permanenza in un limbo terrestre, penso. Trovo per terra una partecipazione. La sposa e lo sposo saranno lieti di salutare parenti e amici alla Villa della Regina. r.s.v.p. Salutare? Ma quanto durerà questo saluto? “Gli ospiti ringraziano sentitamente gli sposi di aver deciso di celebrare il loro matrimonio proprio nel giorno maledettamente più caldo dell’anno,” si potrebbe aggiungere. La villa è il posto in cui mi ha portato il vedovo. È vicina alla Gran Madre, qualche curva più in su, in collina. Una delle vecchie dimore dei Savoia, tirata a lucido dopo anni e anni di abbandono, ora pronta a sfornare novelle coppie come patate dolci al forno. È diventata uno di quei posti dove vengono impacchettati matrimoni fotocopia, dall’aperitivo alla festa finale. Uno di quei matrimoni che dall’inizio alla fine riproducono il copione del dejà vu. Gli sposi e gli ospiti entrano come materia grezza nella catena di montaggio, vengono nutriti serviti e riveriti, ingrassati da cibi mediamente scotti, arricchiti da emozioni affettate, e
alla fine, quando l’ennesimo matrimonio è stato perfettamente clonato, congedati con pance piene e la condanna a un’acidità di stomaco notturna. Ma con una piccola soddisfazione: è finita. Davanti alla palazzina, la Fabbrica degli Sposini, c’è uno spiazzo, una grande fontana, con due grandi ed eleganti scale ai lati. Quando ero vivo qui non festeggiavano ancora i matrimoni. Era un palazzo diroccato. Girava voce che fosse stato danneggiato dalle bombe durante la Seconda guerra mondiale e che fosse collegato da misteriosi cunicoli con le altre residenze sabaude. Si diceva che ci fossero i fantasmi. Ah! I fantasmi! Che combinazione. Ora è un’elegante Manifattura di mariti & mogli. Per molti dei torinesi è ancora un luogo magico. Certamente non tutti possono permettersi di affittare un posto del genere. Un posto da vip, penso. La casa dei Savoia. Io comunque non avrei mai scelto la Villa della Regina per il mio matrimonio. E non avrei mai potuto pensare che Valentina, con i jeans strappati e le felpe con il cappuccio, potesse arrivare qui in abito nuziale. Se fosse rimasta con me magari ci saremmo sposati in una piccola chiesa in un paesino di montagna. Poi saremmo andati a fare una grigliata con i nostri amici della scuola, con la birra Moretti e la vodka glaciale Keglevich al melone. E saremmo stati felici per sempre, come nel cartone animato di Robin Hood, quando lui e Marian se ne vanno con una carrozza con le lattine legate dietro. Altroché Wile il Coyote, camminate nel vuoto e tonfi clamorosi al suolo. Dopo l’ultimo giorno che ci eravamo visti, prima che lei partisse per Praga, avevo deciso di rimanere a casa a suonare la chitarra, scarabocchiare sui fogli e nel frattempo combattere la torrida estate torinese, mentre solitudine e malinconia mi tormentavano. Succhiavo di tanto in tanto tè freddo da una cannuccia e cercavo di non tagliarmi mentre aprivo scatolette di tonno, unico sostentamento. In tele scorreva “Il pranzo è servito” di Corrado oppure il tg3 regionale con le sue immagini del Po in secca e delle vie deserte del centro città, dove miracolosamente si poteva anche parcheggiare. Tiravo avanti giorni e notti in uno stato di insonnia permanente, davanti a vecchi film di Ciccio e Franco e a telefilm. Starsky & Hutch. Riptide, A-Team e I Robinson, George e Mildred con il loro sidecar e quella manica di sfigati di
Happy Days, che bevevano solo Coca Cola e idolatravano un tamarro in giubbotto di pelle. Tutti loro mi tenevano compagnia. Mi sembrava quasi di essere diventato uno di loro. Quando spegnevo la televisione suonavo la chitarra. Disdegnavo inutili uscite serali. Preferivo diventare muffa. Non avrei poi neanche avuto troppo tempo libero, viste le tantissime ore che avevo da sfogliare, come petali di margherita, aspettando, aspettando, aspettando. A settembre iniziai a lavorare come pony express. Tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Tornavo a casa e la prima cosa che facevo era guardare nella buca delle lettere. Ogni volta che arrivava una busta da Praga il mio cuore accelerava e mi tremavano le mani, sperando che mi avesse scritto. Poi arrivò Natale e pensai bene di non uscire dalla porta ma dalla finestra. Stop. Fine delle trasmissioni. Ero morto spiaccicato sull’asfalto. E dopo ci fu una specie di risurrezione. Ora sono al ricevimento del matrimonio di Valentina. Alla Villa della Regina. Ci sono centinaia di vespe che ronzano vicino a me. Sono circondato. Odio il loro ronzio. Che cosa ci fanno qui? Perché ce l’hanno con me? Saranno anche loro fantasmi? Sono allergico alle loro punture. Se fossi vivo rischierei di essere infilzato dai loro aghi, e potrei avere uno shock anafilattico. Ma tanto sono morto da un bel pezzo. Mi guardo intorno. Achille è in mezzo al prato. È da solo. Guarda nel vuoto. Mi dirigo nella sua direzione. Mi deve ancora molte spiegazioni. “Che ora è, Achille?” “Sei-e-cinquantasei, ancora presto.”
“Quando scenderà la sera la andrò a cercare.” Non mi risponde. “Lo sai, amico mio,” mi dice poi, “che l’Amiga e i Commodore 64 sono spariti dalla circolazione? Lo sai che lo Spectrum la gente non sa più neanche cosa sia?” “Lo Spectrum? Lo spettro? Sei impazzito? Cosa stai dicendo?” “Lo sai che adesso la gente si porta in tasca un piccolo telefono che chiama telefonino, come se fosse un cane, un cagnolino, e lo sai che se scrivi una domanda sul computer riesci sempre a trovare immediatamente una risposta?” Lo guardo come si guardano i matti per strada. Forse era una delle sue tante fantasie, questa legata al lavoro che faceva. Achille, l’estate dopo il diploma, la mia ultima estate, nel pieno degli anni Novanta aveva iniziato a lavorare nel negozio di elettrodomestici dei nonni, smontava i computer. Ragazzini, giovincelli, professionisti, pensionati e anche casalinghe all’avanguardia gli portavano i loro apparecchi. All’epoca quella per i videogame era una malattia dilagante, la malattia letale degli anni Novanta, una nuova vera droga per adulti e bambini. Aveva i capelli lunghi sulla schiena e aveva pensato che avrebbe potuto fare quel lavoro invece di continuare a studiare. Pubblicò degli annunci pubblicitari sui giornali e mise sulla vetrina del negozio dei nonni un cartello su cui scrisse a caratteri cubitali: ho la medicina per i virus, portatemi il vostro computer e in due giorni sarà come nuovo. Un giorno mi appostai di fianco al negozio. Mi godevo la scena. Sentivo le conversazioni. “Dicono che sia bravo, il ragazzo, dicono che ci sappia fare!” I clienti entravano carichi di belle speranze. Entravano. Lui li accoglieva, prometteva una pronta guarigione, si faceva lasciare un bell’acconto e salutava. Vidi entrare un sacco di gente. Achille uscì dal negozio e mi sorrise. Gli offrii un Pastis e brindammo al suo successo. Andai a casa, dove trovai la grigia Nicotina e la mia invisibile nemica nostalgia. La mattina, prima di andare a lavorare, ai dal negozio. Achille era stato sveglio tutta la notte. Aveva sparso pezzi di computer in tutto il laboratorio. Dopo dieci ore non era riuscito a sistemarne neanche uno. Non sapeva
minimamente che cosa fare. Il problema era che i proprietari si sarebbero presentati per la restituzione. E avrebbero voluto i soldi indietro. avano i giorni e non riusciva a trovare una soluzione. La gente si presentava al negozio alla spicciolata. I nonni di Achille ripetevano che lui non c’era, che non l’avevano visto da nessuno parte. In realtà lui era chino nel retrobottega che sudava sette camicie e pativa le pene dell’inferno. Un giorno arrivò con gli occhi sbarrati a casa mia. “Tommy, aiutami. Neanche uno. Non sono riuscito a ripararne neanche uno,” disse con voce carica d’ansia. “E vuoi sapere una cosa? Ho anche il computer del Ruvido. Proprio lui.” No, pensai. Allora sono guai. “È meglio che non ti faccia vedere molto in giro. Oppure che trovi in fretta una soluzione per restituire i soldi, almeno a lui. Oppure scappa.” Mi fece pena. Mentre se ne andava per la sua strada, ogni tanto si voltava per vedere se c’era qualcuno che lo seguisse. Ora Achille è di nuovo qui con me. Lo raggiungo sul prato. Mi vede. “Ah!” esclama in preda all’ansia facendo un balzo all’indietro, come se avesse visto un fantasma. “Ti ho cercato in giro, ma non sempre riesco a vederti,” dice poi con un’aria più rilassata. “Potremmo bere qualcosa insieme, come ai bei tempi. Che ne so, magari anche qui ce l’hanno, il Pernod. Ma dimmi, che cos’hai fatto negli ultimi anni? Lo sai che ci sei mancato? L’hai suonata la chitarra?” “Achille. È una lunga storia. Se vuoi te la racconto.” “E lei? La vuoi vedere? Sei pronto? Eh? Te la senti? Dimmi.” Resto in silenzio. Sei pronto per che cosa? Per rivederla sposata con un altro? “Che cosa intendi dire?” Non sono affatto pronto. Ma non glielo dico. Il suo sguardo è perplesso. “Dai che lo sai…” aggiunge sorridendo.
Non capisco. Non ho tempo per replicare. Si avvicina a noi un uomo di circa trent’anni, un brutto ceffo, con capelli neri pieni di gel, una cravatta spessa da agente di commercio e un dozzinale vestito gessato. Aveva una pessima cera. “Ehi tu, Dracula,” dice ad Achille. “Ti ricordi di me? Sono proprio io, Il Ruvido.” Achille si guarda intorno con aria terrorizzata. Non c’è nessun altro in mezzo al prato. Evidentemente ce l’ha con lui. “Sì, sì, proprio tu. Achille Sparviero. Ti ho riconosciuto. Non mi sono dimenticato dei soldi che hai fatto sparire, dei favori che ti abbiamo fatto e del ringraziamento che ci hai riservato. Non mi sono neanche dimenticato del mio computer, anche se sono ati tanti anni. C’erano tutti i miei giochi, dal primo all’ultimo…” “Non si poteva aggiustare,” balbetta Achille. “Ah. Sì. Certo. Avevi detto l’esatto contrario. E dire che avevamo trovato un accordo, noi due. Tu lavoravi un po’ gratis, e io ti avrei perdonato. Ma tu, con quel tuo amico, hai voluto fare il furbo. Ora come la mettiamo?” Mi avvicino al tipo insieme alle vespe che mi ronzano intorno, pronte a conficcare i loro pungiglioni. Mi metto tra lui e Achille. Lo guardo negli occhi. Ma Il Ruvido non mi vede. “Mi sembra di aver pagato,” aggiunge Achille, “un prezzo molto caro. E in galera non ho fatto il nome di nessuno di voi, anche se mi avete messo nei guai, fin dal primo momento. Mi avete fatto impazzire…” “Non credo proprio. Ti sei fatto arrestare come un pollo. Hai rubato i computer, anche il mio,” dice avvicinandosi minacciosamente. “E poi i soldi.” “I soldi? No. L’ho detto a tutti. L’ho ripetuto fino allo sfinimento. Non sono stato io.” “Bugiardo. Non ti credo. Bugiardo,” gli dice puntandogli un dito addosso. Faccio un o avanti. Sono a un palmo dal suo naso. Achille mi lancia uno sguardo disperato chiedendomi aiuto. L’altro non mi vede. “Ci penso io, amico,
non ti preoccupare,” gli sussurro in un orecchio. Il brutto ceffo ha un’espressione di odio dipinta sul volto. “Non mi prendere per il culo. Ti ricordi, no, chi sono io, eh?” Achille è pallido come uno straccio. Faccio un fischio ai due corvi che mi hanno seguito dalla chiesa. Spiccano il volo. Due macchie oscurano il Sole. Le ali sono aperte. Sembrano due aquile. Forse sono due aquile. Il Ruvido continua a fissare Achille. Se si avvicina ancora i due corvi scenderanno in picchiata e gli caveranno gli occhi. Mi leggono nel pensiero, fanno quello che ordino loro. Fa ancora un o. Uno dei due uccelli inizia la discesa. In un lampo. “Cosa succede?” urla Il Ruvido mentre il corvo sta per arrivare. Faccio un rapido cenno. L’uccello, un attimo prima di colpire il tipo, riprende quota. Il Ruvido alza la testa. Mette una mano davanti agli occhi. Guarda stupito verso il cielo. “Chi è quello? Un tuo amico? E se mi caga sul vestito come faccio?” Lancia un’ultima occhiata ad Achille. Certo. Il tipo ha più paura di una cacata di uccello sul suo vestito piuttosto che di una testata o di un coltello. O degli artigli del colombo rapace. “Va bene, per ora. Ma ci vediamo dopo. Alla fine. Non la i liscia.” Alza un lato della giacca. Sotto c’è una pistola. Appena restiamo soli, chiedo al mio amico se conosce quell’uomo. Ma lui è ancora visibilmente spaventato e non risponde. Resto in silenzio. Guardo nella direzione del tamarro che si è allontanato. “Ora scusami, Tommy. Vado a cercare un paio di bicchieri per festeggiare. Facciamo un brindisi. Noi due.”
“Aspetta,” gli dico. “Cosa dovremmo festeggiare?” Non mi risponde. Scompare tra la folla dei pinguini con veloci etti nervosi. Io non ho proprio niente per cui gioire. Valentina si è sposata. E Achille potrebbe anche immaginarlo, il mio sconforto. Visto che mi conosceva così bene. Ma magari sta solo cercando di sdrammatizzare. E in fondo lo capisco. Potrebbe essere confuso. Non capita spesso di vedere all’improvviso ricomparire una persona che si credeva morta. Non capita spesso di vedere un fantasma. E poi di trovarsi in compagnia di uno dei suoi peggiori incubi del liceo, uno come Il Ruvido. Mi guardo intorno. C’è un ricco buffet di aperitivi, con camerieri che cercano di sconfiggere il senso di noia e fastidio, alimentato da ogni secondo in cui sono costretti a lavorare in mezzo a tutta questa gente, con un caldo infernale. Versano il prosecco come robot, con il braccio fermo. Poi scattano via per tornare a fare il pieno come trottole. Qualche pinguino, per combattere il caldo soffocante, si è tolto la giacca. Qualcun altro ha allentato la cravatta. Il caldo vince sempre, anche contro i più impavidi. Gli sposi non ci sono ancora. Stanno facendo le fotografie da qualche parte, impettiti e pettinati per il giorno più importante della loro vita. Chiudo gli occhi. Ripenso a Valentina e a quando mi leggeva nel pensiero. Sento i rumori dei bicchieri che tintinnano, un brusio di sottofondo. Sarà il caldo, sarà l’emozione per questa giornata che ho aspettato tanto negli ultimi anni. Fatto sta che mi si piegano le gambe. Merda. Ricordo il momento in cui, dopo la caduta e la lunga camminata sotto la neve, entrai nel bar della stazione di Porta Nuova per prendere il treno per Praga. Ero stordito. Mi fischiavano le orecchie. Lo shock, la sensazione di essere morto e il risveglio mi facevano sentire in un altro mondo. Avevo lasciato Nicotina da sola nella gabbia. Mi ero fatto derubare. Mi sentivo insicuro. Dovevo tornare indietro o dovevo partire? Tornare a casa, prendere la gattina o salire sul treno che stava per partire? Ma ormai me n’ero andato. Ero nel bar della stazione.
Dovevo bere qualcosa. “Una grappa, per favore,” chiesi al barista che era a un metro davanti a me, chino sul lavandino a sciacquare tazzine e cucchiaini. “Una grappa… per favore,” ripetei. “Mi sente?” Niente. Niente. Calma piatta. Lo specchio rifletteva il mio viso bianco come un cencio, capelli biondi sparati in aria e la mia esile figura dentro un giaccone fuori moda. Era impossibile che non mi vedesse. “Scusi, signore,” provai ad attirare la sua attenzione. “Vorrei ordinare.” Non mi ascoltava. A un certo punto alzò lo sguardo. Guardò infatti dritto nella mia direzione, per uno o due interminabili secondi. Finalmente, pensai. Feci per tirare fuori il portafogli. Nell’esatto istante in cui misi la mano in tasca il barista abbassò però nuovamente gli occhi nel lavandino e riprese a sciacquare tazzine e cucchiaini, come se niente fosse. Era come se non esistessi, come se fossi diventato trasparente, come se fossi diventato un fantasma. Fu in quel momento che mi accorsi che nessuno mi vedeva, oppure se mi vedeva non mi degnava di attenzione. Ero diventato una sorta di soprammobile, un manichino da vetrina, un pugno di polvere nell’aria di una stanza. Agli occhi di tutti non avevo più niente da dire e non avevo nessuna importanza. Ero un fantasma, non ero più nessuno.
XII
I confetti
“Dracula, dovrai essere come un fantasma,” aveva detto Il Ruvido ad Achille, nel settembre del 1992.
Achille era salito sull’aereo. Si era seduto. Aveva allacciato la cintura di sicurezza, come se potesse servire a farlo stare più tranquillo. Tra le dita teneva la carta d’imbarco del volo Torino-Amsterdam. Era la prima volta che saliva su un aereo. “Nessuno ti dovrà notare. Dovrai essere invisibile,” aveva detto Il Ruvido. Se avesse potuto si sarebbe fatto mangiare dall’imbottitura del sedile. “Signori e signori, buongiorno e benvenuti a bordo del volo Alitalia TorinoAmsterdam.” Davanti a lui c’era un bionda meravigliosa che parlava con un microfono. Achille si era distratto un attimo dalla sua ansia e la fissava sbavando. “Vi invitiamo cortesemente a occupare il posto indicato sulla carta d’imbarco e a sistemare il bagaglio a mano negli appositi alloggiamenti sopra di voi o sotto la poltrona di fronte.” Ma quale bagaglio?, pensava Achille. Parto senza niente. E tornerò apparentemente senza niente. Dopo il viaggio in treno aveva incassato quello che gli spettava. Soldi e sorpresa finale. Una russa di ventinove anni, con i giusti tacchi a spillo e il colore bianco della Luna, tutta per lui. Quello era il pagamento extra. Aveva toccato il cielo con un dito in una manciata di secondi. Nel frattempo le spese del negozio dei nonni aumentavano. Qualcuno aveva fatto causa per il computer mai aggiustato e sparito in mille pezzi nel laboratorio. I nonni di Achille non sapevano più che cosa dire ai clienti che si presentavano per chiedere notizie del proprio computer. “È in riparazione, è in riparazione!” ripetevano. Ma quel loro nipote non ne riparava uno. I conti si accumulavano e l’estate del 1992 non prevedeva sconti. Devo essere pronto per l’autunno. È ovvio. Adesso stanno tutti pensando alle vacanze. Se ne vanno al mare, in costume. Ma a settembre avranno tutti i computer di nuovo rotti. E io avrò imparato il mestiere, sarò in grado di sistemarli, pensava. Però nel frattempo doveva pagare l’affitto e l’assicurazione della Centoventisette blu. Così era tornato dal Ruvido e dai suoi. Gli avevano affidato un’altra spedizione, ancora più pericolosa della prima. Quella volta in aereo. Aveva raccontato a Lucilla il viaggio in treno ad Amsterdam. Anche quella volta per fare colpo. Ma lei si era messa a ridere. “Dai, Achille!” aveva detto. “Come pensi che possa crederti. Tu, Sparviero, che parti per tornare carico di fumo…
Non ti vedo proprio. Non mi fare ridere.” Eppure era proprio così. Lo aveva detto solo a lei, per dimostrarle che era un uomo. Anche quel tentativo era fallito. Lucilla non ne voleva sapere. Continuava a vederlo come uno sfigato, il Banfone-di-prima-categoria. Non aveva parlato delle sue frequentazioni neanche con Tommaso. Durante l’estate non si erano più visti. Il suo amico non usciva quasi mai. Era chiuso in casa, oppure lavorava. L’hostess bionda, dopo aver finito di parlare al microfono, aveva indossato un giubbotto di salvataggio e gesticolato a destra e a sinistra per spiegare dove si trovava l’uscita di sicurezza. Ma cosa me ne frega, dell’uscita di sicurezza? Qui muoio dalla paura. Ci manca solo che l’aereo precipiti, pensava. “Dracula,” gli aveva detto Il Ruvido accompagnandolo all’aeroporto, “questa volta viaggerai in prima classe. Partirai da Caselle per Amsterdam, andrai nel Quartiere Rosso, quello delle puttane. Sarà poi il nostro corrispondente a venirti a cercare. Ti verrà a prendere con i confetti.” “Confetti?” “Sì, come quelli di un matrimonio. Ma senza il cioccolato dentro. Li devi ingoiare.” Li chiamavano così. Ovuli di cocaina. Piccole pallette avvolte nel cellophane. Avrebbe dovuto ingoiarne venti. “Non avrai niente addosso. Sarai al sicuro dal naso del cagnolino della Finanza. Poi potrai tornare tranquillo a casa e aspettare il momento in cui ti verrà voglia di andare a cacare. Al ritorno uno di noi ti terrà compagnia. Tutto chiaro?” Gli tremavano le gambe. Ma doveva trovare i soldi. “Quanto mi darete?” “Centomila a confetto. E sorpresina all’arrivo. Una ancora migliore dell’altra. Sembra equo?” Insomma. Neanche troppo, pensava Achille mentre l’aereo si staccava dalla pista di Caselle e aveva una fifa più blu del cielo. Non aveva avuto però il
coraggio di rilanciare. Magari questa volta compro un souvenir per Lucilla. Così non potrà non credere alle mie parole, quando le dirò che sono diventato un corriere della droga e che ho coraggio da vendere, io. Questa volta. Quant’è vero Iddio, mi crederà. “Se uno dei confetti si rompe?” aveva chiesto prima di salutare gli spacciatori. “Non si romperà, non ti preoccupare, Dracula.” “E se succede?” “Beh, farai un altro volo, oltre a quello di andata e ritorno per Amsterdam.” “Va bene, accetto,” rispose sentendosi come Al Pacino in Scarface. L’aereo era decollato. Achille sentiva nell’intestino una specie di terremoto. Un rumore che nasceva dalle budella e si diffondeva in tutto lo stomaco. Che cosa mi potrà succedere se proverò la stessa sensazione, al ritorno? Appena si spense la luce delle cinture di sicurezza si precipitò verso la toilette.
XIII
Le foto di amici e parenti
“Rapidi rapidi di qui, rapidi rapidi di là. Su, su, stringetevi. Lei, sì, lei là dietro, non vede che la signora davanti a lei, con tutti quei capelli ricci, la copre completamente? Su, su, rapido, rapido, si scosti. Ci siamo ora? Pronti? Ciiiiiiiis… formaggio-formaggio!” Click. Click. Fotografo invadente e inopportuno, pronto a immortalare la noia degli ospiti, da spostare di qua e di là come soldatini. Ti odio, pensa Tommaso. “Un’altra. Ora lo sposo e la sposa. I parenti della sposa, zii-cugini-nonna-nonnapapà e mamma di lui a sinistra. Zii-cugini-nonna… ah, niente nonna? È già
andata? Nonno? Il nonno c’è? Sì? Allora pronti col nonno. Poi papà, mamma di lei, a destra, sì, a destra, è logico no? Nooo?” Click. Click. “Bravi. Bravi. Siete venuti proprio bene.” Il piccolo fotografo con grandi obiettivi e la capa pelata corre di qua e di là come una molla. Trasmette isteria e agitazione, mentre i parenti degli sposi si fanno guidare come marionette, fieri di essere fotografati come manichini nel vestito bello della domenica, a fianco di lui e di lei, ancora tirati a lucido. Le ragazze e le signore, agghindate e in bilico su tacchi che sembrano trampoli, cercano la loro espressione migliore, studiata allo specchio e sperimentata durante altri matrimoni-battesimi-feste-di-compleanno. “Ora gli amici. Amici-amici-amici? Riusciamo a raccogliere gli amici per una bella foto? Su! Dai con gli amici. Forza forza forza. Allora ci siamo? Formaggio, formaggino?” Potrei andare anch’io. Mettermi in posa. Io e lo sciame delle mie vespe, i miei due corvi che mi tengono d’occhio, il mio abito nero da Blues Brothers e da funerale, lo Swatch con il vetro scheggiato e le All Star, ormai stinte e non più scintillanti come un tempo. Potrei andare insieme agli amici dello sposo, sgomitare per avvicinarmi a lui, e poi mettermi alla sinistra di Valentina. Così finalmente potrei sentire il suo profumo e vederla. Potrei abbracciarla. Non sono ancora riuscito a vederla. Neanche ora. Sto a distanza di sicurezza. Non posso rischiare di bruciare la mia ultima possibilità. Se qualcuno mi vede? Anche quando eravamo insieme, in fondo, non avevo mai voglia di farmi fotografare. Se mai le foto le facevo io. Come quella volta che eravamo andati in montagna. Fine giugno 1992. Achille aveva appena preso la patente, dopo essere stato bocciato tre volte all’esame di pratica di scuola guida. Io non avevo ancora iniziato le lezioni perché non avevo soldi. In realtà era destino che la patente non la prendessi mai,
perché non la danno ai fantasmi. Ma all’epoca non lo sapevo, e tanto c’era Achille. Era venuto a prendere me e Valentina. Eravamo sotto casa di Lucilla. Andavamo tutti e quattro in montagna, in un paese in Valle d’Aosta, dove c’erano più nani da giardino che abitanti, ogni tanto veniva avvistato l’Abominevole Uomo delle Nevi, la gente respirava aria buona e beveva la grappa dalla mattina alla sera come acqua. Avrei dormito per la prima volta con Valentina. Non stavo nella pelle dalla felicità. Per l’occasione avevo sfoderato boxer nuovi, rosso fuoco, e la maglietta dei Clash, amuleto per i momenti più importanti. La macchina di Achille era la Centoventisette blu elettrico del nonno. Un catorcio. Era piena di bolli, con parti di lamiera arrugginita, un solo tergicristallo e un pettine infilato nel vetro del guidatore per tenerlo su. Dentro si sentiva un odore che era un misto tra quelli che si sentono sul treno, in cantina, in un pub e in uno spogliatoio della palestra della scuola. L’autoradio scassata sparava: “Mare mare mare, ma che fretta di arrivare,” la canzone di Luca Carboni che sarebbe stata il tormentone dell’estate. “Sei sicuro, Achille, che con questa riusciremo ad arrivare in montagna?” gli aveva chiesto Valentina. “Certo! Con questa mio nonno andava fino in meridione. E tornava indietro carico di peperoni. Vuoi che non riesca ad arrivare a Gressoney La Trinitè?” Si chiamava così, il paese dei Sette Nani. Lucilla stava uscendo dalla porta di casa. Aveva con sé uno zaino enorme, anche se dovevamo stare via solo due notti. Uscii dalla macchina per aiutarla a metterlo nel bagagliaio, già pieno di roba. “Ma cosa ti sei portata dietro?” Cercai di infilarlo tra gli altri zaini. Ma non c’era verso di farlo entrare. “Non ci sta. Non ci sta!” Stavo sudando. “Non lo schiacciare! Ci sono cose fragili!” “Ma cosa ti sei portata, Luci?” “Creme. Solo alcune creme. Qualche rivista, tipo Novella 2000, un libro, maglioni, calze… insomma, niente, le solite cose!”
“Tutta ’sta roba per andare a fare una gita in montagna? Ma ti rendi conto che ’sto zaino te lo dovrai portare a spalle? E che cosa te ne fai delle creme?” “Beh, se qualcuno mi dà una mano a portarlo… Magari Achille.” “Allora! Là dietro!” sentimmo a un certo punto urlare dal posto di guida. “Ce la fate che partiamo?” La Centoventisette era accesa. Fumava come un turco su un treno a vapore. Pressai lo zaino più che potei con una mano. Con l’altra presi il portellone e lo abbassai di scatto. Miracolosamente si chiuse. Non l’avrei mai detto. “Visto che ci sta? Eh? Hai visto, Tommy, che non ho preso tanta roba?” Ero in un bagno di sudore. Finalmente partimmo. In autostrada Achille raccontava che a Gressoney era stato avvistato l’Abominevole Uomo delle Nevi. Un essere peloso, gigantesco, cannibale, con la voce roca e una certa predilezione per grappa e Genepy, il tipico liquore di erbe valdostano. Noi tre lo ascoltavamo, senza credere ovviamente a quello che stava blaterando. La Centoventisette viaggiava stazionaria sui novantacinque-cento all’ora. Ogni tanto un tir ci sorava e ci sentivamo piccoli come formiche davanti a un gatto. Ma la strada scorreva fuori dai finestrini. A un certo punto, però, improvvisamente il baule si aprì. Vidi con la coda dell’occhio lo zaino di Lucilla che saltava come un canguro in mezzo alla strada, un camion che lo schiacciava come una merda di cane e maglioni, magliette, calze, mutande, riviste, libri, spazzolini da denti, dentifrici, Novella 2000, creme e tantissime altre cose che prendevano il volo e rimbalzavano sull’asfalto. “Ferma! Ferma!” gridava Lucilla. Noi tre non riuscivamo a non ridere. La strada era cosparsa degli effetti personali di Lucilla e dalle pagine dei vip fotografati dai paparazzi di Novella 2000. Achille accostò. Avevo una macchina fotografica. Una di quelle usa e getta. La
presi. Scesi. C’era vento. Tanto vento. Iniziai a scattare foto dei vestiti e delle pagine dei giornaletti che svolazzavano tra le macchine. “Ma cosa fai? Cosa fai?” ripeteva Lucilla. “Non vedi che la mia roba… sta volando via dal viadotto? Prendiamola!” Lucilla riuscì a recuperare un paio di calze, un maglione, qualcos’altro appallottolato sotto il guard rail. Poco più. Non poteva andare in mezzo alla strada, era troppo pericoloso. Valentina rideva. Achille andò vicino a Lucilla, con le mani trai capelli. “Dai su. Non ti preoccupare. In paese c’è un negozio. Compriamo quello che ti serve.” Le mise una mano su una spalla. Lei gli tolse la mano di scatto. “Tu e la tua merda di macchina. Cambiala. Non ci sta niente. È colpa tua…” “Ah! È colpa mia e della Centoventisette del nonno se lo zaino è caduto?” Continuarono con il loro battibecco per qualche minuto. Poi Lucilla, quando ormai il vento e le auto avevano portato via tutto, si calmò. Valentina era seduta alla sua sinistra sul guard rail. Achille alla destra. L’abbracciarono. Luci aveva una lacrima che le rigava una guancia. Gli altri due sorridevano, con i capelli spettinati dal vento. Mi misi davanti a loro, a un paio di metri distanza, subito dopo la riga della corsia di emergenza. “Fermi, fermi così!” Scattai la foto, mentre tutti e tre guardavano nella mia direzione. Improvvisamente mi accorgo che il fotografo schizofrenico è davanti a me. Sono sul prato, da solo con qualche fantasma di vespa che mi ronza intorno. “Vattene, brutto pelato. Io non compaio nelle foto.” Non mi sente. O fa finta di niente. Punta il suo obiettivo nella mia direzione. Lo guardo dritto negli occhi.
Non voglio che mi fotografi. Al massimo sono io che faccio le foto. Non voglio essere fotografato così. Click. Click. Una signora si avvicina. “Belle, vero, quelle margherite nel prato, non trova, eh fotografo?” dice indicando nella mia direzione. Bene. Allora sono invisibile. Meno male. Le tue foto saranno un successo. “Certo signora, certo. È per questo che ho fatto un paio di foto. Chi lo sa. Potrebbe venire una bella copertina per l’album fotografico degli sposi. Magari le sviluppo in bianco e nero. Faccio una bella composizione per il book. E la vuole sapere un’altra cosa?” “Che cosa? Mi dica.” “Il bello delle foto è che vedi quello che c’è adesso. Gli stessi colori, le stesse facce, gli stessi vestiti. Ma non questo caldo maledetto.” “Ma ora andiamo. Su. Su,” aggiunge il fotografo ad alta voce. “Gli amici-gliamici-gli-amici dello sposo!” urla. “Voglio qui tutti-gli-amici per una bella foto di gruppo! Su. Su. Non siate timidi, maschietti e femminucce!”
XIV
Burocrazia prematrimoniale
Un lunedì sera di inizio luglio 1992. Il Generale era rientrato in casa prima del previsto e aveva esposto il suo piano di battaglia, spargendo dopo pranzo tutti i documenti sulla tavola.
Cinque anni di trasferta: la famiglia, ad eccezione di Vittoria, si trasferiva in blocco, con armi e bagagli. Avanti marsch! Il aporto di Valentina colpì come un proiettile la finestra. Per miracolo il vetro non andò in frantumi. “No! Io non vengo! Non se parla neanche!” gridò. “Resto a Torino.” Avevano finito di mangiare. La mamma stava sparecchiando, muovendosi come un automa sulle stesse mattonelle che aveva calpestato per anni. Il padre diede un pugno sul tavolo e scattò in piedi. “Tu!” disse indicando la figlia. “Tu fai quello che dico io! Verrai a Praga, senza discussioni!” “Perché solo io? Perché invece lei può restare a Torino? Anch’io voglio restare! Qui ho tutto.” La mamma, come sempre, taceva. In quelle occasioni, quando il marito si infuriava e scoppiavano discussioni, preferiva fare sparire nella credenza piatti, posate, bicchieri, e anche le briciole sul tavolo e la polvere nell’aria, come se togliere le tracce del disordine potesse contribuire a far tornare il cielo sereno, o quanto meno a fare in modo che le nuvole non fero scoppiare un temporale. Magari, se poteva, lanciava di nascosto un’occhiata verso la figlia, per dirle che la capiva, però non poteva farci niente. “Perché Vittoria resta? Perché ci sono mille motivi per cui deve rimanere, e tu partire,” disse il Generale. Valentina piangeva. “Non è vero! Anche per me ci sono tanti motivi per restare.” “Quali? La scuola? Vittoria deve iniziare Economia e Commercio.” “Anch’io voglio fare l’università. Anch’io. Mi voglio iscrivere a Medicina,” rispose con freddezza. “Ho pensato anche a questo. La farai a Praga. C’è un’ottima università. Imparerai la lingua e poi la Medicina. All’Est ci sono ottimi medici, migliori di quelli che ci sono qui. Gli economisti, invece, beh… dopo trent’anni di comunismo puoi immaginare.”
“Qui ci sono i miei amici.” “Li potrai vedere ogni tanto. Ti verranno a trovare. Potrai tornare qualche volta a Torino.” “…E qui c’è Tommaso, papà.” Il Generale Valdieri si fece scuro in volto. Certo. Proprio quello era un motivo per cui Valentina sarebbe partita, a differenza di Vittoria. “Ah. E allora?” La cena al Circolo degli ufficiali era stata solo qualche giorno prima. Il Generale si ricordava perfettamente quel ragazzo con i capelli biondi e quelle scarpe da ginnastica. “Stai scherzando, vero? Non oserai forse farmi credere che rinunceresti a stare con la tua famiglia per rimanere con quel poco di buono?” “Lo sai, papà, quanto ha preso alla maturità Tommaso?” “Non lo so, ma posso immaginare. Trentasei? Uno così non prende di più.” “Sbagliato,” rispose lei di scatto, “sessanta. Ses-san-ta. Al liceo classico. Ha preso il massimo. Tommy è stato il più bravo della classe, forse della scuola.” “E allora? Adesso i voti li regalano. Lo sanno tutti.” Valentina si alzò senza guardare in faccia il padre. Uscì dalla sala da pranzo e si chiuse nella sua stanza. Si distese sul letto fissando il soffitto. Non voleva piangere per non dargliela vinta. Nella sua mente rivide la fine di quella maledetta cena, come se fosse un film. Non riusciva a trattenere le lacrime. Erano al dolce. Una schifezza di créme caramel, il dolce che non piaceva neanche a sua nonna quando era viva. Edoardo aveva finito di parlare del suo futuro alla Bocconi di Milano, dei suoi genitori, della casa alle Cinque Terre, di quella a Bardonecchia, dell’attività del
padre commercialista e anche del suo pataccone di Rolex. Bla-bla-bla. Sembrava un discorso preparato, come una torta margherita del Mulino Bianco, una specie di curriculum scritto apposta per quell’occasione, impeccabile, conformista e pettinato come si deve. Il Generale aveva ascoltato ogni parola pendendo dalle sue labbra. Ogni tanto lanciava un cenno di approvazione a Vittoria, come per dire: “Ti sei proprio scelta un bravo ragazzo. Avete vinto la mia stima, voi due”. “E sa che cosa le volevo dire, Generale? Avrei quasi quasi intenzione di non chiedere il rinvio per il militare, anche se potrei, visto che sono in regola con gli esami, per provare a presentare la domanda per il corso ufficiali.” “Ah,” commentò immediatamente il Generale, “questa sì che sarebbe una scelta importante.” Si leggeva nel suo sguardo la massima soddisfazione, il più grande orgoglio che un uomo come lui avrebbe potuto provare. Sua figlia avrebbe sposato uno esattamente come il padre! Poteva essere il figlio maschio che non aveva avuto. Dopo quelle parole, degna conclusione della descrizione perfetta di un genero ideale, ci fu un attimo di silenzio. Nel frattempo Tommaso aveva giocherellato con i grissini, aveva rovesciato un bicchiere di vino, si era mangiato le unghie e, soprattutto, aveva continuato a bere. Bere. Bere senza tregua. “Ehi tu, Tommaso,” disse a un certo punto il Generale, “anche tu vorresti iscriverti alla Scuola Ufficiali? Te la dai una spuntatina ai capelli?” aggiunse pensando di fare una battuta. Tommy alzò la testa dal piatto. Si ò una mano tra i capelli biondi e spettinati. Aveva uno sguardo stralunato, come se ci fosse una colonia di formiche ubriache in festa nel suo cervello. Gli venne in mente la visita militare. I famosi tre giorni. Da quando lo avevano fatto mettere in mutande con tutti gli altri con la finestra spalancata a gennaio, alla fine, quando li avevano fatti aspettare due ore per ritirare l’assegno di diecimila lire. “Beh, il militare… Se i miei genitori non fossero morti tutti e due… se non mi avessero lasciato senza una lira, se adesso non dovessi fare il fattorino per pagarmi l’affitto, se e ancora se… sicuramente farei domanda per il servizio civile e farei l’obiettore di coscienza. Ma no, mi hanno esonerato, per fortuna. Niente servizio per la Patria per il sottoscritto,” concluse con un sorriso.
Nella sala principale del Circolo degli ufficiali scese un silenzio di ghiaccio, come il momento prima di una fucilazione. Sotto il tavolo Valentina stringeva la mano di Tommaso. Il Generale era viola. Gli uscivano fiamme dalle orecchie e lapilli di lava incandescente dalla bocca. La moglie continuava a restare in silenzio, guardandosi intorno per capire se finalmente il cameriere si sarebbe deciso a portare via i piattini, altrimenti lo avrebbe fatto lei. “Mamma,” disse a un certo punto Valentina. “Lo sai che Tommaso scrive da dio e suona la chitarra? Lo sai che quest’anno ha preso nove in un tema che la professoressa ha letto davanti a tutta la classe, e alla fine era commossa? Lo sai che ha una gattina che si chiama Nicotina ed è tutta grigia con una macchia bianca sotto il muso?” La signora sorrise. Lanciò un’occhiata a Tommaso, che per la prima volta della serata sembrò rianimarsi. “Ah, davvero?” chiese. “Che bravo, Tommaso.” “Va bene, va bene,” intervenne bruscamente il Generale. “È ora di andare a letto. Perché qualcuno,” aggiunse indicando Edoardo e Vittoria, “domani deve studiare.” Si alzarono tutti. Il Generale prese da parte Edoardo, gli appoggiò una mano sulla spalla e lo portò con sé verso l’uscita, parlandogli. Faceva due i. Poi si fermava. Lo faceva per evidenziare meglio il concetto che spiegava a Edoardo, costretto a fermarsi ogni volta anche lui. Poi il Generale ricominciava a camminare. Due, tre, quattro i, lentamente. E si fermava di nuovo. Così si fermava anche Edoardo. “Allora. Se vuoi presentare la domanda, ti posso aiutare,” disse alla fine superando la porta del locale. Valentina e Tommaso uscirono per ultimi. “Non ti preoccupare, chissenefrega di cosa pensa mio padre,” sussurrò Valentina. “Io con uno come Edoardo non ci starei mai.” La testa di Tommy girava come una trottola. Cercava di trascinare una All Star
rossa dopo l’altra senza inciampare nei propri i. “Cosa ti prende?” chiese Valentina quando si accorse che Tommy aveva gli occhi lucidi. “Niente,” rispose lui sorridendo, “sai, quando mi fanno bere troppo… quello, il cameriere, ce l’aveva con me… voleva farmi ubriacare. E poi miei bicchieri sembravano sempre sporchi… Qual è il segreto per tenerli puliti? Così ora mi ha preso una ciucca un po’ triste. Ma mi a, sai? Non ti preoccupare.” Valentina raccolse il aporto. Aveva vinto lui.
XV
Il lancio del bouquet
Dopo il volo, dopo essermi rialzato come Lazzaro dall’asfalto, dopo aver cercato per un quarto d’ora di ordinare una grappa che il barista non mi voleva dare, dopo aver pensato che qualcuno avrebbe trovato Nicotina e sarebbe andato tutto bene, partii con il treno per Praga. Era lo stesso su cui sarei dovuto salire in carne e ossa se non fossi caduto. Ero senza biglietto. Tutto sommato avevo ben altri grattacapi e problemi da affrontare. Mi sedetti in uno scompartimento vuoto. Non avevo bagagli. Mi tolsi il cappotto sdrucito e lo posai sul sedile. Alla stazione di Porta Susa entrò una giovane coppia. Lui si sedette di fronte a me, la ragazza accanto. Avevano diciassette o al massimo diciotto anni. Lei aveva un mazzo di fiori di campo in mano. Era molto carina. Lui aveva un bomber e la faccia da bulletto, si atteggiava da adulto. A un certo punto distese la gambe sul sedile e appoggiò i piedi sul mio cappotto.
“Scusa,” mi venne istintivamente da dire, “puoi gentilmente spostare i piedi?” Non era un problema di pulizia o igiene. Il cappotto non si sarebbe sporcato più di quanto già non fosse, visto che ero caduto dal cornicione sull’asfalto ed ero rotolato per terra, tra il fango della pioggia mista alla neve, foglie secche, gomme da masticare, mozziconi di sigarette e altro. Mi dava fastidio il gesto. Era una manifestazione di totale noncuranza, menefreghismo e maleducazione. Non ci si comporta così, specialmente quando si incontra uno sconosciuto. “Scusami, puoi spostare i piedi per favore?” ripetei. Forse non mi sentì. O fece finta di non sentire. O forse non gli importava un bel niente. Anche la ragazza non mi aveva sentito. Era avvinghiata al fidanzato. Lui, come se fossero da soli nello scompartimento, le aveva infilato una mano sotto la camicetta. “Ma insomma!” dissi con un tono di voce piuttosto alto. “Non vedete che non siete soli? E tu togli ’ste scarpacce dal mio cappotto!” Niente. Non mi sentivano. Come prima non mi aveva sentito il barista. Non mi degnavano di attenzione. Si comportavano come se non ci fossi. Riuscii a strappare via il cappotto tirandolo da sotto i piedi del tipo. Lei, nel frattempo, si era girata verso il ragazzo che le aveva sbottonato completamente la camicetta e stava iniziando con i bottoni dei pantaloni. Mi alzai di scatto. Improvvisamente la ragazza fece un balzo, allontanandosi dal ragazzo. “Oh!” esclamò guardando nella mia direzione, con un seno di fuori. “Basta.” “Che cosa ti succede, amore?” le disse il ragazzo, guardandola stupito. Io ero in piedi, fisso come un palo della luce, con il cappotto sottobraccio. Li guardavo dall’alto in basso. Lei intanto si riabbottonava velocemente la camicetta.
“Che cosa ti prende, amore?” ripeté lui. “Niente. Niente. Non lo so, anzi, per un attimo mi è sembrato… che qui ci fosse qualcuno.” In effetti ci sono io, con voi. Come sarebbe a dire mi è sembrato? “Beh. Sono per caso diventato invisibile?” dissi. “Vi sembra il modo di comportarvi?” Non mi sentivano. E non mi vedevano. Finalmente capii perché non ero riuscito a ordinare la grappa. Accidenti, che cosa stava succedendo? “Sei diventata pazza tutto d’un colpo, amore?” “No. Davvero. Mi sembrava che ci fosse qualcuno qui.” “Chi? Il Fantasma Formaggino? Dai, su. Non vedi che non c’è nessuno?” disse allungando una mano. “No. Adesso non mi va più. Non mi toccare. Mi sono spaventata.” Si sedette di fronte al ragazzo, voltandosi verso il finestrino. Fissava le luci della periferia che scorrevano monotone e ripetitive. Sembravano la strobo della festa di Carnevale. “Mi sa che tu non hai mica tutte le rotelle a posto. Sei proprio un’isterica. Aveva ragione la tua amica…” La ragazza si voltò di scatto. “Perché parli della mia amica? Eh, quando l’hai vista?” “Sì. La tua amica. Proprio lei. Lei non fa la difficile come te.” “Come sarebbe a dire? Che cosa stai dicendo?” “Dai, su. Ora non fare tragedie. Siediti di nuovo qui.” “Che cos’hai detto sulla mia amica, scusa? Puoi ripetere?”
“La vuoi smettere?” “No. Voglio che finisci il discorso. Quando l’hai vista?” “Non ne voglio parlare. Ora non devi esagerare, hai capito?” aggiunse alzando la voce. “Invece ne parliamo. Perché oggi, caso strano, l’ho sentita. Le ho detto che venivo via con te ed è rimasta in silenzio. Quindi ora voglio sapere che cosa è successo tra di voi.” “Ma dai, non è successo niente. Sì, ci siamo visti in sala giochi… ci siamo salutati. Una cosa veloce.” “Una cosa veloce?” “Smettila ora. Non ne parliamo più. Non vedi? Io ora sono con te. Sono tutto tuo. E ti sei già dimenticata di quelli?” disse indicando i fiori che aveva in mano lei. “Ti ho anche regalato i fiori di campo, quelli che ti piacciono tanto. Noi ci dobbiamo sposare, ti sei dimenticata?” La ragazza si alzò di scatto. Prese il mazzo di fiori. “Che cosa credi, che basti? Eh? Credi di pulirti la coscienza così? Mi dici che ci sposiamo dopo che mi hai fatto capire che sei uscito con la mia amica?” Lanciò il mazzo con veemenza in faccia al ragazzo. Aprì la porta dello scompartimento e se la richiuse violentemente alle spalle. Peccato. Mi spiaceva aver rovinato il momento. Ma forse sarebbe successo lo stesso. Prima o poi. Presi il cappotto. Uscii anch’io. Avrei cambiato scompartimento. Di certo io non mi sarei mai permesso di comportarmi così con Valentina. Mentre andavo via vidi di sfuggita che il ragazzo, con un’espressione di rabbia dipinta sul volto, stava tirando fuori da una tasca della giacca un coltello a serramanico. Mi bloccai. Tornai indietro.
Aprii la porta e lo colpii con una testata. Più forte che potevo. Lo vidi stramazzare al suolo, svenuto. Il coltello gli cadde di mano. Lo presi e lo buttai fuori dal finestrino. Mi vide. Sono sicuro. Ma non ebbe il tempo di reagire. Lo adagiai sul sedile. Sembrava addormentato. Alla prima fermata la ragazza scese dal treno. Lui continuava a dormire. Io ero seduto al suo fianco. Lo tenevo d’occhio. Mi accorsi che stringevo in un pugno la drink card della festa di Carnevale. Vidi che era bucata in corrispondenza della prima consumazione. Che strano. Prima non c’era nessun buco. Tirai fuori la chitarra dalla custodia. Iniziai a strimpellare la canzone di De Gregori che parla dei matti che vanno contenti “tra il campo e la ferrovia, a caccia di grilli e serpenti, a caccia di grilli e serpenti”.
XVI
La lista nozze
Calze. Mutandine. Qualche maglietta, ma neanche troppe perché tanto lì fa un freddo cane. Poi jeans, gonne, la giacca a vento, maglioni di lana, i miei libri, tanti libri nuovi da leggere, visto che sarò da sola, il Walkman con tutte le cassette, pile per il Walkman… pensava Valentina mentre buttava tutto nella valigia, come se ogni cosa fosse immondizia. La sorella si era appostata come un corvo sull’uscio della stanza. Era truccata allo stesso modo della mamma quando il padre la portava a qualche cena di gala. “Non sei contenta di andare via?”
Valentina la guardò con un’espressione di rabbia dipinta sul volto. “Tu sì? Tu sei contenta? Perché non hai detto niente, almeno tu?” rispose di scatto. “Perché non hai detto che sarei dovuta rimanere anch’io a Torino?” Vittoria non rispondeva. “Perché? Eh? Vuoi che risponda per te?” La sorella continuava a tacere. “No. Non aggiungere niente. Non è il caso. La risposta è che sei una stronza.” “Tu sei una bambina,” replicò stizzita la sorella. “È giusto che tu vada via con la mamma e il papà. E qui non abbandoneresti niente. Sei sempre in giro con quei quattro sfigati.” “Brava. La pensi esattamente come lui. Giusto. Ora sparisci. Spero di non rivederti e risentirti mai più.” Sarebbe successo esattamente così. E forse un giorno Vittoria si sarebbe pentita. Nel frattempo Achille era a casa di Tommy. “Te lo devo dire. Ne devo parlare con qualcuno.” Tommy era sdraiato sul letto, con la chitarra sul petto. Stava strimpellando degli arpeggi in minore. Il gatto giocava con le corde che spuntavano dalle chiavi. “Finalmente me la sono tolta. ’Sta verginità. Con una russa! Una sventola di ventinove anni. Una modella.” “Sì?” rispose Tommy lanciandogli un’occhiata distratta. “E dove l’hai trovata? Nell’ovetto Kinder?” Achille non rispose. Sapeva cosa stava succedendo. Certo, pensò, lui in questo momento ha qualcos’altro in testa. Non è per niente interessato ad ascoltare la mia storia. E di certo non mi crederebbe. “Va beh. Te la racconto un’altra volta. Ce ne facciamo una?” aggiunse tirando fuori una bustina di maria.
Tommy si distrasse per un momento dalla chitarra. “Achille. Come mai hai ogni volta qualcosa da fumare? Fino a qualche settimana fa andavi sempre a scrocco. Ora sei tu che offri di continuo. Perché?” Achille non rispose. Si limitò ad alzare le spalle. Tanto non mi crederesti, pensò. “Che ora è?” “Eh. È ora che me ne vada a casa.” Se vuoi posso farti una bella lista, di tutto quello che posso trovare lassù, in Olanda. E quello che trovo qui, quando torno.
XVII
L’assegnazione dei posti ai tavoli
Gli sposi hanno fatto tutte le foto di rito e sono arrivati al rinfresco. Ora lei lancerà il bouquet e una delle sue amiche zitelle penserà che finalmente sarà finita la lunga attesa, l’interminabile agonia dell’eterna bisbetica. Ma il bouquet prenderà una traiettoria anomala e finirà nelle mani sbagliate. Mi faccio da parte. Non ho nessuna intenzione di vedere. Non mi voglio avvicinare. Non ho ancora abbastanza coraggio per vedere Valentina agghindata da sposa, abbracciata a uno sconosciuto che mi ha rubato il posto. Per ora preferisco andare a cercare gli avanzi del ricco aperitivo, finire piccoli panini mezzi scartati, svuotare flute di prosecco e apire come una margherita stanca di sera. Poi arriverà la notte e per uno come me, un fantasma, sarà più facile. Mi accorgo che c’è un tabellone su cui è riportata la composizione dei tavoli. Mi avvicino. Il mio nome non c’è. Come da previsione. Non c’è il tavolo dei
fantasmi. Niente di strano, perché non sono stato invitato. Anche se avrei più diritto di stare qui rispetto alla grande maggioranza dei presenti. Io faccio infatti parte di un altro mondo. Ma i morti di solito non partecipano ai banchetti nuziali. Preferiscono i funerali. I tavoli sono rotondi, le sedie bianche, i tovaglioli bianchi, i piatti bianchi, le posate simil-argento, il centrotavola è floreale, bianco. Come sempre. Ogni tavolo ha il nome di un fiore: lillà, viola, ciclamino, azalea, ginestra, primula, gelsomino, iris, camelia e mughetto. Se ci fosse anche il mio tavolo, si chiamerebbe crisantemo. Ma non hanno avuto il buon gusto di pensare a un tavolo per le buone anime. Meno male, perché il crisantemo puzza tremendamente. Quando facevo le consegne con il motorino e mi davano da portare corone da morto senza sapere che non avevo la macchina, lasciavo una scia in tutta la città. Ma almeno così i vigili si guardavano bene dal fermarmi. Nella grande sala da pranzo ci sono grandi lampadari di cristallo di Boemia che scendono gocciolando, caminetti mai accesi, affreschi seicenteschi sui soffitti. Nel frattempo pinguini e ancelle schiamazzanti, storditi dal caldo, da stuzzichini e prosecco, vagano tra i tavoli, lanciano un’occhiata perplessa ai commensali e alla fine si siedono stiracchiando muscoli e ossa, pronti alla mangiata del secolo. Qualche pinguino si è tolto la giacca per sfoggiare una camicia bianca candeggiata, qualche ancella agita un ventaglio per smuovere l’aria che è sempre ferma come quella del deserto. Mi aggiro tra i tavoli cercando un posto vuoto, o quanto meno uno sgabello o un davanzale. Improvvisamente mi trovo davanti Achille. “Che strano,” dice, “si sono dimenticati di segnare il mio nome.” “Anche il tuo?” Siamo davanti al tavolo dei single. Ci sono un paio di sedie libere. Evidentemente qualcuno ha dato il forfait dell’ultimo minuto, quello che rimane indelebile nella memoria degli sposi, giustificato da una scusa improbabile, sullo stile di quelle che si dicevano a scuola, come la morte prematura e improvvisa della nonna già morta due o tre volte, la foratura contemporanea di tre
pneumatici dell’auto del padre o un inspiegabile avvelenamento da cozze avariate. I single, razza in via di estinzione ai matrimoni, si guardano intorno circospetti e intimiditi. Le donne hanno rughe da zitelle tirate a lucido, mentre gli uomini hanno perso i capelli e sfoderano scintillanti crape. Nessuno di loro tornerà a casa con la consapevolezza di aver risolto l’incubo della sua solitudine. “Ai matrimoni non si combina mai niente. È matematico,” diceva la mia professoressa di italiano. Prendo una sedia. La metto tra quella di Achille e quella di una ragazza grassa, un’autentica balena. “Come me, non hai il piatto,” mi sussurra Achille. “Evidentemente si sono dimenticati anche di te!” Eh sì, si fa in fretta a dimenticare chi se ne va. E dire che i migliori sono sempre quelli che se ne vanno per primi. Gli altri ci ignorano. Ma io sono abituato. “Beh. Non ti sei ancora accorto che sono un fantasma? Credi che avrebbero dovuto pagare il coperto anche per uno come me? Comunque non importa. Tanto non ho fame.” La perdita dell’appetito, come quella progressiva delle diottrie e una certa sensazione di dover oliare le articolazioni che scricchiolano come grissini torinesi, rientra tra i lenti e ineluttabili effetti collaterali della morte. “Ma tu, Achille, come mai non hai il posto? Ti sei autoinvitato al matrimonio?” “Io? No, no, mi hanno invitato, cosa credi?” “L’hai già vista Lucilla?” “Non ancora.” “È lei la testimone? Ci scommetterei. Ma la vuoi sapere una cosa, Achille? È per colpa di Luci che sono arrivato qui solo ora. Se vuoi un giorno ti spiego…”
“Non c’è bisogno, sai? Ho saputo del vostro incontro ai Murazzi, un anno fa. Ma ora sei qui.” “L’andiamo a cercare? Oppure vuoi mangiare? Non hai lo stomaco vuoto?” Mi accorgo che non mi sta ascoltando. “Vuoto?” dice. Mi sta fissando. Non distoglie lo sguardo. Gli tremano le labbra, come se avesse paura. “Non sono stato io, a buttarti giù.” Di nuovo con questa storia. “Vuoi sapere, Achille, quando ho mangiato per la prima volta, dopo essere caduto?” Il treno finalmente arrivò a Praga. Quella notte d’inverno, non avevo chiuso occhio. Avevo trascorso il tempo nel corridoio, seduto su uno sgabello a scomparsa, fissando le luci che scoppiavano e scorrevano come scintille fuori dal treno, cercando di intuire che cosa ci fosse là fuori, nel gelo della notte. Soffiavo sul vetro che non si appannava. Guardavo il finestrino in cerca del mio riflesso che non c’era. Ero confuso. Ma non ero ancora consapevole della mia condizione. Non mi ero ancora fatto una ragione di essere diventato un fantasma. Forse era solo perché cadendo avevo battuto la testa. Quando scesi sulla banchina della stazione ceca la gente camminava rapidamente, parlava una lingua incomprensibile e respirava sollevando nuvolette di fumo nell’aria gelida. Io mi sentii ancora più stranito. Che cosa ci facevo da quelle parti? Se non l’avessi trovata? E se l’avessi trovata, mi avrebbe visto?
Avevo fame. Vidi che c’era un baracchino di hot dog. Dietro c’era un piccolo ometto di quaranta o cinquanta anni, che infilava le salsicce in una pentola sporca che avrà avuto la sua età. Non avevo spiccioli. Tanto meno monete ceche. Non parlavo neanche la lingua. Però mi sarei fatto capire. Bastava indicare una delle salsicce, poi il panino, fare qualche gesto. Poi aspettare e scappare tra la folla. Mi misi in coda. Davanti a me c’erano un paio di ragazzini. Dietro si mise una donna. Grassa. Arrivò il mio turno e stavo per indicare la salsiccia, quando la donna mi ò davanti. Disse qualcosa nella sua lingua e il tizio iniziò a farle il panino. Non avevo mai sopportato i maleducati che saltano le code. In quel momento la cosa mi fece inferocire. “Sorry,” iniziai con un mio inglese stentato. La donna non mi prestò attenzione. E neanche l’uomo dall’età indefinibile. La rabbia saliva. Anch’io volevo il panino! Mi girai. Vidi una ragazza bionda con gli occhi verdi che si era posizionata alle mie spalle. Le sorrisi, anche se non serviva a niente. “i,” le dissi in italiano. “i pure davanti. Faccia come se io non ci fossi. Prego!” Neanche lei si accorse di me. Mi sfilai dalla coda. Vidi che da un cestino dell’immondizia spuntava mezzo panino. Qualcuno non lo aveva apprezzato, oppure si era saziato prima di finirlo. Lo presi. Lo misi di scatto sotto il cappotto. Lo avrei mangiato da qualche parte senza farmi vedere. Oddio, forse non mi avrebbero visto lo stesso. Ma anch’io tutto sommato avevo la mia dignità. Risolto il problema del cibo, potevo finalmente uscire dalla stazione per andare a cercare Valentina.
Alzai la testa per vedere se c’era un cartello che indicava l’uscita. Vidi il tabellone luminoso degli orari. Indicava la data 26 dicembre 1993. Perché 1993? Eravamo ancora nel 1992. Che strano, pensai. Si vede che da queste parti non danno molta importanza ai calendari. Mi diressi verso un’edicola. C’erano anche dei giornali italiani. Sulla prima pagina del Corriere della Sera c’era scritto che Silvio Berlusconi, il Presidente del Milan, dopo aver preso posizione per Gianfranco Fini nella sfida elettorale per il Comune di Roma, sarebbe direttamente sceso in politica. Rimasi di ghiaccio. Accidenti. La data sul giornale era la stessa del tabellone luminoso. 26 dicembre 1993. Il viaggio in treno era durato un anno e un giorno. Un anno. Com’era possibile? Che cosa stava succedendo? Era una tragedia. Mi sentii mancare, ammesso che fosse possibile. Mi sedetti. Accartocciai le ossa. Mi sentivo morire, anche se ero già morto. Valentina mi aspettava per il Natale dell’anno prima. E la mia gattina? Avevo combinato un disastro. Nel frattempo sono arrivati gli antipasti. Carne-cruda-battuta-col-coltello. Magatello-di-manzo-affumicato. Carré-divitello. Tutta ’sta roba. Non c’è niente che mi faccia tornare l’appetito. La grassona zitella al tavolo ha finito tutto e si sta leccando le dita. Ferma il cameriere che scatta come una trottola da un posto all’altro e gli chiede di essere servita con una seconda razione di sbobba.
Achille mi sorride. Mi posa un mano sulla spalla. “Comunque, vorrei dirtelo. Sono contento, sai, Tommy? Sono proprio contento di averti rivisto. Sono contento che tu non creda che ti abbia spinto io giù dal balcone.” Qualcuno mi ha ammazzato. Non sono caduto da solo. “E sono ancora più contento di essere il tuo testimone,” dice improvvisamente. Che cosa intendi dire? Perché saresti il mio testimone? Mi guarda con un luccichio commosso negli occhi. Con lo sguardo di un pazzo. Sto per chiedergli spiegazioni, ma sorge spontanea una domanda. “Achille. Ma tu mi vedi? Perché mi vedi? Perché mi vedi, visto che sono un fantasma?” Mi sorride. “Se vuoi andiamo a cercare Luci.” Sembra matto. Forse è matto.
XVIII
Il triste destino di quelli rimasti fuori
“C’è sempre qualcuno che alla festa più bella viene tagliato fuori. Anche se non può farci niente, anche se ha tutti i titoli per essere invitato. Succede così alle elementari, alle feste delle medie, ai matrimoni. Ecco, cara, cosa è successo al sottoscritto.” Nel gelo di Praga il Generale ripeteva ogni giorno alla moglie una frase del genere. E dire che le sue aspettative erano ben altre. Gli avevano detto che avrebbe dovuto essere un riferimento oltre cortina per la nato, che da quando era
caduto il muro c’era bisogno di qualcuno che riuscisse a piegare le schiene degli ufficiali che un tempo erano comandati dall’Armata Rossa. Per questo avevano scelto lui. Gli avevano trovato un piccolo e spoglio appartamento nella prima periferia di Praga, dove certamente non sarebbe mai arrivato il turismo occidentale, quello che cambia il colore grigio delle pareti e riempie ogni luogo di scintillanti marchi: Coca Cola, Marlboro e affini. Gli avevano poi affidato un minuscolo e anonimo ufficio fuori dal centro, in una zona di palazzi stile sovietico, con due scrivanie, una per lui e l’altra per colleghi della nato che si sarebbero avvicendati. Gli avevano detto che sarebbe dovuto andare lì ogni giorno ad aspettare ordini che non arrivavano mai. Il telefono, infatti, non squillava. Dal fax non usciva un foglio. Era raro che qualcuno suonasse il camlo. Ogni tanto in ufficio si faceva vedere qualche anziano ufficiale che si presentava, si guardava intorno stralunato e si andava a sedere alla scrivania assumendo un’espressione accigliata. Prima un se. Poi un americano. Un giorno addirittura un tedesco, anche se da quelle parti erano merce rara. Rimanevano una, due o anche tre settimane seduti alla scrivania di fronte a quella del Generale nella noia, poi dicevano che la loro missione era finita. Salutavano il Generale, prendevano il loro cappotto e se ne andavano, mentre lui restava lì a fissare la parete. Niente di nuovo sul fronte orientale. Nessuno in quel deserto dei Tartari. “In Iraq. Lì dovrei essere. Lì dovevano mandarmi. Qui non succede niente. Niente. Mi hanno fregato.” Il Generale si consumava, invecchiava a vista d’occhio, come se la polvere gli colorasse i capelli sempre più grigi. Era ancora alto e filiforme, ma se la sua vita fosse continuata così, di certo in poco tempo si sarebbe piegato in due, come una mensola troppo carica. Era trascorsa tutta l’estate del 1992, si era trascinata dietro settembre, ottobre e novembre. E sul volto del Generale fiorivano nuove rughe. “E qualcuno un giorno me lo vorrà dire perché hanno voluto levarmi di mezzo? Eh?” blaterava. La moglie lo ascoltava, senza dire niente, ma con un crescente magone che la faceva stare sempre peggio. Avrebbe potuto dirgli che non ne poteva più di quel posto, che voleva tornare a Torino, che lì non c’erano la pasta Barilla, i Buondì Motta, i Rotoloni Regina, lo Svelto verde, la Pasta del Capitano
e altri fondamentali e imprescindibili beni di consumo, simboli di sicurezza domestica. Avrebbe potuto aggiungere che trasferirsi lì, tra tutti quei surrogati di Coca Cola, Fanta e cioccolato, era stata una scelta sbagliata per tutti e tre, soprattutto per Valentina, che restava in silenzio, non usciva mai di casa e non parlava con nessuno, aspettava la posta, ogni tanto usciva per fare un giro ma tornava sempre dopo pochi minuti. La signora non diceva nulla. Metteva a posto i bicchieri, le tazze di porcellana che aveva portato dall’Italia. Come se mettere in ordine servisse per riempire tutto quel vuoto che sentiva intorno. “E quello poi?” Quando chiamava qualcuno quello, il Generale si riferiva a Edoardo. Non a Tommaso. Si era quasi dimenticato, di Tommaso. Quello, quel bugiardo, quel vile, quel codardo, quello che per qualche settimana aveva considerato il figlio ideale che mai aveva avuto, ma che ormai era diventato l’ex fidanzato di Vittoria e il bersaglio del suo odio. Dopo quella maledetta cena il Generale si era persino informato da alcuni suoi colleghi come avrebbe potuto sistemarlo tra gli allievi ufficiali. Aveva parlato con le più alte sfere, aveva anche personalmente compilato la modulistica necessaria per presentare la domanda. Aveva trovato il modo per fare uno strappo alla regola, una cosa che mai aveva fatto nella sua vita per nessuna ragione. Peccato che Edoardo solo un mese dopo aveva mollato Vittoria. Perché quello aveva messo incinta una ragazza di quindici anni del ginnasio. E quello l’aveva picchiata perché lei non voleva abortire, e poi era stato arrestato dalla polizia e quando lo erano andati a prendere, quello, lo avevano trovato con dieci grammi di cocaina. Peccato. Un drogato violento non deve entrare nell’esercito. Il Generale non riusciva a farsene una ragione. Lo aveva preso per i fondelli. E lui ci era cascato. Quindi si sentiva un imbecille, un mezzo fallito, un poco di buono. E lo sguardo di sua moglie e sua figlia confermavano quel giudizio ogni giorno. Forse un giorno cambierà qualcosa. Forse scoppierà una bella guerra, una di quelle dove chi muore è un eroe e chi non la combatte si deve andare a nascondere. O forse anche loro, pensò riferendosi alla moglie e alle figlie,
capiranno che io, anch’io, posso sbagliare, e sono fatto di carne, di pelle e di ossa e ho un cuore e non sono un cattivo padre. E mi riscatterò, mentre le accompagnerò tutte e due all’altare, col petto in fuori, come se dovessi andare in contro alle baionette del nemico!
XIX
La cena nuziale
Lusso. Lusso e ancora lusso. Leggo di nuovo il menù. Primi: risotto con code di gamberi e julienne (non so cosa sia) di zucchine, risotto mantecato (non so cosa sia) con brie e mandorle tostate. Secondi: trancio al salmone al gratin (non so cosa sia) con salsa alla senape dolce, arrosto di codino di maiale glassato o petto d’anatra scaloppata (non so cosa sia). Sorbetto al mandarino (questo lo so). Vedo are gli operai della Fabbrica degli Sposini, i camerieri in divisa che portano piatti su piatti, julienne e gratin. Anche al nostro tavolo. Corrono come trottole grondanti di sudore nella catena di montaggio del banchetto nuziale. La grassona spazzola il piatto, si lecca le dita fiera del suo julienne e regolarmente blocca il cameriere trafelato per chiedergli bis-bis-bis di ogni portata glassata. Mai sazia, forse alla fine scoppierà e pezzetti di lei si attaccheranno sulle tende, sulle pareti e sul soffitto. Codini di maiale sorbettizzati e anatre gratinate voleranno da tutte le parti. E poi lei, la grassona, la staccheranno dal muro e la metteranno a condimento dell’arrosto del matrimonio che ripartirà identico domani che è domenica, nella catena di montaggio della Fabbrica degli Sposini. Bis. Bis. La gente intanto continua a portare stancamente le forchette alla bocca, a riempire bicchieri caldi di vino rosso e tiepidi di bianco. Io ovviamente, non
essendo invitato, non ho un piatto. La cosa strana, però, è che a un certo punto mi trovo davanti un calice di vino rosso. Pieno. Lo prendo in mano. Bevo il primo sorso. Poi il secondo e il terzo. È molto buono. Lo finisco. Forse non ho mai bevuto un vino così buono. Accidenti. Ah, che bello. Guardo sul tavolo per vedere se c’è la bottiglia. Magari quando sono tutti distratti me ne verso un altro bicchiere. Niente. Mi giro verso gli altri tavoli. Niente, non ci sono bottiglie da nessuna parte. Com’è possibile allora che tutti abbiano i bicchieri pieni e continuino a bere? Improvvisamente sento una voce alle mie spalle. “Gradisce, signore, un altro bicchiere di Barbaresco?” C’è un cameriere vestito in un candido smoking, con un papillon nero. È anziano, con i capelli bianchi, ha in mano una bottiglia di vino rosso. “Grazie,” gli rispondo avvicinando il calice. “Volentieri.” Che strano, penso. Il cameriere mi vede. Intorno a tutti i tavoli ci sono i suoi colleghi, ciascuno con una bottiglia di vino, bianco o rosso. “Senta,” gli sussurro, “ma com’è possibile che lei mi stia servendo? Per caso mi vede?” Il cameriere sorride. Ha i denti neri. Gli occhi vacui. Sembra una specie di zombie. “Signore, non faccia troppe domande,” risponde con una voce tremolante. “Siamo in molti, nelle sue condizioni. Noi che stiamo di qua siamo più numerosi di quelli che stanno di là. Di qua o di là, o viceversa. Non creda. Pensi piuttosto a godersi questo buon vino, stappato apposta per lei. Barbaresco, il nettare delle
colline piemontesi. E ogni tanto, tra un sorso e l’altro, pensi anche a me, costretto a fare gli straordinari dopo una vita intera di lavoro. Me la sono meritata una pensione a servire le libagioni degli sposini e dei loro invitati beoni?” Non faccio complimenti. Bevo. È buono, il Barbaresco. Mi sono perso un sacco di cose buone nella vita, cascando dal cornicione. Ogni volta che finisce il bicchiere faccio un gesto all’anziano cameriere e me ne faccio versare un altro. Senza nessun imbarazzo. Evviva la solidarietà tra fantasmi. Non certo come quella sera, quando il Generale ebbe la sciagurata pensata di invitare al ristorante le figlie con i rispettivi fidanzati. E bevevo solo io. Lancio un’occhiata verso il tavolo del papà di Valentina. È da solo. Guarda fisso di fronte a sé. I suoi occhi sono lucidi, come se avesse appena pianto. Non ha l’aria di un uomo felice che ha appena assistito al matrimonio della figlia. È spento. Che strano. Mi fa quasi pena.
XX
La spedizione delle partecipazioni
Torino, 1° settembre 1992 Cara Valentina, il tempo non fa il suo dovere.
L’estate sta scivolando troppo lentamente verso il vero settembre, il mese che mangia le foglie degli alberi e fa crescere le piante di malinconia, quelle che bevono solo le lacrime. L’autunno non si sbriga ad arrivare. Sai, quando arriverà l’autunno il Sole che ora splende forte nel cielo se lo papperà a colazione, senza che nessuno se ne accorgerà, tranne me. Perché poi sarà la volta dell’inverno. E io verrò da te. Nel frattempo Nicotina e io ci guardiamo negli occhi. Lei mi dice: “Miao,” e io: “Che cosa ci facciamo ancora qui, io e te?” Le rispondo: “Miao,” tanto non capisce. E le do da mangiare. Questo lo capisce. Il nano invece non parla, come sempre. Sarà che lui era abituato a guardare in faccia Biancaneve. Qui non ci sono grandi novità. Ad agosto in città non c’era nessuno, tranne me. Ho guidato il motorino di qua e di là, per portare pizze e buste e qualche fiore, e ho imparato a suonare venti nuove canzoni, aspettando il postino che arrivava quasi sempre a mani vuote. Ogni tanto, ma solo ogni tanto, vedo Achille. Anche lui non ha fatto un giorno di vacanza. In questi giorni è strano, non sembra neanche lui. È come se nascondesse qualcosa. Non lo capisco. Credo che ormai abbia rinunciato alla tua amica Lucilla. Certo che lei, per una volta, potrebbe anche farlo felice, non ti sembra? Che cosa le costa? Mi piange il cuore quando mi scrivi che non esci quasi mai, che non conosci nessuno e non ti trovi bene. Spero però che quando inizierai il corso di cecoslovacco per stranieri potrai conoscere qualche italiano, se o tedesco e avere qualche amico anche lì. Comunque entro Capodanno vengo a Praga. Te lo prometto. Te lo giuro,
cascasse il mondo, cascassi anch’io insieme al mondo. Arrivo. Aspettami. Mi manchi, scrivimi presto! Ti voglio bene, un bacio. Tommy
XXI
Ba-cio, ba-cio
Quando il grado alcolico medio degli invitati del matrimonio si alza al giusto livello, le cravatte dei pinguini si slacciano come serpenti e volano da tutte le parti. I pinguini si alzano. Si sgranchiscono le ginocchia. Nella sala da pranzo la temperatura è caldissima. Non si respira. Solo in quattro o cinque, forse nobili con il volto rubicondo e il sangue blu o forse agenti di commercio, tengono la larga cravatta regimental ben stretta sul collo e la giacca indosso, con i bottoni chiusi, come se per loro il calore non fosse un problema. O forse lo sforzo di rimanere imperturbabili e impeccabili, altezzosi e su un gradino superiore, li rende più forti dell’ospite medio e imbarbarito del matrimonio che, ormai paonazzo, si è slacciato anche i bottoni della camicia, con le maniche rimboccate. Qualcuno comincia a essere su di giri e vuole diventare a modo suo protagonista, in questo giorno in cui i protagonisti dovrebbero essere solo loro due, gli sposi. Inizia il primo, quello con le guance più rosse di tutti, lo segue un altro del suo tavolo, poi quelli di quello di fianco. C’è anche qualcuno che batte la forchetta sul bicchiere. Din-din-din-din… Un tintinnio sui bicchieri di simil-cristallo della Fabbrica degli Sposini. Per la sala si diffonde un coro ritmato e incalzante: “Bacio… ba-cio…” Sempre più forte: “ba-cio… ba-cio…”
Se fossi lo sposo manderei tutti a quel paese. Baciatevi le vostre signore, ma attenzione a non ingoiarvi le loro dentiere! Da lontano, con la vista annebbiata, riesco a intuire che lo sposo, il protagonista, con un gesto plateale, abbraccia la sposa. La bacia senza alcuna ione, come farebbe un robot. Il gesto, di per sé ridicolo, scatena gli applausi delle scimmie e delle bertucce sui trampoli tacco dodici. Bastardo, penso. Stai baciando la mia Valentina. Quelli che fino a poco tempo fa, prima che si svuotassero le bottiglie di prosecco, di rosso e bianco, erano pinguini e ancelle, vestiti di tutto punto, ora si sono trasformati in esseri schiamazzanti e disordinati. Esattamente come scimmiette dello zoo. “Meglio non pensarci, no?” dice una voce alle mie spalle. Mi volto. È il vecchio cameriere. Mi sta riempiendo il bicchiere di vino rosso per l’ennesima volta. “Eh sì, ragazzo,” dice. “Beva, non ci pensi su.” Accidenti. Solo adesso mi accorgo che il vecchio indossa un’uniforme. Oddio. Lo riconosco. È lo stesso che mi serviva quella sera che il Generale ci aveva invitato a cena. Sei il Diavolo? Cerco di distrarmi, mentre da una parte all’altra, come per effetto stereo, rimbomba di nuovo il coro “ba-cio, ba-cio” e tintinnano i bicchieri come se stesse arrivando un treno. Mi volto verso gli sposi. Valentina è lontanissima. È così distante che non riesco neanche a riconoscerla. Forse ora si sta chiedendo se ha sbagliato tutto. Forse ora, tra i cori da stadio, ha capito che non può tornare indietro. Ma forse sono tutte mie congetture. Forse le va bene così. Ecco. Vorrei andare da lei e portarla via, via da questa posto. Vorrei tornare indietro nel tempo per non farla salire su quel tram maledetto. “Stiamo fuori questa notte,” le direi. “Non dobbiamo per forza tornare a casa. Non partirai per Praga.”
E forse ora mi darebbe ragione. Ma devo avere pazienza. Devo aspettare. Ora non posso fare niente. Se anche andassi da lei non potrei parlarle da solo. Non riuscirei neanche a raccontarle che cosa è successo, tanti anni fa, quando finalmente riuscii a trovare la casa di Praga, dove viveva con mamma e papà. Dopo essermi perso, dopo aver capito che la notte, senza il sonno, non finisce mai. E il freddo, quando non si sente la differenza con il caldo, è gelido e senza soluzione. Chiudo gli occhi. Mi tappo le orecchie. Ripenso a quei giorni. Avevo deciso che la stazione, la base da cui partire, con tutta la gente che vi ava, la polvere, la confusione, il ferro duro dei binari su cui stridono le consonanti e le voci gracchianti e gutturali degli altoparlanti, era il posto migliore per non dare nell’occhio, are del tutto inosservato e fare le mie ricerche. Disperate. Senza capo né coda. All’inizio ero ottimista. Ero convinto che fosse rimasto tutto fermo come in una noiosa domenica d’inverno. Anche se era ato un anno, l’avrei trovata. Andai all’indirizzo a cui mandavo le lettere. Suonai il camlo. Venne alla porta una vecchina dai capelli bianchi. Guardò intorno. Vide tutto, ma non vide me. Disse qualcosa nella sua lingua. Suonava come: “Che strano, ho sentito il camlo. Ma non c’è nessuno. Forse è uno scherzo. Sarà la mia età che mi fa brutti scherzi?”. Suonai di nuovo e si ripeté la scena. Non mi vedeva e tanto meno apriva la porta. Solo dopo qualche ora, quando la vecchia uscì con un sacco dell’immondizia, riuscii a intrufolarmi in casa. Girai per tutte le stanze, aprii i cassetti. Niente. Nessuna traccia né di Valentina né della sua famiglia. Non c’era niente di niente. Era ato più di un anno, forse era inevitabile. Uscii sconsolato nel gelo della strada. Un senso di sconforto. Ebbi la sensazione che le ginocchia fossero diventate più pesanti. Tornai alla stazione. Dopo qualche ora ritrovai un po’ di coraggio. Sì. Resisti, mi dicevo. Troverai una
soluzione. L’aspetterai. La vedrai are tra la folla. Chiunque prima o poi prende un treno. Anche lei lo prenderà. Sarei potuto rimanere qualche giorno lì. L’avrei incontrata tra la folla. Nascondermi non era un problema, visto che ero invisibile. Stare da solo non era un problema, visto che ero un fantasma. Quando ero seduto su una panchina ogni tanto qualcuno mi appoggiava una valigia sulle gambe o, alla peggio, si sedeva distrattamente sulle mie ginocchia. Potevo anche sdraiarmi sui binari, mettermi a gridare a squarciagola. Potevo suonare la chitarra per ore e ore. Niente, non se ne accorgeva nessuno. O almeno quasi nessuno. Ogni tanto c’era qualcuno che guardava distrattamente nella mia direzione. Oppure si voltava di scatto verso di me, guardava stupito, come se avesse sentito le note della chitarra e vedesse un fantasma. Di solito chi mi vedeva restava in silenzio, con uno sguardo spento e triste dipinto sul volto. Oppure mi guardava con aria incredula. Forse erano fantasmi come me. O forse persone più sensibili della media, quelle che vedono i fantasmi. Non capitava mai, però, che qualcuno mi rivolgesse la parola. Un giorno tuttavia, ata quasi una settimana da quando ero andato dalla vecchietta che non mi aveva aperto la porta, una persona mi parlò. Ero seduto per terra, con le gambe incrociate, a distanza di sicurezza da una coppia di giovani di venti anni e con gli zaini. Giovani come potevo essere io. La chitarra era posata al mio fianco. Avevo le mani nei capelli. Mi sentivo peggio del solito. Stavo perdendo le speranze di vedere Valentina. Era ata un’intera settimana da quando ero arrivato e non ero riuscito a cavare un ragno dal buco. Cominciavo a pensare di essere destinato a rimanere lì. “Mi daresti un bacio?” Mi voltai di scatto. Una ragazza. Senza valigia. Con profonde occhiaie e un’aria stanca. Il trucco le era colato sul volto. Mi girai per cercare di capire se ci fosse qualcuno alle mie spalle. Niente. Nessuno. Parlava proprio con me.
“Un bacio? Dici a me?” “Io mi chiamo Alice. Tu?” “Tommaso. Tommy, se vuoi. Vengo da Torino.” “Torino? Torino-Torino? Ma dai. Che stranezza. Anch’io vivevo a Torino. E cosa ci fai a Praga, seduto per terra?” “Potrei farti la stessa domanda, non credi?” “Certo, ma sono io che l’ho fatta a te. Quindi prima dovresti darmi una risposta. Allora, che cosa ci fai qui?” “Cerco una persona. Aspetto che venga qui a prendere un treno. Tutti prima o poi prendono un treno alla stazione. O almeno, così si dice.” La ragazza era vestita di lustrini sfilacciati. Ridacchiava. Rideva di me sotto gli occhi cerchiati di nero. Forse una volta gli stracci che indossava erano un abito da sera. “Parli sul serio? Sei forse un poetastro, un idealista, un sognatore? Potresti aspettarla per anni. E magari non vederla are. Perché sei girato dall’altra parte. Perché lei ha un cappello di lana e non la riconosci. Oppure perché nel frattempo, magari una settimana fa, è partita. È tornata a casa. Oppure è andata dall’altra parte del mondo. Oppure non entra in stazione, perché ha già perso il treno.” Certo. Oppure potrebbe are proprio ora, mentre sto parlando con te, Alice. Aveva ragione. Una manciata di secondi di silenzio. Alzai la testa. Vidi scorrere uno a uno centinaia di eggeri. Bambini. Signori di tutte le età. Ragazzi. Donne. Vecchi. Schegge, ognuno di loro con la sua vita, i suoi pensieri che andavano di qua e là come le onde nel mare. Nessuna traccia di Valentina. “Hai della droga? Ti piace la droga? Fa stare meglio, lo sai? Spegne il giorno e accende la notte, e insegna all’alba a sorridere.”
“No,” le risposi. “Non mi piace la droga. E non potrei permettermela, nella mia condizione.” Rimase in silenzio. Delusa. “Malà Strana,” disse improvvisamente. “Che cos’è?” “La vecchia Praga. Devi andare nella discoteca di Malà Strana. Dopo Ponte Carlo. Lì c’è qualcuno che ti può aiutare. Una persona che sa tutto, conosce la gente della notte, conosce le anime in pena come noi. Quelli con il cuore infranto, quelli che hanno perso le speranze in paradisi artificiali, come me.” “Chi è? E che cosa intendi dire per gente come noi?” “Un dj. Non so chi sia. Mi hanno mandato da lui, come io sto mandando te. Tu… mi sembri piuttosto smarrito, come lo ero io… prima. Prima dell’ultimo schizzo, quello più forte. E va beh. Peccato. Mi sembra che tu non riesca a trovare te stesso, come me, oltre ovviamente alla persona che stai cercando. Il dj aiuta la gente come te, come noi.” Parlava come una macchinetta. Non riuscivo a starle dietro. “Dove lo trovo? E tu, dopo che lo hai incontrato sei riuscita a trovare una soluzione? Non si direbbe.” “Perché? Mi vedi agitata? Non sai come ero prima. Allora sì che ero schizzata. Ma ora… E poi non ti sei accorto? Non hai ancora capito? Mi vedi, no? E io ti vedo.” In effetti c’era qualcosa di strano. Finalmente qualcuno si era accorto di me. Alice mi stava parlando. “Mi vedi. Tu mi vedi. Mi parli. Perché mi vedi e tutti gli altri no? Me lo spieghi, per favore?” “Sai. Sono venuta a Praga. Ero giovane. Sono scappata da Torino, dove ogni sera mi bucavo. Sono venuta qui per provare a ritrovare me stessa. Ma niente. Ho trovato un’altra Alice, esattamente la stessa di prima. Non cambiava niente, se non che la droga costava di meno. ava il tempo. Faceva freddo. Non avevo
più neanche una pera e stavo male, male male. Dovevo fare qualcosa. Qualcuno, o forse io stessa in uno dei miei deliri, mi aveva raccontato della discoteca a Malà Strana. Mi aveva detto che lì si poteva avere droga e felicità, bastava scendere a qualche compromesso. Ci sono andata. Ho trovato lui. Gli ho parlato. Mi ha dato quella buona, quella buona buona che non si trova da nessuna parte. Mi sono chiusa a chiave nel bagno, me la sono sparata tutta, e ho iniziato a volare. E ora posso anche tornare da dove sono arrivata.” Rimase in silenzio. “Come farò a trovare anch’io la discoteca?” “Non ti preoccupare. Sono sicura che non avrai problemi. Vai al centro del Ponte Carlo. Guardati intorno. Qualcuno ti porterà da lui, dal dj.” Alice si mangiucchiava nervosamente le unghie. A un certo punto si alzò di scatto. “Scusami. Ma è ora che vada. È ora. Parte il mio treno per Lione.” “Perché vai a Lione?” “Beh, sai, il triangolo della magia bianca. Torino, Praga e Lione… Boh. Non so. Ma almeno ci provo.” Non sapevo niente del triangolo. Alzai lo sguardo. I binari erano vuoti. La stazione deserta. “Aspetta. Tu mi puoi aiutare. Spiegami perché nessuno mi vede. E tu sì. Non riesco a capire.” Si mise a ridere. “Ma come, non lo hai ancora capito? È così semplice… Non ti ricordi che cosa ti è successo? Esattamente quello che è capitato a me.” “Che cosa ti è capitato, posso saperlo?” Sono caduto dal cornicione. In quel momento gli altoparlanti della stazione iniziarono a urlare nomi di città incomprensibili che rimbombavano. Mi distrassi un attimo. Mi voltai verso la ragazza. Lei però, come era apparsa dal nulla, era sparita nel nulla. Come se avessi incontrato un fantasma.
Di nuovo, nel frattempo, si diffonde nella sala il coro ritmato. “Ba-cio… ba-cio…” Questa volta non ho il coraggio di alzare la testa. Non ho nessuna intenzione di vedere quell’essere che infila la sua lingua di drago nella bocca di Valentina. Preferisco frugare tra gli avanzi del piatto della grassona. Magari c’è un osso da rosicchiare. I consigli della drogata si sarebbero rivelati preziosi. Anche se il prezzo da pagare sarebbe stato caro. E il bacio che mi aveva chiesto non glielo avevo dato.
XXII
Addobbi floreali
Niente fiori d’arancio, niente rose, niente margherite, ma neanche fiori di qualche altro tipo, ad esempio quelli che si usano per addobbare la chiesa per un funerale. Alla Gran Madre non c’era nessun fiore, non una corona, non un cuscino. E sui giornali non era uscito neanche un necrologio. Il 27 dicembre 1992, lo stesso giorno in cui Tommaso avrebbe compiuto diciannove anni, nella bara indossava ancora le All Star. Valentina non c’era. Achille e Lucilla l’avevano aspettata fuori ed erano entrati per ultimi. Durante la funzione continuavano a guardarsi intorno. C’era la professoressa di italiano, il professore di chimica, i compagni di classe, tanti, tanti amici della scuola che dicevano: “Non-è-possibile-non-è-possibile, maperchè-proprio-lui”. Anche due carabinieri. Ma di Valentina nessuna traccia. “Che strano,” disse Lucilla ad Achille. “L’ho sentita proprio ieri. Mi ha detto che aveva trovato il treno, che sarebbe arrivata in mattinata alla stazione di Porta Nuova. Sono già le undici. Dove diavolo è finita?”
“Come stava? Che cosa ti ha detto?” “Come vuoi che stesse? Era distrutta. Continuava a chiedermi come potesse essere successo. Ripeteva che non è possibile che Tommy sia morto così, cadendo dal primo piano. E che stava per partire, lei lo aspettava. Si erano sentiti al telefono. Le aveva detto che proprio il giorno di Natale sarebbe partito.” “Tu che cosa le hai detto?” “Achille, che cosa vuoi che ne sappia, io?” rispose con un tono arrabbiato. “Ne so quanto te. È caduto! Non si sa perché. Forse stava facendo una camminata sul cornicione. Lo hanno trovato per terra senza sensi. Lo hanno trasportato al pronto soccorso, ma non c’è stato niente da fare. E la sai un’altra cosa strana e che non mi spiego? Sono saliti in casa sua e Nicotina era sparita. Come se fosse scappata, anche se la porta era chiusa.” Achille si voltò da un’altra parte. “Ma perché Vale non arriva? Che cosa sta facendo?” chiese nervoso. Continuavano a girarsi tutti e due verso la porta della chiesa che restava chiusa. Neanche Vittoria si era presentata. Ma da lei c’era da aspettarselo. “Luci, secondo te che cosa ci fanno qui quei due carabinieri?” balbettò Achille. “Ti stupisci? Hai sentito le voci che sono girate? Qualcuno ha detto che Tommy si è suicidato, qualcun altro ha detto che è stato buttato giù dalla finestra. Li hai letti i giornali? Sono due giorni che inventano storie, che pubblicano foto. Ci siamo finiti anche noi, su quei maledetti giornali. Sembra che non abbiano altro di cui parlare.” “Ma che motivo avrebbe avuto di suicidarsi? Stava per partire. Lo sappiamo tutti che stava per andare a Praga.” “Allora vuoi dire che è stato ammazzato? Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Chi è che potrebbe averlo ammazzato, e perché, poi?” Achille restò in silenzio. Lanciò un’occhiata alla bara. Poi verso i carabinieri. “Non capisco perché siano qui, quelli,” aggiunse. Alla fine della funzione Lucilla camminava sottobraccio ad Achille verso
l’uscita. A un certo punto, mentre scendevano la scalinata della chiesa, i due carabinieri si avvicinarono. “Achille Sparviero?” chiese uno. “Può venire con noi?” Achille fece un balzo. “Perché? Che cosa volete?” “Non si preoccupi. Dobbiamo farle solo alcune domande. Venga, per favore, venga. Non facciamo rumore, la prego. è nel suo interesse.” Achille era diventato di ghiaccio. La temperatura invernale non contribuiva a migliorare la situazione, né la vista della bara di Tommy che in quel momento veniva caricata sul carrofunebre, proprio davanti a loro. Ma i fattori esterni erano ininfluenti. “No… io non vengo da nessuna parte,” rispose. “Non capisco che cosa vogliate.” Uno dei carabinieri allontanò con un braccio Lucilla, con un gesto garbato ma deciso. “Ma cosa volete?” gridò lei, mettendosi in mezzo. “Non lo sapete che siamo al funerale del nostro amico?” “Si sposti, signorina, cortesemente, non intralci,” disse uno dei due. L’altro aveva un paio di manette in mano. Lucilla non ne aveva mai viste di vere. Conosceva solo quelle finte, quelle del sexy shop. Quando vide che le stringevano ai polsi di Achille le venne un dubbio. “Andiamo, signor Sparviero. Non faccia storie. Venga con noi.” Tutti quelli che avevano assistito al funerale erano intorno e guardavano la scena in silenzio. C’era anche qualcuno, forse giornalista, che scattava delle foto. “Nicotina!” disse Achille nella direzione di Lucilla. “Nicotina è a casa mia. Prendila tu.” Il giorno dopo nella cronaca locale, in prima pagina, svettava il titolo: arrestato l’omicida di tommaso: era il suo migliore amico.
La sera Lucilla, mentre tornava a casa con la gabbietta con dentro la gattina, non riusciva a darsi pace.
XXIII
Il taglio della cravatta
Pesanti nuvole si affacciavano sul cielo di Praga quando stavo per uscire dalla stazione per incamminarmi verso la città vecchia, dove mi aveva detto di andare Alice, la ragazza della stazione. Pioveva a dirotto. Una specie di diluvio universale. “Alice guarda i gatti… Irene al quarto piano è lì tranquilla, che si guarda nello specchio e accende un’altra sigaretta… Ma io non ci sto più, gridò lo sposo e poi… tutti pensarono dietro ai cappelli, lo sposo è impazzito oppure ha bevuto…” Cercavo di cantare per non piangere. Camminavo radente ai muri per evitare le gocce di pioggia che sembravano prendere la mira per colpirmi. Plink. Colpito. Plink. Colpito. Evidentemente lassù c’era qualcuno che si stava divertendo un sacco, con il sottoscritto. “E il tram di mezzanotte se ne va… ma tutto questo Alice non lo sa…” Le vie tra gli antichi palazzi erano deserte e spettrali. Ogni tanto, tra una pozza e l’altra, incontravo un mendicante in ginocchio, con gli occhi chiusi e le mani protese verso l’alto. Avrei voluto aiutarlo, ma non avevo soldi. “Il mendicante arabo ha qualcosa nel cappello… ma è convinto che sia un portafortuna…” A un certo punto uno di loro mi disse: “Matrimonio bagnato, matrimonio
fortunato, eh,” in italiano. Non capii. “Che cosa intende dire?” gli chiesi. Ma quello non rispondeva. Aveva pesanti occhiali neri, come quelli che indossano i ciechi. Evidentemente non mi vedeva. E non mi sentiva. Forse voleva dirmi qualcosa che mi sarebbe toccato sopportare. “Che cosa hai detto?” gli chiesi. Non mi rispose. Dopo qualche istante di silenzio ripeté: “Matrimonio bagnato, matrimonio fortunato!” Alzai le spalle. Non capivo. Ripresi la strada. Arrivai sul Ponte Carlo, sul fiume Moldova. L’avrei attraversato nella direzione del castello sulla collina di fronte. Sollevai lo sguardo. Vidi che in alto, nel cielo, c’erano due corvi. Scesero nella mia direzione. Seguii il volo. Si posarono sul parapetto di cemento del ponte. Da quel giorno mi avrebbero seguito ovunque. Mi accorsi che le statue dei santi, appostate sui parapetti del ponte, mi stavano tenendo d’occhio. Di sicuro non erano contente che un morto vivente, come me, seppur animato da buone intenzioni, camminasse libero al loro cospetto. Erano santi, e dovevano tenere sotto controllo quello che stava succedendo. Quando giunsi al centro del ponte non trovai nessuno. Forse la drogata mi aveva ingannato. Non mi sarei dovuto fidare. Mi guardai intorno disperato. Rividi i due corvi. E in mezzo a loro un cane. Brutto. Spelacchiato. Sporco. Anche lui bagnato dalla pioggia. Poteva essere nato da una lupa, ma non era dato sapere quale fosse la razza della madre. Mi avvicinai. Non sarebbe stato facile parlare con lui. Quando arrivai a circa un metro da lui, si mosse. I corvi presero il volo. “Ehi! Ehi, cane!” Accelerò il o. Camminava nella direzione del castello. Non era difficile
seguirlo. Non riuscivo a raggiungerlo. A un certo punto, sulla salita si fermò. “Allora, cane! Hai finito di farti seguire? Tu non lo sai, ma io sono più morto che vivo, e anche quando ero vivo non è che fossi così sportivo… quindi mi sarei un po’ stufato di seguirti.” Forse non mi ascoltava, forse anche lui non mi vedeva, o forse, ipotesi più probabile, non capiva la mia lingua. Si fermò davanti alla porta di un locale chiuso. Si alzò sulle zampe posteriori e appoggiò quelle anteriori alla porta che si aprì. C’era il bancone affollato di un bar. I miei vestiti fumavano. Avevo la vista appannata. Andai verso il bancone. Il cane scomparve dietro una porta. Mi feci largo tra la gente che non si accorgeva di me e superai la porta. C’era una scala a chiocciola che scendeva, con dei piccoli ripidi gradini. Era buio. Dovevo stare attento a non cadere. Gli scalini erano scivolosi. E io avevo di recente dimostrato di non avere grande equilibrio sulle superfici viscide. Appoggiandomi a un mancorrente iniziai a scendere lentamente, un o alla volta, piano piano. I gradini non finivano mai. Continuavo ad andare giù, sempre di più. Finalmente arrivai in fondo alla scala. C’era odore di marcio. Una luce tenue illuminava una sala da ballo deserta. Nessuno. Nessuno di tutti quelli che erano sopra al bar aveva pensato di scendere laggiù. Ebbi una strana sensazione. Come se le lancette dell’orologio della mia memoria fossero improvvisamente tornate indietro a qualche anno prima. Accidenti. Ecco. La festa di Carnevale. Il locale era addobbato esattamente come allora, con un po’ di muffa in più. Intravidi le stelle filanti appese da una parete all’altra. I palloncini. Non c’era nessuno però. Nessuno dei miei vecchi compagni. Nessuno, neanche Achille, vestito da vampiro, e Lucilla, Regina della Notte. E i palloncini erano sgonfi, le stelle filanti stinte. La musica era spenta. Forse la festa doveva ancora iniziare. E la sposa, Valentina, doveva ancora arrivare per farmi innamorare. Insomma. Poteva essere così. Mi feci forza. Mi guardai intorno.
C’era un’ombra dietro la consolle, illuminata da due grandi candelabri su una specie di altare. Il dj. Un uomo con un profilo sfuggente, occhi neri come la notte e capelli dello stesso colore. Indossava un paio di cuffie e tra le dita stringeva la copertina di un disco. “Ti stavo aspettando, Tommy. La festa, la tua festa, sta per iniziare,” disse con una voce metallica. “Cosa ne pensi se attacco con Personal Jesus? È un pezzo che spacca, potrebbe fare resuscitare i morti. Hai per caso portato un’amica?” “Chi sei? Come fai a sapere il mio nome?” “Non ti ricordi di me? Ho suonato tutta la notte, alla festa di Carnevale del 1992. Non ti ricordi? Vi ho fatto ballare, vi ho fatto sudare e divertire. Vi ho messo anche i lenti… non te li ricordi, i lenti?” Certo che me li ricordo. Mi ricordo perfettamente quando ballavo con lei. Avevo sentito il profumo di Valentina e avevo perso la testa. “Ma adesso questo non conta. Parliamo di cose serie. Su,” disse indicando con una mano la tasca destra dei miei pantaloni, “fammi vedere se te la sei portata dietro.” “Cosa? Cosa mi dovrei essere portato dietro? Non ho più niente.” “La drink card. Quella della festa. Me la devi ridare. Quella sera te ne sei andato senza riconsegnarla alla cassa. Insomma, te la sei filata senza pagare.” Estrassi la tessera dalla tasca, senza pensarci due volte. La appoggiai sul bancone. Serata all’Inferno!, diceva. Appunto. “Eccola.” Il dj La prese. “Ah, ecco. Un buco. Una consumazione te la sei già fatta, eh? Zitto zitto. Un gin tonic? Un long island? Oppure un Cuba libre, per non saper né leggere né scrivere?”
Mi tornò in mente il buco che era comparso dopo il viaggio in treno. “Che cosa hai combinato, mio bel ragazzo biondo? Hai forse cercato di salvare qualche disgraziato, con la tua prima preziosissima consumazione? Ma non lo sai che potresti pentirti di non averla utilizzata per te stesso? Va beh, va beh… tanto anche i buoni vanno all’Inferno. Ma torniamo a noi. Dicevamo. Alla festa di Carnevale ti sei divertito, poi te la sei squagliata senza pagare. Ma oggi… lo sai che, tutto sommato, sei un ragazzo fortunato?” “Non mi pare proprio, vista la fine che ho fatto.” “E che fine hai fatto? Non è ancora detta l’ultima parola. Non sei venuto qui per cercare una persona? Hai già rinunciato?” “No. Ma qualcuno mi ha detto che mi puoi aiutare.” “Io? Io ti posso aiutare? Girano queste voci? Non mi piace per niente. Magari arrivano alle orecchie sbagliate. Che ne so, magari a quelle di un prete o di un vescovo, o addirittura a quelle del papa. E magari mi vengono a stanare. No, non mi piace per niente.” “Non ne parlerò con nessuno. Fidati di me. Aiutami a trovarla.” “Mmmh. La tua Valentina. Ma non hai visto quante belle ragazze ci sono in giro?” “Sono qui per lei.” “Forse perché le altre non ti vedono neanche? E dire che saresti anche un bel ragazzo…” “Dimmi come ti posso pagare. Aiutami.” “E va bene. Del prezzo parliamo dopo. Se la vuoi trovare devi innanzitutto risolvere il tuo primo problema. Quello di farti vedere. Allora. Come possiamo fare?” Si guardò intorno, si ò una mano tra i capelli. Poi abbassò gli occhi sulla consolle, dove tra i dischi spuntava la drink card. “Sì. Ho la soluzione. Lo sai? Una drink card non può mai uscire da un locale. Nel tuo caso è successo. E ora
questa stupida insignificante tessera ti dà un potere.” “Come sarebbe a dire?” “Non hai ancora notato che quando qualcuno ti vede è perché hai la tessera in mano?” Non ci avevo fatto caso. Effettivamente, quando avevo colpito il ragazzo sul treno, ce l’avevo tra le dita. L’informazione poteva essere importante, visto che la carta poteva farmi materializzare. Ma non bastava. “La ragazza della stazione mi ha detto che mi puoi aiutare a trovare Valentina.” “Valentina? Non so chi sia. Da queste parti non si è mai fatta viva. In questo locale viene solo gente di Praga. È talmente nascosto, sottoterra, che pochi lo conoscono. Forse neanche i vermi sanno di noi. E nessuna Valentina si è mai fatta vedere da queste parti. L’unico aiuto che potevo darti è quello che ti ho dato. Altro non so.” Non avevo risolto niente. Le mie speranze di trovarla erano ancora pari a zero. Feci per riprendermi la drink card. “Aspetta,” disse il dj posando una mano sopra la tessera. Aveva lunghe unghie affilate. Come artigli. “Questa me la dovresti restituire. Una drink card non può mai uscire da un locale.” “Ma senza non posso farmi vedere da nessuno. Mi serve.” Il dj mi guardò fisso negli occhi. “Lo sai chi sono io? Eh?” “No.” “Non sono solo il resident dj di questo buco dimenticato da Dio, che si riempie di poche anime disperate che consumano qui le loro notti. No. Io sono anche qualcun altro. Là fuori c’è ancora qualcuno che mi conosce e mi teme.” “Sei l’unica persona che mi può aiutare a trovarla.”
“Riesci a immaginare le conseguenze, se ti aiuto?” Mi venne in mente che forse, come nei film, mi stava capitando di dover vendere l’anima al Diavolo. O qualcosa del genere. “No. Ma non ho grandi alternative.” “I locali non sono un granché dalle mie parti. La musica è vecchia, ripetitiva. I cocktail li facciamo con le sottomarche, quelle che la mattina dopo fanno venire il mal di testa. E non ci sono ragazze immagine. No. Insomma… se proprio vuoi fare una scelta del genere, sappi che non avrai molto da divertirti, dopo. Quindi sei proprio convinto?” Pensai a Valentina. Vestita da sposa come alla festa di Carnevale. Non ebbi un attimo di esitazione. “Certo. Devo ritrovarla.” Mi restituì la drink card. Mi strinse la mano. “Vai a cercarla con questa dove viveva, qui a Praga. La vecchia potrà vederti e parlarti. E noi… ci rivedremo.” Mi diressi verso la scala, facendomi largo tra i palloncini, sgonfi e avvizziti. Improvvisamente, prima che uscissi, mi chiamò: “Ah. Senti. C’è un’ultima cosa che ti devo dire”. “Ti ascolto.” “Ci sono controindicazioni, quando si usa la drink card lì fuori. Il tempo a più veloce di quanto dovrebbe. Perché ci si diverte. Quando si beve ci si diverte. Tu non te ne accorgi, per te è come se fosse tutto normale. Ma nel mondo reale la vita accelera. E ogni volta che parli con qualcuno dei vivi è una consumazione in meno. E ogni consumazione ha il suo prezzo.” Pensai al momento in cui avevo visto la data sul tabellone della stazione. “Di quanto accelera il tempo? Quanto costa ciascuna consumazione? Quante consumazioni mi rimangono?” chiesi guardando la tessera.
“La prima un anno, la seconda due, la terza tre e così via. Facile, no? Sarebbe bello avere una drink card che non finisce mai… E quanto tempo ti rimane? Dipende. Non si può dire. Le consumazioni che restano le vedi da te. A un certo punto, quando sarai alla quinta… non avrai più niente da bere.” C’erano ancora quattro buchi liberi. Una vita intera, o quattro vite, come in un videogame. “Ho capito, grazie. Dovrò stare attento a usarla senza fretta.” “Eh, caro Tommy, non ti dimenticare che quando ci rivediamo me la ridai e poi paghi. Questa volta non scappi.” “Con cosa potrò pagare? Io non ho soldi. Non ho più niente.” “Beh… Quella tua amica con i capelli fucsia, me la porteresti? Ma ora vai, vai a divertirti.” In quel momento il dj posò la puntina sul giradischi. Le note di Paint in Black si diffo nella sala crepitando, come fanno i vinili. Quando uscii dal locale mi resi conto che grazie alla carta avrei potuto fare molte cose. Avrei potuto parlare con la gente, avrei potuto fare una vita quasi normale, avrei potuto cercare Valentina. Sarei immediatamente tornato dove avevo trovato la vecchietta. Prima però era necessario che mi sistemassi un po’. Dovevo essere presentabile, altrimenti chi mi avesse visto si sarebbe spaventato. I negozi sulla strada del castello stavano aprendo. Entrai nel primo che trovai. Strinsi tra le dita la drink card. Il secondo buco, due anni di vita. Valeva la pena spenderlo così? Ci pensai. Sì. Dovevo diventare presentabile. Un commesso mi vide. Fece un balzo. Disse qualcosa in ceco. Poi in inglese, qualcosa del tipo: “Mi scusi ma non l’avevo vista entrare”. Forse avrei dovuto fare più attenzione. Gli spiegai che volevo comprarmi un abito e una camicia. E il primo abito che
provai mi stava benissimo. Era nero. Come quello dei Blues Brothers, come quello della festa di Carnevale. Indossai una camicia bianca e l’abito. Feci capire al commesso che avrei tenuto addosso i vestiti nuovi e buttato i vecchi stracci che indossavo prima di entrare. “Manca una cosa,” mi disse. Mi guardai allo specchio. Un po’ di colorito sul volto pallido? Un sorriso sulla faccia? “Una cravatta non la desidera?” Certo. Per essere davvero elegante avrei dovuto prenderne una. Il commesso mi diede una cravatta nera. Andava bene. Me la feci allacciare. Era la seconda volta che ne indossavo una. Ero a posto. Potevo anche andare via. C’era ancora un problema, però. Dovevo pagare. Mi avvicinai alla cassa. Il commesso batteva numeri, sommando i prezzi dei vestiti. Lo guardai fisso negli occhi. Gli dissi: “Grazie”. Poi aprii la mano che tenevo in tasca e lasciai scivolare la drink card sul fondo della tasca della giacca. Mi accorsi che sulla tessera si era formato un secondo buco. Il commesso spalancò gli occhi dallo stupore e sbiancò. Ero scomparso nel nulla. La seconda consumazione era andata. Ma almeno mi ero dato una sistemata. Il banchetto nuziale è in una fase avanzata. I camerieri ora zampettano tra i tavoli come scarafaggi, quasi invisibili nell’officina dei matrimoni. Tra una pausa e l’altra evito di tenere la carta in mano. Sarebbe inutile sprecare l’ultima consumazione. Rimane un buco solo, da usare al momento giusto. Quando sarò solo con lei. Improvvisamente lo sposo prende la parola: “Ringrazio tutti voi, specialmente
quelli venuti da lontano. Oggi è un giorno speciale…” Continua con una sequenza di banalità. Sembra di sentire l’intervista del capocannoniere di turno. “Ho giocato bene, il mio gol è importante ma lo è ancora di più per la squadra e bla-bla…” La gente lo ascolta come si ascolta il rumore di un’autostrada nel sottofondo di un motel, nella noia totale. Alcuni hanno uno sguardo perso tra i chicchi di risotto mantecato. Altri cercano di nascondere sbadigli. “…Ma ora, sperando di non avervi annoiato troppo, come il rito prevede, mi sottopongo al taglio della cravatta!” Si diffonde nella sala un applauso scrosciante, quasi come quello delle trasmissioni di tette e culi in televisione. Se potessi andrei io a tagliargli la cravatta. Magari, per magia, le forbici mi potrebbero scappare verso la gola. Uno dei testimoni si avvicina allo sposo con una cesoia scintillante d’argento. Barcolla, ride sguaiatamente. Stai a vedere che ci pensa lui! Da questa distanza non riesco a vedere. Con la mia vista da fantasma è ancora più difficile. Provo a immaginare il sangue che zampilla sulle tovaglie immacolate, davanti alla platea scioccata di pinguini e ancelle. Ma niente di tutto ciò succede. Il taglio è preciso come quello di un chirurgo. Peccato. Che imbecilli, penso. Anche questa se la potevano evitare. Allento il nodo della cravatta, la stessa che comprai quella mattina a Praga, il giorno in cui ritrovai le speranze di rivedere il mio amore.
XXIV
Il discorso del padre della sposa
“Un generale, anche se a riposo, resta pur sempre un generale,” diceva a voce alta il padre della sposa, mentre teneva tra le mani l’anziano pisello, innanzi a uno degli orinatoi dell’elegante toilette della Villa della Regina. Dall’alto del suo metro e novantacinque era difficilissimo centrare il pissoir attaccato alla parete. Il Generale Valdieri, dopo aver bevuto il caffè, si era diretto alle ridotte. Nel bagno, mentre pisciava, sembrava una vecchia fontanella a cui serviva manutenzione. Zampillava da tutte le parti. Non si faceva grandi problemi. Il dottore, dopo emorroidi e prostata, gli aveva detto che ormai, alla sua età, era normale. Il vecchio rubinetto aveva perso le sue guarnizioni, e non sarebbe tornato quello di una volta. Ma tanto quello che doveva fare l’aveva fatto, e anche egregiamente. La cena, fuori dalla toilette, stava finendo e il vecchio ufficiale aveva ordinato a se stesso il rompete-le-righe. Si era allontanato dalla folla e si era lasciato andare. L’ex Generale, già padre di due splendide figlie, faceva acqua da tutte le parti. Non solo dal vecchio pistolotto, ma anche dalle ascelle della camicia dell’uniforme, macchiate come non si addice a un uomo tutto d’un pezzo come lui, dagli occhi vacui, trasudanti tristezza, che continuavano da tutta la sera a spillare di nascosto lacrime, come la neve che si scioglie sugli alberi sotto il Sole o la rugiada sulle foglie di primavera. “Un generale deve mantenere il contegno,” diceva tra una goccia e un’altra. “Si faccia forza. Un generale deve tenere la testa alta, deve essere un punto di riferimento. Un generale, nei momenti di gioia o di infelicità, non deve piangere. Come possono fare, se no, le truppe, senza una guida con il polso fermo?” Quando finì si diresse verso il grande specchio sopra i lavandini e si guardò dritto negli occhi. C’era l’immagine di un uomo più vecchio della sua età, accelerata alla velocità della luce. “Ma la domanda sorge spontanea, al Generale,” disse sempre a voce alta. “È lecito che lo stesso, soprattutto da quando è in pensione, pianga, in solitudine, dopo tutto quello che è successo, proprio oggi quando finalmente potrebbe essere di nuovo, se non felice, se non altro, meno triste?”
Il Generale non avrebbe potuto accorgersi di chi lo stava guardando alle sue spalle. C’era Tommaso che fischiettava Generale. Era ato un sacco di tempo. Il papà di Valentina sembrava invecchiato di cento anni e aver perso qualche rotella. Lo guardava e basta. “E se lo fero parlare, il Generale, anche solo per qualche secondo, cosa potrebbe dire dei due sposi?” aggiunse tirando fuori il petto, come faceva sempre una volta, prima che gli fero infilare le pantofole e lo fero ritornare in Italia dopo tre anni di inutile attesa a Praga. “Una bellissima ragazza, mia figlia. Una ragazza anche molto fortunata. Lei, solo lei,” continuò a dire tirando su con il naso, senza neanche provare a trattenere le lacrime. “Eh. Santo Dio.” Aveva aperto l’acqua del lavandino. “E lo sposo? Cosa dire di lui? Mai potrei permettermi di giudicarlo. Ne ho già valutati un paio, di candidati, e ho sbagliato, in entrambi i casi. Recidivo. Ma sono sicuro che questo sia il migliore che lei ha trovato, senza offesa per tutti i suoi pretendenti che non sono riusciti a portarla qui. E poi, se è un poco di buono, un lavativo, come quello, sì quell’altro, io che cosa ci posso fare? Posso dare ancora ordini? E cosa devo dire? Cosa posso aggiungere? Un generale sa giudicare se la divisa casca a pennello, se il capitano mostra muscoli e coraggio, se l’ufficiale sa come salvare i propri soldati e poi, solo dopo, se stesso. Ma un generale che cosa ne sa di amore, di affari di cuore e di donne? Dovrebbe insegnare come si fa la guerra, non la pace. Quindi, cari miei tutti, sono certo che se lei, la mia figlia fortunata, ha scelto lui, lo sposo, di certo ha preso la decisione giusta. E io mi rimetto, chiedendo perdono a tutti quelli nei confronti dei quali ho sbagliato.” Chiuse il rubinetto dei suoi sproloqui mentali. Si accorse che la cerniera della patta dell’alta uniforme era aperta. Lui, il grande generale, stava uscendo in quello stato, con il vecchio straccetto quasi visibile dietro un pesante mutandone tutt’altro che estivo. Cercò di asciugarsi le mani che tremavano, provò a sistemarsi i radi capelli e si diresse verso la porta, con uno sguardo basso e dimesso. Uscendo ò di fianco a Tommaso che aveva ascoltato parola per parola. Quando aprì la porta trovò la moglie che lo aspettava. “Caro, come stai? Non ti vedevo più. Mi sono preoccupata. Ho avuto paura che non stessi bene. È tutto il
giorno che ti vedo strano.” “No no, sto bene, sto bene,” rispose concitatamente. “Stavo solo riflettendo su questo momento. E su quello che è successo. Non ti preoccupare. Se mi fanno parlare ho anche pronto il discorso.” Gli prese la mano, sorridendogli. “Caro, adesso andiamo. Cerchiamo di pensare al presente. E non al ato. Gli sposi stanno per tagliare la torta, non possiamo mancare.”
XXV
Il taglio della torta
La mia anima è fatta di kevlar. Il tessuto antiproiettile. Io sono fragile, ma lei non può essere ferita. Mi protegge, penso. È indistruttibile. Si sta avvicinando l’ora. Ho a disposizione in una tasca la drink card, con quattro buchi. Ne manca uno e sarò irrimediabilmente ubriaco. Sarò finito, vada come vada. La cena volge al termine. Ho ancora una consumazione da sfruttare. Quella più importante. È proprio vero che il tempo a in fretta, troppo in fretta, quando ci si diverte. Quando mi feci la terza consumazione ero ancora a Praga, finalmente presentabile nella mia divisa da Blues Brothers. Ero dalla signora che tre anni prima aveva ospitato Valentina e i genitori. “Gentile signore, vuole fermarsi a colazione? Le potrei raccontare la storia della famiglia italiana, la famiglia Valdieri. È ato oramai tanto tempo. Ora siamo a gennaio… Loro sono andati via a gennaio, sa?” La vecchietta mi aveva aperto la porta. Al principio mi aveva scambiato per un venditore. Mi aveva guardato con diffidenza. Mi aveva squadrato dalla testa ai
piedi. Poi avevo aperto bocca. Le avevo parlato in italiano e l’espressione sul suo volto era cambiata. Ero seduto al tavolo della sua cucina, con la drink card tra le dita. Portò una torta dall’aspetto invitante. Prese un lungo coltello affilato e la tagliò. Il taglio della torta. “Il Generale usciva la mattina e tornava tardi la sera. Lavorava per un progetto che nessuno mi aveva spiegato. Non ho proprio idea di cosa si occue. La ragazza, Valentina, ava il tempo al piano di sopra. La signora stava invece in camera sua, a fare il punto croce, seduta con le gambe incrociate sul letto. La ragazza aveva dei libri da studiare, ma non li apriva. Le sue erano giornate vuote, da riempire come un cruciverba con le risposte difficili. Era sempre seduta al davanzale. Guardava fuori dalla finestra, verso la strada. Come se aspettasse qualcuno che non arrivava. Sembrava triste. Malinconica. Non usciva mai. Un giorno le chiesi perché era triste. Mi disse che le mancava il suo fidanzato che era rimasto in Italia e che lui non la veniva a trovare.” Certo. Sarei dovuto partire prima. Avrei dovuto seguirla, senza aspettare le feste. Sarei dovuto partire senza niente. “Settembre ò alla velocità della luce, come succede sempre in questa fredda città. Si a dal caldo soffocante al gelo pungente, umido e penetrante, in un batter d’occhio. L’autunno dovrebbe durare anche qui, come in altri posti più caldi, tre o quattro mesi, ma non è così. Giusto il tempo di vedere cadere le foglie, e dal cielo cadono chicchi di ghiaccio e di neve, e hanno freddo anche le ossa.” La vecchietta parlava. Intanto il bollitore aveva iniziato a fischiare sul fuoco come un treno che attraversa una pianura desolata nel Far West. “Allora, signorino. Lo vuole un bel tè? Quello che faccio io riscalda anche il cuore, vedrà.” Da quando ero morto non mi era ancora capitato di bere un tè. In fondo era anche la prima volta, da tanto tempo, che parlavo così a lungo con una persona. Accettai la proposta. La vecchietta mi porse la tazza. La presi con la mano sinistra e commisi un errore.
Nella mano destra tenevo ancora la drink card. Mi sfuggì. La vecchia si ritrasse di scatto, sgranando gli occhi. Iniziò a guardarsi intorno. Mi chinai sotto il tavolo per cercarla. Guardai prima a destra e poi a sinistra. Santo Dio. Non la trovavo. Mi misi sulle ginocchia e cominciai a strisciare sotto le gambe delle sedie. A dieci centimetri dalla mia faccia, c’erano le vecchie e consumate pantofole della signora che, nel frattempo, era rimasta impalata con la teiera fumante in mano. Vidi la carta. Era esattamente sotto il suo piede. Infilai due dita sotto la pantofola e lentamente riuscii a sfilarla. La strinsi nella mano destra. “Ah!” esclamai. “Trovata!” Riapparsi da sotto il tavolo, impugnai repentinamente una forchetta e feci finta di averla pescata sotto una sedia. “Mi scusi, mi era caduta… qui sotto.” “Che strano. Che cosa strana. Le stavo per dare il tè e non l’ho più vista. Era come se fosse sparito.” “Come sarebbe? No. Ero solo sotto il tavolo… per cercare la forchetta.” “Mah. Delle volte l’età fa brutti scherzetti. Mi sembra di essere attorniata da spiriti. Mi sa che lei, signorino, sta parlando con una persona più morta che viva.” A chi lo dice… “Non è vero, signora. Tutt’altro. Ma ora mi racconti la storia di Valentina, dove eravamo rimasti?” “All’inverno. All’inverno più freddo di tutti i tempi, quello del ’92, per quanto possa ricordare. Ci fu tanta neve e poi arrivò la nebbia. Non si vedeva a un
palmo di naso. Solo chi conosceva la città poteva permettersi di uscire senza rischiare di perdersi. I genitori di Valentina ormai erano pratici del quartiere e uscivano senza il rischio di smarrire la strada. Lei, invece, aveva un problema in più. Se guardava fuori dalla finestra non vedeva nulla. Un giorno salii nella sua stanza. La vidi al davanzale, con le lacrime agli occhi. Le chiesi se potevo fare qualcosa per lei. ‘La nebbia,’ rispose, ‘allontana la nebbia, così posso vedere di nuovo fuori’. Non sapevo che cosa rispondere. Rimasi in silenzio per qualche secondo. Poi le chiesi che cosa si aspettasse di vedere per strada. ‘Lui. Il mio Tommaso che finalmente viene da me e mi dimostra che non si è dimenticato di noi’.” Una scarica di adrenalina mi attraversò le vene. Un dolore come un colpo di martello contro il mio cuore, immobile tra le pareti ossidate del torace. Maledetto me stesso. Merito tutto questo, pensai. “Natale era vicino. Pensai che forse avrei potuto aiutarla. Le proposi di accompagnarla fuori per comprare qualche regalo. La proposta le interessava. Accettò e si vestì. ammo il pomeriggio a Malà Strana. Valentina si fermava in ogni negozio. Non comprava niente, ma guardava ogni cosa e faceva domande ai negozianti. Finalmente, in un negozio trovò quello che cercava, la vidi sorridere. Comprò una scatolina di legno intarsiato. Il commesso chiese se doveva fare un pacchetto. Rispose di no. Chiese solo la carta. Lo avrebbe fatto da sola. Uscimmo. La nebbia, come per magia, si era diradata. Valentina mi accompagnava tenendomi sottobraccio. Ero contenta, perché mi sembrava di andare in giro con la nipotina che non avevo mai avuto. Poi tornammo a casa. E tutta la spensieratezza di quel pomeriggio svanì in un istante.” “Che cosa successe?” “Il signor Valdieri mi prese in disparte. Disse che dopo Capodanno sarebbero tornati in Italia, perché da quelle parti non si trovavano bene. Lui non lavorava, la moglie era più isolata che mai e la figlia, soprattutto lei, stava male. Aggiunse che moglie e figlia non sapevano ancora niente. Avrebbe fatto loro una sorpresa proprio la sera di Capodanno, quando avrebbe avuto la notizia ufficiale dal suo Ministero. Per lui era una sconfitta. Si poteva leggere nei suoi occhi. Ma doveva farlo per loro, le sue donne.” “E poi? Sono partiti?”
La signora rimase in silenzio. “Mi dica. Che cosa è successo?” “Nessuno me lo disse. Qualcosa di brutto. Temo.” “Me lo deve dire, signora, la prego.” “Il giorno di Natale Valentina rimase seduta al davanzale per vedere se arrivava il suo ragazzo. Niente. Non arrivava nessuno. L’indomani mi venne a salutare. Mi lasciò il pacchetto regalo che aveva comprato durante la eggiata a Malà Strana. Ce l’ho ancora lì,” disse indicando il cassetto di una vecchia credenza. “Poi è sparita. E qualche giorno sono scomparsi anche il padre e la madre. Hanno lasciato una busta con i soldi che dovevano. Avevano fatto velocemente i bagagli, nella notte. Se ne sono andati senza neanche salutare, lasciandomi qui da sola con i miei soprammobili. Non mi hanno mai più telefonato. Neanche una cartolina.” Non avevo risolto niente. Anche quella visita si rivelava fallimentare. Non sapevo che cosa dire. Il mio sguardo spento si specchiava nella tazza del tè. Valentina aveva abbandonato Praga. “Ma lei, caro giovanotto. Parli un po’ di lei. Mi dica. Su. Non ha neanche detto come si chiama.” Non riuscivo a rispondere. Non avevo avuto le risposte che cercavo. “Tommaso. Tommy, se preferisce. Sono arrivato. Un po’ in ritardo, ma sono arrivato. Valentina mi aspettava. Ma sono caduto dal cornicione.” La vecchietta rimase con la bocca aperta, si portò una mano sul cuore e mi guardò con un’espressione stupita e malinconica. “Oh, piccolo Tommaso. Se Valentina fosse ancora qui… come sarebbe contenta. Ma non si lasci andare. Finché c’è vita c’è speranza.” Appunto, pensai. “Vedrà che riuscirà a trovarla. E poi, dimenticavo…” Si diresse verso la vecchia credenza. Aprì il cassetto e tirò fuori un pacchettino rosso con un fiocco dorato.
“Questo era per lei, il regalo di Natale di Valentina.” Me lo diede. Presi il pacchetto. Lo infilai in tasca. Mi alzai in piedi. Abbracciai la vecchietta. Feci attenzione a non stringere troppo, avevo paura di farle male. “Che cosa ne dice, giovanotto, la gradisce ancora una fetta di torta? Vuole che gliela tagli io, non faccia complimenti, su! Su con la vita!” “Mi dispiace, signora. Lei è stata molto gentile, ma io purtroppo non ho più tempo…” La signora non aveva ancora finito il discorso. La ringraziai. Aprii la mano nella tasca, lasciai la drink card, e scomparvi, esattamente come fanno i fantasmi. Riapro gli occhi. È il momento del taglio della torta nuziale.
XXVI
Alla festa si balla
Anche la sposa balla, pensa Lucilla. Si è tolta le scarpe con i tacchi alti e tiene il vestito bianco con una mano. Luci si guarda intorno. Si sta annoiando. Non c’è nessuno di interessante a questo maledetto matrimonio. A un certo punto vede il dj. Sulla consolle. Capelli neri. Occhi neri. Sguardo sfuggente.
Accidenti. È lui! È incredibile, ma è proprio lui!, pensa. Anche se sono ati tanti anni lo riconosce immediatamente. Si avvicina, si mette a ballare in modo provocante davanti alla consolle, come aveva fatto alla festa di Carnevale. Il dj alza gli occhi e la squadra con una rapida occhiata. Sta suonando l’unico pezzo conosciuto dei Buggles. “Video kill the radio stars… Awa-awa…” Pinguini e ancelle si sono scatenati. Il dj riabbassa gli occhi sul disco e non degna Lucilla di una seconda occhiata. Non mi riconosce, pensa. Non mi riconosce! Mentre la canzone dei Buggles continua con i suoi awa-awa e lo stupido ritornello, non succede niente. Lucilla si stanca di ballare. Nella sua vita praticamente non ha fatto altro. Oltre ovviamente a concedersi a uomini che non le hanno restituito niente. Quella pista da ballo però non fa per lei. Si allontana verso l’uscita. Magari mi fumo una sigaretta. Qui non ci si diverte per niente. Questi ballano solo ai matrimoni, si vede da come si muovono. Lancia un’ultima occhiata verso il dj. È lui. È sicura. Ma come ha fatto a dimenticarsi di me? Dopo che lei aveva ballato come una tarantola per tutta la festa di Carnevale erano andati in collina con la macchina del dj, una Citroen Squalo nera. Si erano fermati, lei si era spogliata e lui le aveva graffiato la schiena. Poi le aveva fatto toccare il cielo con un dito, come nessun altro era e sarebbe riuscito a fare. Quando tutto era finito il dj l’aveva riaccompagnata a casa. Fino ad allora non aveva aperto bocca. “Arrivederci, Regina della Notte,” disse. “Questo non è un addio. Sarò lontano da Torino, a Lione, a Praga. In altre città. Ma ci rivedremo.” Il tempo però era ato, e non si erano incontrati.
Fino a oggi. Perché non mi riconosci? Improvvisamente Lucilla si accorge che c’è una ragazza che esce barcollando dalla sala. Indossa un vestito fucsia. Fucsia. Capisce perché non è stata riconosciuta. Le manca la parrucca fucsia della Regina della Notte. Questo è un problema risolvibile.
XXVII
Open bar
Sambuca, Braulio, Branca Menta, mirto, Montenegro, grappe e limoncelli oramai sono alle spalle. È giunto il momento in cui le cravatte dei pinguini sono sparite, le camicie hanno le maniche rimboccate, i posti a sedere sono saltati e tutti bevono superalcolici, succhiando come vampiri dalle cannucce, al bancone che si è trasformato in un open bar. Si beve gratis, fino all’ultima goccia. “Andiamo a cercare Lucilla?” mi urla Achille in un orecchio. Mi guardo bene dal farmi vedere dalla sposa. Mi è parso di vederla sulla pista da ballo. È ancora presto. La vedrò quando sarà da sola. Mi aggiro tra gli ospiti, il più lontano possibile dagli sposi che, nel frattempo, rimbalzano di qua e di là, come trottole, sulla pista da ballo improvvisata tra gli scheletri dei tavoli spostati ai margini. I camerieri, gli operai della Fabbrica degli Sposini, sono spariti. Non voglio avvicinarmi a Valentina. Ho paura di incrociare la felicità nei suoi occhi e di accorgermi che, come tutti gli altri, mi può guardare attraverso come
fossi polvere. Aspetterò il momento giusto. Quando potremo trovarci faccia a faccia. Solo in quel momento ò l’ultimo buco della drink card. La quinta e ultima consumazione. Quella decisiva. Alla faccia dell’open bar. Stasera pago io! Lucilla non c’è. “Forse è andata fuori a fumare,” dice Achille. Usciamo nel giardino. Ci sono delle torce che illuminano la notte, appese alle pareti della villa. Un sentiero di candele tremolanti. Sembra quasi che brucino il calore e l’aria ferma di questa notte estiva. “Non c’è nemmeno qui. Strano. Vado a cercarla. Tu resta qui, te la porto fuori,” aggiunge Achille. “Ma ti vede?” chiedo. “Sei sicuro?” Si volta. Mi guarda con un’espressione vacua, come se non avesse capito la domanda. “Sì,” risponde poi seriamente. “Sono sicuro che stasera è la volta buona. Altroché se mi vede.” Pochi istanti dopo sono di nuovo da solo. Cammino verso le zone più buie, nella direzione degli alberi che circondano il prato dietro la Villa della Regina. A un certo punto mi accorgo che c’è qualcuno che mi sta seguendo. Mi volto di scatto. “Siamo arrivati al capolinea, ragazzo? Ci hai dato dentro, eh, con i cocktail? E la mia amica, quella con i capelli fucsia? Che fine ha fatto? Te la sei dimenticata? Non ti ricordi che mi devi pagare, eh, ragazzo?” Capelli e occhi nero petrolio. Una voce metallica e gracchiante. Un po’ come quella del Supertelegattone, un personaggio odioso e pieno di sé della televisione. Lo riconosco immediatamente. Il dj. “È ancora presto. La serata è ancora lunga. Dovrai aspettare.” Si è avvicinato. Mi stringe un braccio con unghie che sembrano artigli.
“Non dovresti essere dentro a suonare, tu?” chiedo. La musica continua da sola, senza il suo artefice. “Suona senza bisogno di me, la musica. Non ci hai mai fatto caso? Il dj mette il disco e il disco parte, fino alla fine della canzone. Ma ora non cambiare discorso. Forse stiamo cercando la stessa persona?” Mi torna in mente la richiesta che mi aveva fatto. Lucilla. Con la sua parrucca. Ma lei non deve pagare per i miei sbagli. “E sia. Ora mi rimetto al lavoro. Rimbomberanno le casse. Farò fischiare le orecchie a tutti. Pomperò il subwoofer. Li farò ballare. Sudare. Dimenare come menadi, come da anni non fanno. Poi metterò l’ultima canzone, quella strappamutande. E ci vedremo. Io e te. E lei, la ragazza dai capelli fucsia. Ma tu goditela, questa bella serata,” aggiunge con una voce simile al gessetto spezzato sulla lavagna, “e fatti l’ultima consumazione. Magari una vodka lemon, oppure una tequila sunrise, un Cuba libre o un mojito? Oppure un bel long island? O un negroni, per stare sul leggero? Non guasta, eh? Ho indovinato? Li ho presi tutti? Non ti gira la testa dopo tutti quei cubetti di ghiaccio, le cannucce attorcigliate come serpenti e i sorsi veloci e mortali di alcool? Allora, ’sto bicchiere della staffa, l’ultimo della tua esistenza, te lo vuoi fare oppure no?” “Devo ancora trovare Valentina. Poi posso scomparire.” Scoppia a ridere. “Ah, non ti sei ancora messo il cuore in pace, eh? Comunque aspetterò. In fondo è questo l’accordo. Siamo rimasti così. Ah. Ricordati che alla fine… devi pagare. Cercami la Regina della Notte, per piacere.” Certo che mi ricordo. Ma non ho ancora fatto quello che devo. Sono ancora qui. Mi libero dalla sua stretta. Mi allontano velocemente, mentre continua a fissarmi, come se si fosse trasformato nel buttafuori della sua discoteca infernale. Scappo nella direzione della sala da ballo. Di Achille e Lucilla nessuna traccia. Sono di nuovo da solo, con mille domande e una voglia disperata di riscattarmi. “Aspetto. Aspetto. Fino a quando suonerà il lento, l’ultima canzone, prima di sbaraccare e mettere la parola fine a questa festa.”
Dopo essere andato via dalla casa della vecchietta, quel giorno a Praga, la tristezza e lo sconforto presero il sopravvento. Il tempo era ato, e non ero ancora riuscito a trovare Valentina. Anzi. Il tempo era trascorso senza che avessi neanche un indizio. Che cosa dovevo fare? Dovevo tornare a Torino? Oppure continuare a cercarla lì? Vagai tra le vie strette del centro di Praga, che si era trasformato in un labirinto. A un certo punto mi sentii stanco. Era inutile girare come una trottola, senza nessuna destinazione. Entrai in un bar fumoso. Vidi che al bancone c’era uno sgabello libero. Mi sedetti. Non avrei perso giorni o mesi preziosi, per farmi vedere dal barista. Non avrei ordinato. Semplicemente mi sarei versato da bere da solo. Facile. Bastava aspettare che il barista fosse impegnato con un cliente, prendere un bicchiere e riempirlo di quello che volevo. Iniziai con un caffè, poi ai alla bottiglia di vodka. Ne presi un bicchierino, poi due, tre e quattro e cinque e sei. Tutte le volte marche diverse. Ogni tanto il barista vedeva un bicchiere vuoto sul banco, non si faceva troppe domande, lo ritirava automaticamente. E io ritornavo alla carica. A un certo punto anche lo sgabello venne occupato. Una donna di circa trent’anni si sedette al mio posto. Era la prima volta, da quando ero morto, che mi ubriacavo. In fondo non era tanto diverso da quando ero ancora vivo. Anche i fantasmi possono perdere la lucidità. Mi girava la testa, mi sentivo le gambe deboli. Ma tutto sommato provavo una sensazione di ebbrezza niente male. Per certi versi mi faceva sentire vivo. Mi sedetti per terra. Con la schiena al bancone. Davanti a me c’erano le gambe della donna. Portava una gonna corta e calze autoreggenti. Dalla mia posizione si vedeva tutto. Per un attimo pensai di lasciarmi andare. Avrei impugnato la drink card. Sarei improvvisamente apparso tra le sue cosce.
Forse sarebbe impazzita dallo spavento, o forse avrebbe apprezzato. Lo stavo per fare. Stavo per abbandonarmi a quell’idea malsana. Avrei buttato al vento qualche anno di vita. Ma poi trovai un barlume di lucidità. Dentro di me c’era ancora un manipolo di soldati che resisteva per combattere per una coscienza pulita. Se avessi sprecato quella consumazione avrei detto addio all’idea di trovare Valentina. Riuscii faticosamente ad alzarmi e andai barcollando verso la porta del locale. Quando uscii non se accorse nessuno. Nessuno mi vide. Fuori era notte. Nevicava. Forse da un momento all’altro avrei incrociato l’Abominevole Uomo delle Nevi. Mi diressi verso il Ponte Carlo. Le statue dei santi mi guardavano, mentre barcollavo da una parte all’altra. Qualcuna sussurrava parole di sdegno, qualcun’altra faceva smorfie. Una addirittura sputò verso di me. Quando arrivai in mezzo al ponte, strisciando da una parte all’altra, le gambe non reggevano. Mi lasciai andare. Mi accasciai contro il parapetto. Non c’era nessuno. Silenzio. Solo fiocchi di neve che volteggiavano dall’alto, sempre più grandi. Cadevano e ogni tanto, prima di appoggiarsi sul mio vecchio cappotto consumato, riprendevano il volo. Ecco. Nella mia testa girava tutto. Mi sembrava di essere rinchiuso in una sfera di cristallo. Senza la possibilità di uscire, dentro mura sferiche di vetro, trasparenti. Con la neve intorno. Esattamente come se fossi finito in una boccia di quelle che si comprano nei negozi di souvenir, con dentro un omino piccolo piccolo, accasciato sul Ponte Carlo, sotto la neve di polistirolo che volteggiava. Anche se avessi sbattuto i miei piccoli pugni contro le pareti, non sarei riuscito a creparle. Se avessi preso a calci il vetro non sarei riuscito a romperlo. Quando riaprii gli occhi Praga si era risvegliata. Forse un angelo mi aveva fatto inalare ibuprofene, forse nella mia condizione di spirito il mal di testa non era un sintomo di malessere post sbronza.
Avevo la testa appoggiata ai cubetti di porfido. Sul ponte c’era un via vai incessante di uomini con il o pesante e di donne con tacchi ticcheggianti. Alzando lo sguardo dai piedi, alle caviglie e fino al cielo, vidi signore con macchine fotografiche, gruppi di piccoli giapponesi, rumorosi italiani e allampanati tedeschi. Nell’aria di un cielo grigio riecheggiavano le note di suonatori di sassofono e di flauto. Un uomo con il violino suonava davanti a me, con un cappello ai piedi per raccogliere le monete. Mi fissava. “Allora. Non ti sei dimenticato di qualcosa?” disse smettendo di suonare. Mi alzai di scatto. “Mi vede? Lei mi vede?” Che strano. Non avevo in mano la drink card. “Certo. Certo che la vedo. E lei, la vede la statua?” disse indicando una delle statue sul ponte. “Sì.” “Beh. Sono io!” rispose ridendo. “Sono solo sceso un attimo.” “Ma le statue non sono santi?” “Sì. Sant’Adalberto di Praga. Piacere di conoscerla.” “Da quando i santi suonano il violino e chiedono l’elemosina?” “Che cosa c’è di strano?” Non riesco a capire che cosa stia succedendo. Forse sto impazzendo. Non rispondo. “Allora, ragazzo biondo, non hai forse dimenticato qualcosa?” Istintivamente misi una mano in tasca e trovai il pacchettino che mi aveva dato l’anziana signora. Non me n’ero dimenticato. Come avrei potuto? Semplicemente non avevo ancora avuto il coraggio di vedere che cosa fosse. Ma in quel momento ero sobrio. Ero di nuovo combattivo, un fantasma combattivo.
Tolsi la carta. C’era una scatolina, con un piccolo biglietto. Tommy, ti ho aspettato. Natale è ato. Non sei arrivato. Ho telefonato a Lucilla che mi ha detto cosa ti è successo. Ma io non voglio credere che tu non ci sia più, e so che un giorno arriverai, anche se non sarò più qui. Sappi che se verrai a cercarmi non mi sarò dimenticata di noi due, e ti aspetterò. tvb. Valentina. C’erano due anellini. Mi misi una mano nei capelli. Oddio. Non dovevo rinunciare. Non dovevo lasciarmi andare. Dovevo trovarla. Avrei potuto informarmi da qualcuno che la conosceva. Sarei tornato a casa. Mi rialzai. Il mio vestito nuovo da Blues Brothers si era sporcato. Accidenti. Anche quello era un problema. Non potevo permettermi di andare a comprarne un altro. Non potevo perdere ancora del tempo prezioso. La dovevo trovare. Tornai alla stazione. Vidi che c’era un treno che partiva per Milano dopo pochi minuti. Da Milano a Torino sarebbe stato uno scherzo. Trovai il binario e salii. Non c’era quasi nessuno. Mi sedetti nel primo posto che trovai. Poi il treno si mise in moto. Bene. Tornavo a casa. Il viaggio fu lungo. Sembrava che non finisse mai. Non avevo niente da leggere, non c’era nessuno con cui potessi parlare. Ebbi molto tempo per pensare, per organizzare il mio piano. Ecco. Sarei andato a cercare Lucilla. Lei di sicuro
aveva tenuto i contatti con Valentina. Avrei preso la drink card e usato una consumazione, la penultima, per parlarle. Ma come avrei fatto a non farla impazzire di paura? Non capita tutti i giorni di vedere un fantasma. Certo. Mi sarei tirato a lucido. Sarei comparso nel momento giusto. In fondo Lucilla, strana com’era, forse era proprio la persona giusta con cui ricomparire nelle vesti di un fantasma. Non era mai stata tanto a posto. Mi sedetti in un dehors sotto i portici di piazza Vittorio, senza dare troppo nell’occhio. Avrei trovato Lucilla da quelle parti. Era sempre ai Murazzi, sempre negli stessi locali. Ci avrei scommesso. Nel frattempo, poco prima che i negozi chiudessero, avevo fatto un bagno nel fiume, avevo nascosto in un sacco lungo i Murazzi il mio abito praghese. “Uh! Uh!” urlavo nudo come un verme, sotto i portici della piazza. “Lo vedete il Fantasma Formaggino?” Proprio così, mi sentivo un fantasma formaggino, per niente abbronzato, magro e alto, con capelli biondi sparati in aria. Urlavo, ululavo, mi sbracciavo, facevo delle smorfie. Una sorta di euforia si era impadronita di me. Nessuno si accorgeva della mia presenza e delle mie scene, però. Nessuno vedeva un biondo pazzo, completamente nudo. In fondo essere fantasmi aveva i suoi vantaggi. O svantaggi, a seconda dei punti di vista. Un vantaggio era non dover avere soldi per fare acquisti. Andai nel primo negozio che vidi. Il proprietario, uno strano personaggio gay, parlava con un amico sull’uscio. Appena entrai lo vidi fare uno scatto. “Accipicchia!” esclamò. Che strano. Mi sembrò che mi avesse visto. “Che cosa ti prende?” gli chiese l’amico. “Mah,” disse l’altro stropicciandosi gli occhi, “per un attimo mi è sembrato di vedere entrare un bel maschione nudo. Ormai vedo i fantasmi. Forse mi devo far curare?” “Sei il solito mattacchione! Curare? Curare?” gli fece eco l’amico, gesticolando e strabuzzando gli occhi. “Ma ti pare che sia diventata una malattia, immaginare uomini nudi?”
Io nel frattempo ero dietro un porta abiti, nascosto tra cappotti e piume di struzzo. Presi le prime cose che trovai. Boxer elasticizzati a fiori, pantaloni a zampa di elefante viola, una maglietta verde pistacchio con il collo a barchetta e una giacca leggera, in ciniglia di colore rosso . Un perfetto look da fantasma anni Settanta. Trovai anche un paio di All Star. Mi specchiai. Che bello che ero. Se non fossi stato così spettinato, pallido e un po’ stralunato, se avessi avuto un pettine per sistemare i miei spaghetti biondi, forse sarei stato più simile a un figlio dei fiori che a uno spaventaeri. Ma più di tanto non potevo permettermi. E il parrucchiere era un lusso di troppo: di certo, non vedendo me, non sarebbe stato facile vedere i miei capelli, e avrei avuto bisogno di uno bravo e che mi potesse capire, come Edward Mani di Forbice o Freddy Krueger. Andai verso la porta d’uscita. Il proprietario del negozio improvvisamente mi si parò di fronte. “E tu chi sei? Dove credi di andare?” chiese con una voce effeminata. “Allora non ho le allucinazioni. Mi sembrava di aver visto un uomo nudo, come un verme, un bel vermone… E ora l’uomo nudo si è vestito, e non vuole pagare!” “Ma lei,” dissi con naturalezza, “come fa a vedermi?” Non stavo impugnando la tessera. L’avevo messa in un taschino dei pantaloni, in un posto sicuro dove non l’avrei persa. Non era normale che mi vedesse. “Sono io che ho fatto la domanda, carino. Sei tu che sei dentro il mio negozio. Quindi ti chiederei cortesemente di rispondere.” “Io? Beh, io sono Tommy, sono un fantasma,” risposi istintivamente, tanto non avevo niente da perdere. “E che cosa ne dice? Sono presentabile?” “Un fantasma? Ah. E io sono Catherine Deneuve! Presentabile? Un fantasma presentabile? Certo che lo sei. Visto che indossi i miei vestiti. I miei vestiti sono belli, sai? Bel signorino…” Mi venne un dubbio. Forse mi vedeva proprio per quello che indossavo.
“Senta, avrei una curiosità. Mi potrebbe dire da dove arrivano, questi bei vestiti?” “Direttamente dagli anni Settanta.” “Che fine ha fatto la gente che li metteva allora?” Il tipo fece una grassa risata. “Beh, qualcuno potrebbe anche essere andato… vediamo… al Creatore?” “Anche lei?” All’improvviso il negoziante cambiò espressione del volto. Spalancò la bocca, colpito dallo stupore. Iniziò a guardarsi intorno, prima da una parte, poi dall’altra. “Beh, io, veramente…” Ne approfittai per uscire velocemente da locale, mentre lui si guardava allo specchio, si toccava gli zigomi, ruotava le pupille con aria interrogativa, come per dire: “Sogno o son desto? Sono vivo o morto?” Poi si guardò intorno. “È sparito,” lo sentii dire. Parlava da solo. “Allora aveva ragione. Oppure sono io che sono impazzito… Mah, vai a capire! Se ne incontra di gente strana.” Mi diressi verso il primo locale sotto i portici di piazza Vittorio. Lanciai un’occhiata alle mie spalle. Il tipo del negozio era sulla soglia, e continuava a parlottare. Mi sedetti a un tavolino. Rubai le consumazioni che trovai su un altro tavolo e iniziai ad aspettare che arrivasse la notte. Ascoltavo le conversazioni dei ragazzi seduti ai tavoli intorno. Era come se le loro parole fossero noccioline. Insipide. Una tirava l’altra. Nel frattempo si faceva sera. Il primo segnale fu la luce verde dei lampioni. Verde. Non gialla come dovrebbe essere la luce. Quando ero vivo amavo quel momento. Una frazione di secondo. Le vecchie lampade incrostate di ragnatele, piene di moscerini, appese sotto gli archi, quando si accendevano proiettavano una spettrale luce color pistacchio scolorito. La piazza si colorava lentamente di una tinta lunare e sembrava che il tempo fermasse il tramonto. Stop, aspetta, vecchio ladrone, a portarti via la giornata. Stop! Fermati.
Ma il tramonto era un personaggio intransigente, poco paziente e soprattutto schivo. Scappava da tutti quelli che cercavano di trattenerlo. Il tempo dava ordini come un allenatore di calcio. Diceva alla luce naturale del Sole di fare capolino, diceva ai lampioni di prendere coraggio. Loro iniziavano a diffondere luce gialla artificiale, prima timida e scolorita, poi più accesa e convincente. Alla fine talmente forte da illuminare l’intera piazza, quasi come la luce del Sole che se n’era andata. Dietro il fiume le colline sembravano sdraiate come gatti, mentre scendeva la notte su Torino. Una. Due. Tre volte svuotai i bicchieri. Nella più assoluta indifferenza. Un po’ come quando ero ancora vivo e mi capitava di uscire da solo, durante l’estate in cui Valentina era via e tutti erano partiti per le vacanze. Agosto trascorreva senza che nessuno mi degnasse di un’occhiata o di una parola, se non per chiedermi una sigaretta o l’accendino. Quel giorno però non avevo alternativa. Se prima non mi vedevano perché a nessuno importava di me, ma sarebbe potuto succedere qualcosa per qualche strano miracolo, allora, da fantasma, non mi sarebbe potuto capitare neanche per sbaglio. Ero meno importante di un bicchiere accartocciato, meno di una cannuccia, meno ancora del posacenere pieno di mozziconi di sigarette che aveva fumato qualcun altro. Si avvicinava il momento in cui dovevo usare la mia arma segreta. La consumazione numero quattro. Sapevo che Lucilla non si perdeva neanche una serata delle feste d’inaugurazione estiva del più importante locale dei Murazzi. Erano ati molti anni, ma lei di certo non aveva perso le vecchie abitudini. Laggiù avrebbero sparato luci stroboscopiche fino all’alba, sarebbero stati bevuti litri di vodka lemon. I ragazzi si sarebbero divertiti, e lei più di chiunque altro. Perché lei era la Regina della Notte. Aspettai la notte, seduto sulla stessa sedia. Poi mi alzai. Sistemai il colletto della giacca. ai una mano tra i capelli biondi
che nel frattempo avevano perso l’odore del fiume e avevano acquisito le sembianze di capelli con gel. Dribblai inosservato la folla e scesi dal lato sinistro dei Murazzi. Superai la fila dei ragazzi, davanti a un buttafuori che bloccava quelli che volevano entrare. Presi fiato, per quanto potessi, ed entrai, ando attraverso il buttafuori. La musica era fortissima. Erano i rem che cantavano: “È la fine del mondo come sappiamo, è la fine del mondo come sappiamo, è la fine del mondo come sappiamo… e io sto bene!” Meno male che da quelle parti c’era ancora musica rock e non roba da discoteca. Intorno a me c’erano braccia, gambe, teste, capelli profumati, biondi e castani, bicchieri di plastica, fumo, fasci di luce gialla, blu, rossa, cannucce, facce. Tante, tantissime persone. Poca aria da respirare, veramente poca, per quanto potesse importarmi. Sarebbe stato difficilissimo trovare Lucilla. All’improvviso il dj iniziò a suonare un altro pezzo che conoscevo. Girls and boys. Adrenalina per il vecchio fantasma biondo. Non so che cosa mi prese. Non seppi tenermi. Iniziai a ballare anch’io come tutti. “L’amore degli anni Novanta è paranoia!” cantava Damon Albarn. La vita. Girls, pensai. Boys. O la morte. Girls. Boys. “Always should be someone you really love…” La dovevo pur vivere, in qualche modo. Ora spalanco gli occhi. Il dj nella Fabbrica degli Sposi ha messo una canzone che odio, un vecchissimo pezzo degli Abba. Gli invitati del matrimonio stanno ballando caracollando come candele instabili. Due, tre coppie. Tra di loro c’è Lucilla con una parrucca fucsia in testa. Finalmente.
Luci! Il dj del locale mi lancia un’occhiata. Mi indica con un dito che tiene sospeso nel vuoto al ritmo della musica degli Abba. Gli leggo le labbra: “Hai poco tempo, ragazzo. E quella è il prezzo che devi pagare”.
XXVIII
Mi vuoi sposare
E dire che anche Lucilla ci era andata vicino, a un matrimonio. Il suo. Fumo negli occhi. Un giorno, quando aveva ventisette anni e si svegliò con a fianco un uomo che non aveva tagliato la corda durante la notte. Era brutto. Grasso. Parlava poco e russava come un animale ferito, sbavando dalla bocca. Però era il primo che le aveva detto “ti amo”, senza poi mettersi a ridere. Uscivano insieme da quasi un mese. Lucilla lo guardò stupita. “Stai parlando sul serio?” Aveva qualche anno più di lei. Si erano conosciuti una sera ai Murazzi. Poteva essere uno dei soliti incontri occasionali, ma dopo la prima notte c’era stata la seconda, poi una cena, un’altra, e addirittura un cinema, come fanno i veri fidanzati. Andavano d’accordo nei lunghi momenti di silenzio in cui erano insieme, quando stavano zitti. Forse è ora di mettere la testa a posto, pensava Lucilla quella mattina. In fondo l’hanno detto tutti. Per un bel tradimento, una bella scopata, ci vuole un bel matrimonio, prima.
Un giorno le chiese di andare a pranzo a casa dei suoi genitori. Non li aveva ancora incontrati. Ebbe la sensazione di essere stata invitata sul pianeta Marte. Immaginò una coppia di venusiani, come Spock di Star Trek, con la pelle verde e le orecchie a punta. Quando entrò in casa si accorse invece che gli alieni avevano sembianze umane. Ma non si sarebbe immaginata di vedere nello stesso momento, oltre a mamma e papà, anche nonna-nonno zie-maternee-zii-paterni-fratelli e sorelle-fidanzati e fidanzati delle sorelle e dei fratelli e cane-gatto-bambini e bambini neonati e infine, per fortuna, un innocuo pesciolino rosso in un’ampolla esattamente in mezzo alla tavola, imbandita come potrebbe essere quella di una famiglia di eroi del sumo giapponese. Un attimo di imbarazzo seguito da una feroce fitta di sconforto si impossessarono del cuore di Lucilla. Capì che aveva fatto male ad abbandonare il pianeta Terra e i suoi scenari abituali, come piste da ballo e locali dei Murazzi. Si guardò intorno, non c’era via di fuga. Tutti, salvo forse il pesciolino rosso, stavano guardando nella sua direzione, come se fosse lei il marziano direttamente sceso dal cielo, e loro fossero il comitato d’accoglienza del paese dei Visitors, in cui, per sbaglio, era atterrato il disco volante. Si rese conto di aver preso una clamorosa cantonata, che quello che stava vivendo non era un incubo né un episodio de Ai confini della realtà, ma la cruda verità e storia della sua vita, e che le lancette dell’orologio con il pendolo, che spiccava sulla parete a fianco di un Gesù a grandezza naturale, sarebbero state più lente di una lumaca in stato di relax che va a eggio. “Buongiorno,” disse, “forse dovevo suonare il camlo del pianeta a fianco.” Erano tutti seduti a tavola. Stavano già assaltando pane e antipasti, come se fosse iniziata una lunga guerra che sarebbe finita o con la loro esplosione o con l’esaurimento di ogni cosa commestibile reperibile nel raggio di qualche chilometro. Il pranzo procedette tra una portata e l’altra. A turno ogni componente della famiglia dei Visitors le faceva una domanda. “Che lavoro fai?”
“Dove abiti?” “Ti piace la parmigiana?” “Lo metti il parmigiano?” “Vuoi un altro piatto, eh?” Le domande di carattere culinario con il are del tempo ebbero la meglio. “Ti piace…” A un certo punto, quando le forchette smisero di tintinnare, il nonno era addormentato sul piatto, i bambini si stavano picchiando davanti alla televisione e il pesce rosso galleggiava nella sua ampolla di vetro, il fidanzato di Lucilla, che fino ad allora non aveva proferito verbo, si alzò in piedi. Tutti ammutolirono. “Ah ma’,” disse alla madre, “portami quella cosa.” La signora si alzò e si diresse trotterellando verso la cucina, come aveva fatto almeno trenta o quaranta volte fino ad allora. Lucilla immaginò che era il momento del terzo dolce, dopo la cassata e i babà. Invece la madre tornò con un piccolo pacchettino e gli occhi lucidi. Il fidanzato di Lucilla si diresse verso di lei. Con le labbra tremolanti, nell’improvviso silenzio, disse: “Mi vuoi sposare?” Lei inizialmente rimase senza parole. Poi ci mise un istante a capire quello che le ava nella mente. Prese il tovagliolo dalle gambe. Tirò indietro la sedia. Posò le mani sul tavolo, e disse: “Ma vaffanculo!” Si alzò e si diresse verso la porta.
XXIX
Il discorso della testimone
Quando uscii dal locale, dopo aver ballato come un forsennato una serie di pezzi da brividi, la vidi. Lucilla era sola, seduta sul gradino a bordo fiume. Non era migliorata un granché negli ultimi anni. Bionda tinta, come una volta, un po’ sovrappeso, più di allora. Aveva occhiaie e uno sguardo sfuggente. Indossava un vestito che la copriva poco. Era spettinata e chiaramente ubriaca. La Regina della Notte era sempre lei, solo leggermente più sciupata. Mi sedetti al suo fianco. Stringevo la drink card, facendomela are da un dito all’altro come se fosse una bacchetta della batteria. Era la penultima consumazione. Dovevo assolutamente usarla bene. Luci guardava tra i riflessi del fiume, con gli occhi lucidi come se avesse pianto. Se fosse riuscita a specchiarsi non si sarebbe dovuta spaventare. Si sa che le increspature del fiume rendono meno bella la donna che si specchia. A destra c’era il ponte e poi il monte dei Cappuccini, la collinetta che guardava al di là del Po. “Come stai? È ato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti,” le dissi. Si voltò di scatto con gli occhi sbarrati. “Ah. Un fantasma. Oddio.” Sorrisi. Stava per alzarsi. “No. Sono io. Aspetta! Sono tornato.” Le posai una mano sulla spalla nuda. “Ho bevuto troppo,” disse tra sé, con un filo di voce. “Mi sembra di vedere un vecchio amico che non c’è più.” “No, Luci. Sono io, sono davvero io, Tommy.”
“Sembri proprio tu. Dove sei stato negli ultimi sei anni? In Paradiso si sta bene? Che musica ascoltano da quelle parti? La chitarra te la sei portata lassù? Hai visto Kurt Cobain?” “Perché dovrei essere andato in Paradiso e non all’Inferno? Non credi che sia un posto più adatto a me?” Lucilla sorrise. “Ah. Allora sei davvero tu. Il fantasma di Tommy ai Murazzi. Che bello. Non ci posso credere!” disse piegando la testa e sorridendo. Mi cinse con un braccio e appoggiò la testa sulla spalla. “Mi sei mancato, lo sai, Tommy? Sei mancato a tutti, ma a me più degli altri…” “Anche voi mi siete mancati.” “Perché? Che cosa succede dall’altra parte? E poi mi dici che cosa ti è preso quel maledetto Natale? Ti sei messo a camminare sul cornicione, così, manco fossi diventato l’Uomo Ragno. Poi hanno messo dentro Achille. Due in un colpo solo. E poi, e poi Valentina… Ma lasciamo perdere. Maledetto Tommy. Tutta colpa tua. Da quel giorno io odio il Natale.” Guardai verso il fiume che scorreva lentamente e sparava riflessi a ritmo di musica, come se partecie al nostro dialogo fuori dal tempo e reggesse il tempo. Nell’aria c’era l’odore del Po e dei Murazzi, una miscela tra i fumi delle marocchine che abbrustolivano salsicce, zaffate di hashish e sigarette. L’aria era satura, ma il mix non era affatto male. “Stavo andando da lei, lo sai?” “Da Valentina? Ti aspettava.” “Sì, lo so. Ma sono scivolato e sono caduto.” “No! Ti hanno ucciso! Ti hanno spinto giù!” “Non ho capito bene che cosa è successo.” “Tommy, i giudici hanno detto che è stato Achille. Lo hanno sbattuto dentro, e lui… lui si strappava i capelli, lo sai? Diceva che era innocente. Lo ripeteva in continuazione. Non sapeva dire altro. Così è impazzito, e poi… che fine ha fatto… Ma tu, tu non potevi uscire dalla porta, come fanno tutti? Eh?” disse
alzando il tono della voce. “Achille? Mi avrebbe ucciso il mio amico Achille? Perché? Ma cosa stai dicendo?” “Boh. Così dicono. Ma senti, fantasma, cosa ne dici se ci facciamo un giro io e te?” Il suo abbraccio mi stringeva. Si avvicinava. Sentivo l’odore di alcool del suo alito. Mi allontanai un pochino. Quanto bastava. “Luci, volevo andare da lei. Stavo per partire. Avevo rubato dei soldi al Ruvido.” Reagì in modo stizzito. “Ah. Prima rubi e poi cammini sul cornicione. Beh. Bravo. Ci sei riuscito per bene, ci hai fatto proprio un bel regalo di Natale. A me, a tutti e anche a Valentina.” “Dimmi, Luci. Raccontami di lei. Tu e lei eravate inseparabili. Dimmi dove la posso trovare. Anche stanotte. Non ho tempo da perdere.” Rimase in silenzio. “Sei scemo? Ci stai provando? Sono ubriaca, sai? Mi sembra di vedere un fantasma. Il fantasma del mio amico che mi piaceva e usciva con la mia migliore amica. Bella roba. Ma tu chi sei? Chi sei veramente? Tommy è morto tanti anni fa.” “Dimmi, Luci. Davvero, sono io. Mi stai vedendo. Dov’è Valentina? È a Torino?” Si voltò di scatto. Mi bruciò con uno sguardo. “Tu. Achille. E poi Valentina. Tutti e tre, uno dopo l’altro, come birilli che cadono. Come? Mi chiedi dov’è? Sei tornato per lei? Solo per lei? Vuoi farmi male ancora una volta? Eh, eh, eh?” biascicava. “Mi hai ucciso quando hai deciso di cadere dalla finestra. Poi mi hai ucciso quando per colpa tua hanno sbattuto dentro Achille. Poi Valentina… quello che le è successo dopo che era partita da Praga. E solo ora forse sta bene. Ma chissà dove. Invece no. Tu adesso arrivi e mi chiedi di lei… quando ormai è troppo tardi! Troppo tardi, Tommy! Ti dovevi svegliare
prima, tanti anni fa. Perché non sei andato a prenderla per portarla indietro quando eri ancora in tempo? Perché non sei uscito dalla porta di casa, come fanno tutti?” Lucilla è un fiume in piena. Inarrestabile. Belle domande, tutte e due. La prima me la facevo tutte la mattine che mi svegliavo quando ero ancora vivo. La seconda è quella che mi tormentava da quando sono morto. “Ormai che importanza ha? Dimmi dove la posso trovare.” Mi guardò con un’aria stralunata. “Lo sai? Proprio quel Natale, quando facevi l’equilibrista sul cornicione, mi aveva telefonato. Mi aveva detto che era triste, perché ti eri dimenticato di lei. Ma che ti aspettava ancora. E se non fossi arrivato tu, sarebbe tornata lei a Torino.” “E tu che cosa le hai risposto?” “Che forse era vero che ti eri dimenticato. Ma che a me non me ne fregava niente. In fondo era lei a essere andata via. E allora le ho detto che era inutile sperare, anche se non sapevo che forse proprio in quell’istante ti stavi per rompere l’osso del collo e che avevi rubato i soldi per andare a Praga.” “Perché? Perché, Luci? Perché le hai detto una cattiveria simile?” Mi guardò negli occhi. Sembrava in procinto di piangere. “Non mi chiamavi più. Scusami, scusami, Tommy. Perdonami, io… io all’epoca ero sola.” Non potevo essere arrabbiato con lei. Nel locale stavano sparando una canzone che ripeteva: “Ho appena scoperto alcune ragazze, sono più grandi delle altre…” Le note uscivano rimbalzando tra le sponde dei Murazzi e si perdevano. Certo. La vita corre, ogni tanto, come un treno veloce su binari paralleli, oppure scivola lentamente sulle rive opposte del fiume, su rotaie che si guardano da vicino ma che non comunicano tra loro. Io avevo scelto il treno veloce. E dire che Lucilla e io qualcosa da condividere ce l’avevamo, la partenza di Valentina. Potevamo incontrarci per dirci l’un l’altro quanto ci mancava.
Mi accorsi che stava piangendo. “Luci, sono tornato perché ora la voglio rivedere. Le voglio dire che quel giorno stavo per raggiungerla, stavo partendo. E magari riesco ancora a stare insieme a lei. Anche solo qualche minuto, come allora.” “Ma Tommy, ormai tu… tu, Achille… e poi lei… devi sapere che Valentina…” Le parole che uscivano dalle sue labbra erano un fragile sussurro che sembrava rompersi da un momento all’altro. “Valentina… Tommy, non potrai più vederla, non potrà più tornare con te. È impossibile. Tu non sai niente.” Rimasi in silenzio. Strinsi più forte la drink card. Stavo perdendo la pazienza. “Perché? Io voglio provare lo stesso. Dimmi dov’è. Dimmi, ti prego.” “No. No, Tommy. Non ti voglio fare del male. E poi vorresti vederla ora? Ma sei proprio sicuro che sia il momento giusto? Lo sai dove dovresti andare per trovarla?” Fu in quel momento, in quel preciso istante, proprio quando stavo per ricevere la risposta che tanto avevo aspettato per tutti quegli anni di non vita da fantasma, che arrivarono verso di noi due uomini trasandati. Erano usciti dal locale. Valentina, appena li vide, si alzò di scatto. “Ehi!” gridò nella loro direzione. “Cosa fai lì, Luci? Che fine hai fatto? Ti abbiamo cercata dappertutto. Ti sei dimenticata del programma della nostra serata?” Uno dei due la prese come se fosse un manichino. Lei lo lasciò fare, barcollando da un piede all’altro. La baciò sulla bocca. Luci non si voltò neanche nella mia direzione. Una manciata di secondi dopo me l’avevano portata via. E io ero ancora sulla panchina, con la tessera tra le dita. Ancora una volta senza risposte alle mie domande.
XXX
La fine della festa
Non fanno per me, penso. I matrimoni sono lunghi, sembra che non finiscano mai. C’è ancora troppa gente. Come faccio a vederla da sola? Se non ora quando? Le ore si fanno piccole-piccole, mentre il tempo a, sgocciola, veloce, cade dal rubinetto, tic-tic-tic, senza tregua, incalza, si dissolve, se ne va senza dare peso e sostanza alle cose, cancella i ricordi come se fossero scritti con il gesso sulla lavagna, e io mi sento sempre meno giovane, anche se sulla mia pelle e nella mia mente sembra che siano ati solo diciotto anni e poco più. Sono ancora fuori dalla Villa della Regina, a ricordare tutto quello che è successo, a rimettere a posto i pezzi, come se ogni episodio fosse la tessera di un puzzle da ricostruire. Non ho ancora capito molto, chi mi ha ucciso, dove e quando finirà tutto, dove andrò a finire. E poi non ho ancora saputo niente di lei, e non l’ho ancora vista. Devo farmi coraggio, però. Su. Devo andare da lei. Ora. La devo prendere, le devo dire che sono tornato. Devo sparare la mia ultima cartuccia. E magari me la porto via, come fa un fantasma che sa il fatto suo. Ora o mai più. Improvvisamente mi accorgo che Lucilla, vestita da sera e quasi bella, sta venendo verso di me, con un sorriso strano stampato sulla faccia. Incredibile. In testa ha la parrucca fucsia. Non riesco a capire dove possa averla trovata. No. Togliti quella parrucca. Scappa, Luci! Dopo che quella sera Lucilla era sparita con i due amici ai Murazzi, camminavo
come un cane sciancato sul lato buio del lungofiume. Mi lasciavo alle spalle una vecchia canzone che diceva in una cantilena: “Guida ragazzo il cane ragazzo ragazzo angelo sporco e intorpidito all’entrata ragazzo, lei era un rossetto ragazzo era bella ragazzo e lacrime ragazzo e tutto nel tuo inconscio ragazzo avevi le mani e la ragazza ragazzo e acciaio ragazzo avevi le chimiche ragazzo sono cresciuto sempre vicino a te ragazzo ti ha detto vieni vieni e ti ha sorriso ragazzo”. Bella. Ma mi confondeva le idee. Perché Luci non mi aveva detto dove potevo trovare Valentina? Perché aveva avuto paura di dirmi la verità? Che cosa stava succedendo? Mi promisi di non usare più la drink card, se non al momento giusto, altrimenti avrei rischiato di trovarmi qualche anno dopo, quando non ci sarebbe più stato niente da fare. Sarei caduto ancora una volta nel buco nero che mangia gli anni di questa mia strana non-esistenza. E avevo solo una possibilità che non potevo permettermi di buttare al vento. Lucilla si sarebbe risvegliata con un bel mal di testa, avrebbe pensato che alcuni suoi ricordi, mannaggia, facevano proprio fatica a scolorire, come macchie di rossetto che lasciano il segno sul cuscino. Poi avrebbe preso un Aulin o un Moment e le sarebbe ato tutto. Nel frattempo camminavo. Un o dopo l’altro. Mi allontanavo. Stava finendo l’effetto della consumazione, del penultimo buco sulla drink card. La musica si spegneva in sottofondo. I lampioni dei Murazzi erano a distanza fissa, mi accompagnavano con la loro luce livida mentre eggiavo verso il ponte più lontano. Anche i lampioni seguivano il ritmo della musica che si spegneva alle mie spalle. Mi chiedevo che cosa avrei potuto fare. Mi sedetti su una panchina. Lasciai che la notte scolorisse, si trasformasse come sempre nell’alba, prima spenta come la cenere, alla fine improvvisamente illuminata di luce severa verso chi, come me, aveva abusato di lei lavandola con la candeggina. E sì. Quella conversazione con Luci mi era costata almeno due o tre anni di tempo. Come minimo. Incredibilmente mi accorsi che la temperatura
del giorno era calda, caldissima, come non lo era stata per mesi. Era estate piena. Dovevo continuare a indagare. Dovevo continuare a cercare Valentina. Alle nove del mattino andai dove abitava Lucilla. Per fortuna non aveva cambiato casa. Già quando avevamo diciotto anni viveva da sola. I genitori, separati, le avano un assegno ogni mese. Già all’epoca quell’appartamento era un porto di mare. Salii le scale. La porta era socchiusa. L’appartamento era piccolo. Specchi da tutte le parti. Un reggiseno per terra. Una bottiglia di Lancers vuota. Una scatola di preservativi. Stagnole di preservativi sparse. Poster di René Magritte alle pareti. Piatti e calici sporchi di vino. Il frigorifero cosparso di calamite souvenir di città di tutto il mondo. Un post-it appiccicato sul tavolo con scritto: alla prossima, Regina della Notte, quando vuoi chiamaci e veniamo anche in tre. E due scarabocchi sotto. Evidentemente con il tempo non era cambiata molto. A una parete c’era un quadro di fotografie. Mi fermai a guardarlo. In una c’ero anch’io. Giovane, capelli biondi e maglietta di Bob Marley. In un’altra c’erano Valentina, Lucilla e Achille, seduti su un guard rail. Era la foto che avevo scattato quando stavamo andando a Gressoney, dopo che la valigia di Lucilla era volata fuori dalla macchina. Sorrisi. Cercai per il momento di lasciar stare i ricordi. A un certo punto, però, dovetti ricascarci dentro. Un gatto. Grande. Grigio, quasi argento, si avvicinava. Aveva una macchia bianca sotto il muso. Arrivò lentamente sotto i miei piedi, si strusciò contro le caviglie.
“Nicotina!” Non potevo sbagliarmi. Ed evidentemente anche la gatta mi aveva riconosciuto, nonostante fossero ati tanti anni e nel frattempo fossi diventato un fantasma. È proprio vero, allora, che i gatti vedono i fantasmi. Non è una leggenda metropolitana. Mi chinai. “Sono contento di rivederti.” Lei mi rispose con un: “Miao”. “Cosa c’è, Nicotina? Perché non mi lasci dormire?” disse una voce roca proveniente dalla camera. Lucilla era a letto, nella stanza accanto. Era da sola, nuda con le sue abbondanti forme sotto lenzuola disordinate, bianche come quelle degli hotel. Quando entrai, sicuro che non mi vedesse, lei si girò. Aprì gli occhi. Merda, pensai. Si è svegliata. Mi ha visto. Forse la consumazione, l’ultimo buco della drink card, non aveva ancora esaurito il suo effetto. Ma lei si girò dall’altra parte. Non mi aveva visto. Peccato. Non sarei riuscito a parlare. Avrei dovuto cercare qualche traccia di Valentina in un altro modo. Dovevo scoprire quello che Lucilla non aveva avuto il coraggio di dirmi. Dovevo trovare il nome di Valentina scritto da qualche parte. Qualche indizio, qualsiasi cosa che mi aiutasse a capire dove fosse. Iniziai a frugare nei cassetti della scrivania davanti al letto. Uno alla volta. Trovai una rubrica del telefono. La sfogliai. Il nome di Valentina non c’era. Strano. Magari Lucilla lo conosceva a memoria. Poi guardai sul comodino, nei cassetti. Carte, cartacce, cartoline. Biglietti di auguri, bollette, ritagli di giornale. Frugai dappertutto. Niente di interessante.
Tornai nella stanza all’ingresso. Di fianco alla porta c’era un pannello di sughero con biglietti e fogli attaccati con puntine. C’era una partecipazione di un matrimonio. primo settembre 2002, c’era scritto. v. valdieri e p. marchesini annunciano con gioia il loro matrimonio. Accanto c’era una cartolina di Praga. La voltai. 25 dicembre 1992. luci. mi manchi. ma sto per tornare. se non vieni tu, vengo io. buon natale. Firmato: valentina. Vicino c’era un calendario, uno di quelli a cui si staccano le pagine. 29 agosto 2002. Mancano solo tre giorni al matrimonio. Accidenti. Mi sedetti sul divano. Valentina si sposa? Si sposa con P. Marchesini. Ma chi diavolo è P. Marchesini? Sono arrivato troppo tardi. E dire che ce la stavo per fare. Dopo tutto il tempo trascorso, la noia, l’attesa. Forse potevo ancora fare qualcosa. Forse potevo farlo saltare, quel maledetto matrimonio. Mi guardai intorno. Dovevo trovare Valentina, bruciare la mia ultima consumazione per convincerla a tornare con me. Nicotina mi guardava come per dirmi: “Che fine hai fatto, dove sei finito mentre io diventavo grande e ora sono una signora ormai anziana?” Eh. Bella domanda. La gatta si rannicchiò sulle mie ginocchia sul divano. Se Lucilla si fosse affacciata avrebbe visto Nicotina sospesa nel vuoto su un divano. Forse si sarebbe stropicciata gli occhi e si sarebbe chiesta se la sera prima qualcuno le
avesse messo qualcosa nel bicchiere. Mi alzai. Cercai ancora da tutte le parti se ci fosse un indirizzo, un numero di telefono, qualsiasi cosa che potesse aiutarmi a trovarla. Niente. Niente di niente. Non potevo fare altro che aspettare un paio di giorni e andare al matrimonio. Lì certamente l’avrei rivista. Nel frattempo sarei rimasto a casa di Lucilla. Tanto lei non si sarebbe accorta di me. Così feci. Stavo la maggior parte del tempo seduto sul divano, a guardare la televisione spenta o accesa, mentre lei stirava, leggeva, beveva birra o vino, mangiava cibi dietetici e patatine. Ogni tanto le facevo sparire qualcosa per vederla cercare in tutta la casa. Si alzava con le campane di mezzogiorno. Cancellava le tracce del cuscino dal volto, si guardava allo specchio e mascherava le prime rughe intorno agli occhi. Fischiettava mentre si faceva il primo caffè, si guardava intorno e si accorgeva che era di nuovo da sola, e tornava a essere silenziosa come sempre. Il giorno prima del matrimonio squillò il telefono. “Pronto?” Un attimo di silenzio. Una voce femminile sullo sfondo. “Ciao! Quanto tempo è ato,” disse Luci. Rimasi di ghiaccio. “Come stai? Sei pronta per il gran momento?” Silenzio. Stava parlando con lei? “Io bene. Cioè, niente di nuovo. Tu invece, il matrimonio…” Era lei. “Sì. Confermo. Scusami se non te l’ho detto prima. Sono sola, sì. Nessun accompagnatore. Magari lo trovo lì, cosa dici? …Allora ci vediamo, stai
tranquilla, eh, non ti emozionare troppo! Ciao!” Stava per attaccare. Già finito? Che strano. La telefonata era stata infatti assai breve, nonostante una volta fossero così amiche. Non capivo. Magari nel frattempo era successo qualcosa. Cosa ne potevo sapere io che ero stato da tutt’altra parte? Magari le loro vite avevano preso direzioni diverse, magari avevano litigato e l’amicizia si era consumata. Forse era per quello che non c’era da nessuna parte l’indirizzo di Valentina. Pensai di prendere in mano la drink card, un attimo prima che chiudesse la comunicazione. Di comparire all’istante, di strappare di mano a Lucilla il telefono e gridare: “Sono io, sono io, Tommy, amore mio, sono tornato!” Non lo feci. Non ne ebbi il tempo. Aveva già attaccato. Ora la notte è fonda. Ci sono raggi di luce colorata che si diffondono da tutte le parti. Lucilla viene verso di me. Non mi vede. Il suo volto è rigato di lacrime. Il trucco è colato via. Dietro di lei c’è la mamma di Valentina. “Lucilla!” dice. “Aspetta!” Si avvicina a lei. L’abbraccia. Lucilla ricambia l’abbraccio, appoggia la testa sulla spalla della signora. “Non fare così, dai, non fare così. Cerca di divertirti, di stare bene.” “Mi manca, sa? Mi manca sempre. Grazie, signora. Lei è sempre stata gentile con tutti noi.” “Eravate un bel gruppo, voi quattro. Ma bisogna pensare al futuro, no, bambina?” “Non sono più una bambina, signora. E ormai il nostro gruppo non c’è più, sono rimasta sola.” Le due rimangono ancora qualche secondo in silenzio. Poi Lucilla si allontana, con la parrucca fucsia in mano. “Vado a fare due i, signora, lei ritorni alla festa.” Indossa la parrucca e si dirige verso il bosco.
XXXI
L’ultimo ballo
Fu una mattina di inverno del 2001, un anonimo Natale, quando erano ati tanti anni dalla morte di Tommy, che Achille trovò la soluzione. Faceva molto freddo. Nella piccola cella, dove in quel momento si trovava da solo, filtrava poca luce e l’aria era viziata. Non riusciva a darsi pace. Si chiedeva in continuazione che cosa avrebbe fatto al suo posto Tommaso. La risposta era sempre la stessa. Lui penserebbe che la libertà non ha prezzo e che una vita del genere non potrebbe avere senso. Meglio bruciare in un attimo che spegnersi lentamente, ripeteva. Gli capitava spesso di immaginare di parlare con il suo vecchio amico. Tu cosa faresti? Faresti vedere a tutti che uno come te non lo possono rinchiudere? Parlava con Tommaso nella sua mente, anche perché non aveva nessun altro con cui confidarsi. Lucilla qualche volta era andata a trovarlo in carcere. Era l’unica che ogni tanto si ricordava di lui. Lui le aveva scritto qualche lettera. Le aveva ripetuto che avrebbe dovuto credergli. Perché era innocente. Non aveva fatto niente. Glielo ripeteva ogni volta che la vedeva. E lei rispondeva: “Non ti preoccupare, sì, sì. Ti credo, certo che ti credo, sì, sì, stai tranquillo”. Come si dice ai pazzi, oppure alla gente che in vita ha detto troppe bugie per essere credibile. I suoi parenti, dal canto loro, avevano altro a cui pensare. I genitori non avevano battuto ciglio, erano in una città lontana e pensavano che avere un figlio in carcere, visti i precedenti degli altri due fratelli, non fosse tutto sommato una
gran novità. I nonni avevano chiuso il negozio per i debiti che aveva accumulato quel loro nipote. Doveva cavarsela da solo. Almeno poi, in prigione, c’era qualcuno che gli dava da mangiare. E poi Achille non meritava molta attenzione. Perché per tutti quanti aveva ammazzato il suo amico. L’avvocato, incassata la parcella, non aveva fatto altro che lisciare l’abito consumato di velluto, uno di quelli a buon mercato, aggiustare il papillon e ripetere, come un giocattolo per bambini: “La pena è mite, venti anni ano in fretta e meno male che non le hanno dato le aggravanti. Meglio di così non poteva andare”. Chissà a quanti altri aveva detto la stessa cosa. Peccato che io non abbia fatto proprio un bel niente. Neanche tu, avvocato spatentato, mi hai mai creduto. E non c’era nessuno, neanche dietro le sbarre, che potesse tirargli su il morale, sostenerlo mentre il tempo ava in formalina. Non c’era nessun modo, quindi, per salvare la sua giovinezza. Così nella cella, dove l’aria era presto satura e l’ossigeno rarefatto, un’idea malsana che attraversava da tempo la mente di Achille, sempre con maggiore frequenza, la mattina del terzo anniversario della morte di Tommaso, ebbe il sopravvento e divenne padrona del suo destino. Se almeno lui, il mio amico, mi venisse a trovare, se potessi vederlo anche solo per qualche minuto… Potrei avere la certezza che lo sa che non sono stato io ad ammazzarlo. Se lo potessi vedere, potrei anche sopportare di aspettare vent’anni qui dentro, e poi uscire, cercare tutti quanti, i miei, Lucilla, l’avvocato, e urlare in faccia a tutti loro: non sono stato io, chiedetelo a tommy! Impossibile. Tommy non c’è più. Non posso vederlo, se non forse in un’altra vita. C’era un’unica soluzione. Era l’alba.
Un pezzo di lenzuolo poteva anche sembrare una cravatta. Lo appese a un gancio del soffitto e rimase solo qualche minuto a guardarlo, attonito, consapevole, quasi sollevato, come se avesse visto una porta aperta che per miracolo lo avrebbe fatto uscire dalle Nuove. Salì su una sedia. Arrivo, amico mio. Mi dirai che solo io ho ragione, che non sono stato io. Poi si lasciò andare. In quegli istanti gli venne in mente la poesia che la maledetta professoressa di se aveva cercato di fargli studiare a memoria in lingua madre. Parlava di un condannato a morte che si rivolgeva agli esseri umani prima di essere appeso come un calzino. Ma forse la poesia non diceva proprio così.
XXXII
La consegna delle bomboniere
La festa è agli sgoccioli. Alcuni pinguini con le loro donne stanno abbandonando la scena. Le donne barcollano sui tacchi che rimangono incastrati tra i cubetti di porfido del pavimento. È pazzesca la somiglianza della camminata delle donne sui loro trampoli con quella dei brontosauri, o perlomeno a come la fanno vedere nei documentari. Forse l’esigenza di mostrare lo splendore all’epoca della preistoria è rimasta nel dna delle signore contemporanee, penso. Lucilla a davanti a me e tira dritto verso la collina con la parrucca fucsia in testa. Non mi ha visto. Improvvisamente esce la sposa, con lui. Salutano uno a uno gli ospiti e lasciano a ciascuno la bomboniera, un bruttissimo centro tavola a forma di angelo.
Gli sposi sono ora a due metri da me. La vedo in faccia. Avvicino la mano alla drink card. Sto per prenderla in mano. Mi accorgo però che Valentina non è Valentina. E rimango di sasso. La sposa è la sorella gemella. È Vittoria. Non è Valentina. Non è possibile. Non ci posso credere. Ma sono sicuro. Sento un sussurro all’orecchio. È Achille. “Hai visto, lei si è sposata. Almeno lei si è sposata. L’unica. Noi quattro, io, te, poi Valentina… e figuriamoci quella pazza di Lucilla. Nessuno di noi quattro si è sposato. L’abbiamo fatta franca.” Non riesco a darmi una spiegazione. Dubbi. Incertezza dopo incertezza. È la sorella gemella. Le iniziali sulla partecipazione erano le stesse: v.v., Valentina come Vittoria. Due gocce d’acqua, ancora più simili dopo dieci anni, nell’immaginazione. Una schiena. Un volto. Un vestito da sposa. Un’immagine da lontano, non ho visto niente di più. Ma come ho fatto a sbagliare? Non capisco. Provo sensazioni che mi pungono come spilli, come quando ci si rende conto di aver fatto un grande sbaglio. Ma ecco. Provo anche una sensazione di sollievo. Allora Valentina non si è sposata. Non riesco a dire niente. Dentro di me sale una sensazione di rabbia. Dalle viscere al cervello. Non sto nella pelle.
Nel frattempo sento che il dj sta suonando Perfect Day di Lou Reed. È sicuramente la canzone con cui chiuderà la serata. “Cosa diavolo ci facciamo qui, Achille, al matrimonio di Vittoria? Me lo vuoi spiegare? E Valentina dov’è? Che fine ha fatto?” Lo prendo per il colletto. La cravatta è slacciata. Achille mi guarda, un po’ impaurito. “Scusa,” balbetta. “Ma io sono pazzo. Sono malato. Non riesco a spiegarmi.” Lo lascio. “Provaci, provaci. Il tempo è finito.” “Forse… forse…” inizia a dire. “Ora dimmi quello che sai. Tutto!” “Forse una sera, prima che… morissi, Lucilla mi è venuta a trovare in carcere. Ero nel pallone. Ma mi ricordo che mi aveva detto che aveva incontrato Vittoria. ‘Senti Lucilla,’ le aveva detto, ‘se tu e qualcuno dei suoi vecchi amici veniste al mio matrimonio, mi farebbe piacere, perché non ci fai un pensierino? Per me sarebbe per certi versi come avere anche lei… mia sorella’. Ma io ero dentro, non mi avrebbero lasciato uscire. Poi mi sono impiccato.” Dio mio. “Ma perché, Achille?” Mi guarda senza rispondere. Alza le spalle. Ora capisco perché mi vede. Anche lui è un fantasma. Certo, avrei potuto capirlo prima. “E che cosa è successo a Valentina?” Ora ho la drink card in mano. Senza pensarci due volte. L’ho presa. “Ora basta. Andiamo da lei. Oppure dai suoi genitori.” “Cosa fai?” mi dice Achille. “Perché ti fai vedere?” Mi accorgo che intorno a me ci sono pinguini e ancelle che mi guardano stupiti.
Anche Vittoria mi sta guardando, con la bocca spalancata. Certo, vede un fantasma. Achille sta guardando fisso nel vuoto. “Ascolta, amico mio,” dico quando riesco a ritrovare un filo di voce. “Devo sapere solo un’ultima cosa.” “Ti ascolto.” “Tu eri lì. O almeno da quelle parti quando sono morto. Mi hai detto che sei arrivato troppo tardi, quando ero già caduto.” “Lo sapevo che me lo avresti chiesto.” “Che ora era, quando sei arrivato?” “Diciotto e ventuno.” Bugiardo, penso. “Chi, chi è che mi ha spinto giù?” “Sono sicuro che è stato un fantasma. Sì. Un fantasma. Ti ha ucciso un fantasma. Adesso ci credi, ai fantasmi?” Non importa. Con la coda dell’occhio mi accorgo che Lucilla sta scomparendo tra gli alberi con indosso la parrucca. Le note di Perfect Day si stanno spegnendo. La devo raggiungere. Le devo dire di scappare. E forse mi darà finalmente le risposte che cerco.
XXXIII
Quando la Luna diventa di miele
Non è Valentina. Non è Valentina. Un senso di leggerezza, ma allo stesso tempo di smarrimento, per l’ennesima volta, mi attraversa le ossa. Mi sento suonato come un gong. Achille e io ci facciamo strada tra i cespugli, mani che ci vorrebbero graffiare e farci male. Ma non sanno che siamo due fantasmi e non riescono a fare altro che accarezzarci. Si apre una piccola radura. Sopra di noi la Luna splende nel cielo, gigantesca come una palla da golf color limone. Achille mi segue a pochi i. Davanti a me c’è Lucilla che cammina a piedi nudi con la parrucca fucsia in testa. Ecco. Manca solo Valentina. A un certo punto Lucilla si gira nella mia direzione. Mi vede. Già. Ho la drink card in mano, per l’ultima consumazione. “Luci,” dico. “Togliti quella parrucca.” Lei mi guarda spaventata, come se avesse visto un fantasma. “Tommy. Tu, di nuovo…” Mi avvicino. Gliela tolgo dalla testa. La butto più lontano che posso, in mezzo agli alberi. “No! Cosa fai?” grida lei. “Fidati di me. Ti prego.” L’abbraccio. Sente il mio calore. Si tranquillizza. Anche se trema ancora come una foglia.
Forse l’amore finisce, penso. Chissà poi che cosa è successo a Valentina, dopo quel Natale del 1992. Magari ha saputo del mio volo dal cornicione. La malinconia l’ha travolta, ha pensato a me. Sì, sì, di sicuro ha pensato a me. Ma poi? Un ricordo, una maglietta si stinge dopo mille lavaggi. Sì, sì, è sempre lei, però il colore mano a mano non è più , il tempo a come candeggina. Anno dopo anno e il mondo le è ato intorno. Prima come una giostra ripetitiva, poi come qualcosa di interessante. Avrà visto qualcuno. E poi un altro. E qualcun altro. E magari si sarà anche innamorata, mentre i ricordi nel frattempo sono diventati ricordi e basta. Quindi? Mi viene in mente una canzone di cui ho imparato gli accordi, una di quelle più tristi. Diceva che lei poteva aver avuto degli amanti, perché bisogna pur are il tempo, bisogna pur che il corpo esulti, ma c’è voluto del talento, per riuscire a invecchiare senza diventare adulti. Eh. Quanto talento potrebbe aver avuto Valentina? Io nessuno. Solo un salto, una caduta incosciente. Niente, nel frattempo, per far esultare il mio corpo. Quindi, che cosa ci faccio qui, visto che potrebbe essere successo di tutto, negli ultimi dieci anni? Si ricorderà di me? Questo di sicuro. E poi cos’altro? Di sicuro in dieci anni di vita mi ha dimenticato, o comunque le è ata, quella malattia che le faceva battere forte il cuore. Ne sono certo. Mi stacco da Lucilla, che mi guarda piangendo. Mi accorgo che Achille la sta abbracciando. “Ehi, Luci,” esclamo, “anche Achille ora è con noi.”
“Un altro fantasma?” “Sì, manca solo Valentina. Dov’è?” Non mi risponde. “Dimmi, Luci. Dove si trova? Non mi dire che ormai è troppo tardi. L’hai mai sentita quella canzone di Brassens, quella che parla dei vecchi amanti?” “Che cosa stai dicendo, Tommy?” sussurra. “Dieci anni. Tanto tempo. Io sono rimasto laggiù, Valentina li ha vissuti tutti, dal primo all’ultimo.” Achille mi guarda con aria perplessa. “Valentina? Stai parlando di Valentina?” “E di chi dovrei parlare?” Mi sale la rabbia. Sta diventando una miscela esplosiva, un mix tra frustrazione di essere arrivato troppo tardi, senso di insicurezza della mia condizione, voglia di recuperare il tempo che non tornerà mai, sospetto che sarebbe meglio sparire per non fare danni. Un bel cocktail. Achille sta ascoltando. Ha gli occhi sbarrati. “Valentina… Allora non sai,” aggiunge Lucilla, che ora è tranquilla. “Cosa?” “Quello che è successo, dopo quel maledetto Natale del 1992.” “No. È giunto però il momento che me lo spieghiate. Tu e Achille.” “Vale era partita da Praga per venire al tuo funerale. Autostop. Non aveva i soldi per il treno. Aveva trovato una coppia di milanesi che stavano tornando in Italia, alla fine del loro viaggio di nozze. Durante una sosta in autogrill era riuscita a chiamarmi. Mi aveva detto che suo padre un giorno avrebbe capito perché era scappata, che non sarebbe potuta mancare. L’incidente è successo sull’autostrada del Brennero. Una tragedia, molto rapida, se non altro. Tutti e tre morti sul colpo. Valentina e la coppia. Il tuo funerale doveva ancora iniziare, ma Vale
aveva fatto più in fretta di tutti noi per cercare di rivederti. Ecco.” Mi stacco da loro. Mi guardano. È stato tutto inutile. “Ora però, visto che noi ci siamo, e siamo i vostri testimoni, potresti anche girarti per vedere arrivare la sposa,” sussurra Lucilla accennando con la testa alle mie spalle. “Noi,” aggiunge indicando nel vuoto, nella direzione di Achille, “andiamo a fare un giro.” Valentina, vestita da sposa, esattamente come quella sera alla festa, viene verso me con un mazzo di fiori di plastica, come quelli ornamentali da soggiorno dei genitori, e un sorriso dipinto sul volto. È bellissima. È uguale al giorno della festa, non una ruga, non un segno del tempo che dovrebbe essere ato anche per lei. È esattamente come allora. Valentina e io improvvisamente ci stiamo di nuovo guardando negli occhi. Siamo due scintille di vita. Chissà per quanto, quanto tempo ancora? Quanto durerà? Ci sposiamo, qui, ora? Scappiamo, noi due? Andiamo in viaggio di nozze ad Atlantide, sotto il mare? Ma non importa, ora non ci dobbiamo pensare. Ci siamo ritrovati. Non ci siamo mai persi. Mi accorgo che la Luna sta diventando di miele. Si scioglie nel cielo, le immagini perdono i colori, i contorni si sfumano, il tempo ci mangia. Ogni secondo che a.
XXXIV
La prima notte di nozze
Mi cammina sui piedi. Apro gli occhi. Nicotina, la gattina grigia argento di due mesi. Su una sedia, di fianco al letto, c’è un vestito da sposa. Sul comodino c’è una drink card. Cinque buchi di consumazioni. La carta è esaurita. Che strano, una drink card non esce mai da un locale. Sul pavimento i miei vestiti da Blues Brothers e le solite All Star rosse. Lo Swatch scandisce i secondi e dice che sono le dieci e mezza. Tic, tic, tac. Ho sognato. Uno di quei sogni, o incubi, che sembrano veri, dove succede di tutto. C’è De Gregori che canta Rimmel in sottofondo e dice che “qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure”. Ah. Ho lasciato lo stereo . Una cassetta con trenta canzoni di sco, play con l’autoreverse. Chissà quante volte ha suonato il lato a e il lato b. La luce filtra dalle finestre. Mi giro dall’altra parte del letto. Valentina è sveglia. Mi sta guardando con i suoi grandi occhi azzurri e mi sorride. Sono felice, oggi mi sento vivo come non lo sono stato mai.
In memoria di Nicola Calvi.
Marco Gagliardi vive a Torino, dove è nato nel 1974. Avvocato civilista, collabora con l’associazione Movimento Consumatori e prima di iscriversi a Giurisprudenza si è diplomato al Liceo Classico “V. Gioberti”. Sono stati pubblicati suoi racconti su giornali e riviste letterarie (“L’Informazione di Parma”, “Vernice”, “Il Laboratorio del Segnalibro”, “Osservatorio Letterario”, “Il Convivio”) e ha ricevuto alcuni premi in concorsi letterari. La Luna diventa di miele, terzo classificato alla seconda edizione del Premio Letterario “Streghe Vampiri & Co.” (Giovane Holden Edizioni), è il suo primo romanzo edito.