Portaerei Italia
Sessant’anni di NATO nel nostro Paese
di
Fabrizio Di Ernesto
Pubblicato da Fuoco Edizioni in Smashwords
* * * * *
Copyright Fuoco Edizioni – http://www.fuoco-edizioni.it
1^ Edizione ebook Giugno 2013
Ogni riferimento a persone o fatti reali è dettato da coincidenza casuale o pura licenza artistica.
Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di tornare a Smashwords.com e acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo editore.
Indice
Prefazione
Introduzione
Capitolo 1 - Le 113 basi, panorama e considerazioni strategiche sulla loro dislocazione
Le installazioni principali
Aviano
Camp Ederle
Camp Darby e Livorno
Capo Teulada
San Bartolomeo
Sigonella
Le altre basi
Il Nord-Ovest
Il Nord-Est
Il Centro
Il Sud
Le Isole
Le basi dismesse, o presunte tali
Capitolo 2 - L’Italia e il fantasma nucleare
L’Ascia di pietra e le atomiche USA
Ghedi, Aviano e il segreto di Pulcinella
Le reazioni della popolazione civile
Capitolo 3 - Vicenza e la base della discordia, cronologia di una protesta di popolo
Cambia il governo, ma non il vento
I titoli di coda e le polemiche infinite
Capitolo 4 - In Sicilia la regia del grande fratello bellico
Sigonella ed il sistema AGS
Guerra e affari all’ombra dell’AGS
Niscemi ed il MUOS
Le proteste popolari
Bibliografia
Autore
A Maria Giovanna, che mi ha sempre spinto a credere in me
Prefazione
Torna all’indice
Quello delle servitù militari, ovvero la presenza di basi straniere sul territorio di una nazione teoricamente sovrana e indipendente, è un problema che negli ultimi decenni è sempre più sentito in Italia, oltre che tragicamente attuale, se pensiamo che per l’Operazione Odyssey Dawn (poi evoluta in Unified Protector a guida NATO) per il “rispetto” della no fly zone e per la protezione dei civili in base alla Risoluzione 1973 (2011) sulla Libia, approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 17 marzo 2011, Roma ha permesso, proprio in virtù di un’alleanza militare, l’utilizzo della base aerea di Gioia del Colle in Puglia ai dieci Typhoon ed ai dodici Tornado della RAF inglese impiegati in quella che sembra essere una crisi più dettata dagli interessi petroliferi, e non solo, da parte di Francia e Gran Bretagna, che da fattori interni al Paese nordafricano.
Dopo la rovinosa sconfitta patita dal nostro Paese nella Seconda Guerra Mondiale, gli USA, in particolare, hanno disseminato lo Stivale di siti bellici sui quali, ancora oggi, in buona parte, sventola la bandiera a stelle e strisce oppure quella della NATO, l’accordo militare di mutua assistenza in cui l’Italia fu inserita, nel 1949, per fronteggiare, ai tempi della Guerra Fredda, la minaccia proveniente dal Blocco sovietico.
Nel clima di muro contro muro che si registrava all’epoca, il nostro Paese, così come tutti quelli posti sulla linea di demarcazione tra mondo liberista e mondo comunista, divenne il punto di arrivo di armi sempre all’avanguardia, soldati armati di tutto punto e sofisticati radar in grado di intercettare e captare ciò che avveniva al di là della Cortina di Ferro; tutto questo nelle intenzioni di Washington era fatto con lo scopo di proteggere l’Italia da minacce sia esterne, sia interne.
Allora, nonostante i gravosi impegni, molti oneri e pochi onori, che l’Italia si andava ad assumere, i dettagli degli accordi tra Roma e Washington furono a conoscenza solo di pochi eletti, tanto che, ancora oggi, la popolazione non sa perché, ad oltre sessant’anni dalla fine del Conflitto mondiale, militari ed armi statunitensi continuino ad arrivare nei nostri confini, specie considerando che il mondo che aveva portato a quegli accordi ora esiste solamente sui libri di storia e la realtà è profondamente mutata.
Questa ingombrante presenza, nel corso degli anni, ha anche messo a repentaglio direttamente la nostra sicurezza, dato che in alcune basi militari statunitensi situate nel nostro Paese, furono depositati anche degli ordigni atomici molto più potenti di quelli che devastarono Hiroshima e Nagasaki; inoltre, in alcune occasioni, gli specialisti dell’US Army hanno dovuto realizzare delle pratiche al limite degli standard di sicurezza per evitare che armi custodite in bunker non più sufficientemente sicuri deflagrassero, causando non pochi problemi e non solo di ordine pubblico.
In questo saggio l’autore ha compiuto un lavoro laborioso analizzando la Penisola da nord a sud, e cercando di elencare per filo e per segno i tanti, probabilmente troppi, siti che vengono utilizzati oggi dalle truppe americane, sia con regole proprie, sia sottostando al protocollo della NATO che spesso riesce a fornire ai soldati una maggiore libertà di movimento con un numero maggiore di tutele legali.
Nel saggio si è cercato di indicare, pur nel mistero che li avvolge, quale, nelle oltre cento basi militari americane in Italia, tra i vari corpi militari USA vi sia stanziato e quale tipo di armamenti vi sia alloggiato, sia esso composto da sofisticati aerei o potenti missili sempre più intelligenti, sia da semplice materiale logistico, dando menzione anche dei tanti radar di cui la nostra Nazione è cosparsa e con i quali il Pentagono cerca di portare avanti senza sosta la sua “lotta globale al terrorismo” monitorando a 360 gradi il Mediterraneo, ma anche i Paesi europei ed africani, verso i quali questi orecchi indiscreti riescono
ad arrivare.
Ampio spazio è stato dato, in particolare, alle basi principali, ad esempio: Aviano, Sigonella e Camp Darby, che hanno avuto una trattazione particolareggiata e ricca di notizie spesso taciute all’opinione pubblica, installazioni che però, mostrano bene non solo la scarsa considerazione della Casa Bianca per il nostro Paese, trattato quasi come un grande deposito di armi a cielo aperto, ma anche i rapporti spesso difficili con la popolazione locale, che nel corso degli anni ha più volte manifestato il proprio malumore verso la questione delle servitù militari ed il modo in cui queste vengono anche gestite dalle nostre istituzioni governative.
Un apposito capitolo è stato dedicato agli ordigni nucleari custoditi in Italia, una presenza che i vertici dello Stato non hanno mai confermato, ma che trova riscontro in vari documenti pubblicati dalla stessa Difesa americana, con l’unico dubbio legato ormai solamente al numero di ordigni realmente presente, visto che viene praticamente dato per scontato ed assodato che questi si trovino nella base di Aviano, nei pressi di Pordenone, ed in quella di Ghedi Torre, nel bresciano, ma che nel ato sono stati custoditi anche nell’aeroporto di Rimini.
In un intero capitolo viene poi narrata, con taglio fortemente giornalistico, la vicenda relativa alla Caserma Carlo Ederle di Vicenza, la base dove l’Amministrazione USA ha deciso di spostare i militari attualmente impegnati nel sito di Ramstein in Germania, dato che il governo di Berlino sta cercando di rivedere il proprio rapporto con la Casa Bianca volgendo sempre più lo sguardo verso Mosca con cui ha in ballo importanti interessi geopolitici che riguardano soprattutto tematiche energetiche. Per trovare posto ai nuovi inquilini il governo americano ha deciso di raddoppiare l’estensione del presidio italiano, assecondato nel progetto dai vari governi che si sono alternati a
Palazzo Chigi tra il 2005 ed il 2010, ma entrando in rotta di collisione con i vicentini che invece hanno cercato in tutti i modi di opporsi a questo
allargamento, arrivando perfino a cullare il sogno di una grande consultazione popolare sull’argomento. Ampio spazio e risalto è poi stato dato al nuovo ruolo che la Difesa statunitense ha deciso di ritagliare intorno alla Sicilia. Nella lotta al terrorismo planetario ed in un’ottica di controllo sempre più globale, la maggiore Isola del Mediterraneo appare infatti destinata a diventare una sorta di cabina di regia del nuovo grande fratello bellico ad uso e consumo di Washington e della NATO. Tramite gli avveniristici sistemi di intercettazione aerea e radar AGS e MUOS, in un prossimo futuro i collegamenti tra le truppe USA impegnate in ogni dove dovrebbero essere garantiti e nulla dovrebbe più sfuggire al controllo preventivo esercitato dagli americani, il tutto in attesa che il progetto relativo allo Scudo Spaziale i dalla fase embrionale ad una più concreta. Sempre in questo capitolo trovano spazio anche la protesta dei cittadini contro le potentissime e potenzialmente nocive onde radio emanate da questi radar ed anche alcuni risvolti affaristici legati alle imprese che si sono aggiudicate gli appalti per realizzare queste nuove strutture. Il volume ha anche una valenza storica; analizzando, infatti, i vari trattati che si sono susseguiti per rendere queste basi funzionali agli interessi geopolitici degli USA si riesce infatti a capire come l’importanza dell’Italia, grazie al suo posizionamento nel cuore del Mediterraneo, si sia non solo mantenuta stabile, ma sia addirittura cresciuta dopo che la zona di tensione si è spostata dal fronte europeo a quello mediorientale. Portaerei Italia, che in questa ultima edizione è stato aggiornato con ulteriori dati e vicende, rappresenta il resoconto dettagliato, quindi, di un rapporto impari tra il nostro Paese e quello che è il suo principale partner politico che spadroneggia sul nostro territorio, incurante e spesso ostile ai voleri di noi cittadini.
L’Editore
Introduzione
Torna all’indice
L’esito della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, determinò la divisione del Mondo in due blocchi contrapposti: da una parte gli Stati Uniti e l’Europa Occidentale; dall’altra l’URSS ed i suoi Paesi satelliti dell’Europa Orientale. Tale situazione determinò non solo una corsa sfrenata agli armamenti da parte delle due Superpotenze, ma anche la creazione di due distinte reti di mutua assistenza in cui furono inserite, ob torto collo, anche le nazioni comprese nelle relative zone d’influenza. I primi a dar vita ad una alleanza militare furono gli statunitensi che a Washington, il 4 aprile 1949, crearono la NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico; la sfera comunista replicò sei anni più tardi realizzando il Patto di Amicizia, Cooperazione e Mutua Assistenza, in Occidente più semplicemente noto come Patto di Varsavia. Ufficialmente, entrambe le alleanze erano sorte per difendersi dai nemici, l’Articolo 5 dello statuto della NATO, ad esempio, recita: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, sia in Europa sia nel Nord America, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area nord atlantica”. Ciò ovviamente presupponeva tutto un sistema di protezione armata fondato non solo su una massiccia presenza di militari pronti ad intervenire contro qualsiasi minaccia proveniente da Est, ma anche una struttura clandestina Stay-behind, in Italia denominata Gladio, che si prevedeva entrasse in funzione in caso di invasione. Soprattutto, però, tutta questa organizzazione difensiva necessitava di una serie di presidi militari dove alloggiare uomini e mezzi di ogni tipo. Durante la Guerra Fredda, per via della loro collocazione geografica, le nazioni che videro sorgere sul loro suolo il maggior numero di basi NATO furono la Germania Occidentale e l’Italia.
A tutt’oggi, all’interno dei nostri confini, si trovano più di 110 basi militari sotto la giurisdizione USA e NATO, spesso, però, la differenza tra le due è impercettibile, specie considerando che, sorto come alleanza di mutua assistenza, il Patto Atlantico è ormai diventato il braccio armato della Casa Bianca, come dimostrato anche dalle operazioni belliche in Afghanistan ed Iraq. Presidi militari americani, comunque, non si trovano certo solamente in Italia, visto che il Pentagono ha pensato bene di posizionarsi in tutti i punti del Globo ritenuti strategici per gli interessi politici, economici e militari di Washington. Oggi, escludendo quelle poste nella nostra Penisola, ci sono più di 600 basi militari a disposizione dei soldati delle Zio Sam. Molti sono gli accordi che regolano la presenza di queste basi e le condizioni dei militari stranieri in Italia, anche se per anni tutti i documenti sono stati posti sotto segreto e solo agli alti vertici dello Stato era ed è concesso conoscere i più piccoli cavilli. Il documento da cui prendono spunto tutte le norme internazionali che regolano la presenza militare straniera nel nostro Paese è il Trattato di Pace imposto dagli Alleati all’Italia a seguito delle vicende della Seconda Guerra Mondiale; pochi anni dopo a Londra venne stipulato il SOFA Status of Force Agreement che stabiliva una prima regolamentazione dello status delle forze militari della NATO presenti nei diversi Paesi membri. Il 28 agosto del 1952, quindi, venne sottoscritto l’apposito protocollo riguardante le condizioni ed il trattamento giuridico dei vari quartieri generali militari internazionali sorti nei vari Stati aderenti in seguito alla stipula del Trattato del Nord Atlantico. Precedentemente altri due documenti in materia erano stati firmati dal governo italiano e da quello degli Stati Uniti. Il 27 gennaio del 1950, nella capitale americana, era stato siglato l’Accordo di Washington sull’assistenza difensiva reciproca. Due anni più tardi, il 7 gennaio 1952, a Roma venne invece sottoscritto l’Accordo bilaterale sulla sicurezza reciproca, che impegnava l’Italia “a dare, compatibilmente con la sua stabilità politica ed economica, il pieno contributo consentito dalla sua manodopera, dalle sue risorse, dai suoi mezzi e condizioni generali economiche, allo sviluppo ed al mantenimento della propria forza difensiva ed alla forza difensiva del mondo libero”. Nel frattempo, nel 1951, un’intesa raggiunta tra i due alleati aveva autorizzato le forze militari statunitensi, presenti senza soluzione di continuità sul suolo italiano già dal luglio 1943, a stipulare contratti locali privati per ottenere in uso terreni e strutture, ovvero ad erigere nuovi presidi militarizzati. Partendo dalle premesse poste da questi quattro documenti, nell’ottobre del 1954 Italia e Stati Uniti firmarono un accordo quadro di massima segretezza che disciplinava nel dettaglio le basi e tutte le altre infrastrutture concesse agli USA ed alla NATO sul territorio italiano; l’Accordo fu sottoscritto dal governo tricolore nella massima segretezza tanto che non appena divenne di pubblico
dominio la sua esistenza, molti decenni più tardi, si sollevò un vespaio di polemiche. Nel 1995 Giovanni Motzo, all’epoca Ministro per le Riforme Istituzionali nell’esecutivo di Lamberto Dini, criticò il metodo USA per la ratifica di questi accordi sostenendo che questo violava gli Articoli 80 ed 87 della Costituzione; tesi ripresa solo pochi mesi più tardi da Rifondazione Comunista ai tempi del primo governo Prodi. Il PRC, nel marzo del 1998, presentò, infatti, un disegno di legge per permettere la pubblicazione di tutti gli accordi tra Italia ed USA e per consentire l’eventuale approvazione di questi dal Parlamento, come stabilito dalla nostra Carta costituzionale. Sempre in quel periodo, analoghe iniziative furono intrapresa anche da singoli esponenti dei DS, come ad esempio la senatrice Daria Bonfietti che, prendendo spunto dalla scoperta del sistema Echelon, sottolineò l’incongruenza di accordi segreti con gli USA in un momento in cui l’Italia era impegnata nel difficile percorso che doveva portare all’integrazione europea. La caduta, pochi mesi dopo, dell’esecutivo non permise a questi disegni e proposte di legge di arrivare a destinazione, e tutto rimase nell’oblio, finché il governo D’Alema, in seguito ai fatti del Cermis, dovette rendere noti alcuni articoli dell’intesa siglata sullo status dei militari americani presenti sul territorio italiano e soprattutto quelli riguardanti la giurisdizione da applicare a questi; lo snodo più complesso fu spiegare la regolamentazione nell’uso delle installazioni ed i rapporti tra i soldati dei due Paesi. All’Articolo 2, il documento stabilisce che gli USA hanno la facoltà di avvalersi di questi presidi nello spirito e nel quadro della collaborazione atlantica ed esclusivamente per assolvere gli impegni cui è chiamata la NATO, vietandone, in linea teorica, l’uso per finalità contrarie a quelle di questa organizzazione. L’Articolo 4, a sua volta, precisa che questi siti sono posti sotto controllo italiano, ma i comandi statunitensi detengono quello militare su equipaggiamenti e operazioni, che poi è quello che più conta in ambito bellico. L’Articolo 17, infine, stabilisce che queste strutture devono essere costruite con fondi messi a disposizione dall’Amministrazione di Washington, ed una conferma a tal proposito si è avuta recentemente a Vicenza con la nuova Ederle 2 da costruire su terreni italiani che pur rimanendo di proprietà dello Stato vengono concessi in uso al Pentagono, il quale si impegna a realizzarvi i lavori necessari di tasca propria. Da segnalare, inoltre, che le zone occupate da basi militari di un Paese terzo, così come le ambasciate, godono di extraterritorialità e di conseguenza nessun italiano può entrare e controllare cosa avviene entro quel confine, pena il rischio di un incidente diplomatico, all’incirca ciò che accadde a Sigonella, nell’ottobre 1985. Oltre a questi testi, peraltro mai abrogati e nemmeno mai resi pubblici nella loro interezza, c’è infine un ultimo documento che regola la presenza di basi NATO in Italia: il
Memorandum del 1995. Questo accordo appare di estrema importanza in quanto è l’unico posteriore alla caduta del Muro, e quindi frutto di un Mondo diverso rispetto a quello che aveva ispirato i precedenti, ma nonostante ciò ne risente fortemente ancora dell’influenza, non a caso viene puntualizzato già nel primo articolo che “il presente memorandum d’intesa ed i derivanti accordi tecnici che saranno negoziati per ciascuna installazione e/o infrastruttura, non sostituiranno né modificheranno le disposizioni degli accordi elencati nel Preambolo del presente memorandum o di ogni altro accordo bilaterale o multilaterale tra le parti che non si riferisca ad una particolare installazione e/o infrastruttura”. Come si evince facilmente, quindi, la materia in questione appare quanto mai complessa e soprattutto difficile da comprendere appieno vista la sostanziale segretezza che circonda gli Accordi tra i due Paesi e di cui, tranne rarissime eccezioni, non è permesso sapere molto, anche perché spesso sono proprio le parti in causa a non volergli dare troppa pubblicità. L’unica certezza è che nel corso degli anni l’importanza dell’Italia nello scacchiere geopolitico planetario è andata via via ad aumentare, con un numero sempre maggiore di militari statunitensi dislocati lungo lo Stivale, segnale questo in netta controtendenza; mentre infatti grandi Paesi europei, quali: Francia, Germania e Spagna, stanno sempre più cercando di rendere meno ferreo il rapporto con l’Alleanza Atlantica, i vari governi che negli ultimi tre lustri si sono succeduti a Roma hanno sempre cercato, invece, di rafforzare l’amicizia con Washington, prova di ciò è stato, ad esempio, l’atteggiamento del secondo governo Prodi e del quarto esecutivo guidato da Silvio Berlusconi inerentemente alla base di Vicenza destinata ad ospitare parte delle truppe e degli armamenti atlantici di cui il Bundestag di Berlino sta cercando di disfarsi e che Roma ha invece pensato bene di accaparrarsi, senza preoccuparsi di conoscere il parere della popolazione locale. Tutte queste vicende insieme hanno fatto sì che il nostro Paese diventasse agli occhi degli americani “la Portaerei Italia”, ovvero il posto più comodo da dove far partire le truppe per il Vicino Oriente od il Continente africano, che si dimostra sempre più come un’area inquieta, con problemi cui la comunità internazionale dovrà presto iniziare a fare i conti seriamente, come d’altronde l’attività pirata lungo le rotte del Corno d’Africa e le crisi in tutto il Nordafrica ci dimostrano. Oltre ad ospitare migliaia di soldati americani armati di tutto punto, nelle installazioni NATO italiane, nel corso degli anni, sono transitate anche armi nucleari, il numero esatto non si è mai saputo con precisione essendo la questione coperta dal massimo riservo militare, ma è pressoché certo che attualmente ordigni di questo tipo siano presenti all’interno di almeno due basi: Ghedi ed Aviano. Numerosi poi i siti in cui sono stati predisposti dei radar capaci di captare comunicazioni nemiche o spostamenti di truppe, alleate od ostili, a
migliaia di chilometri di distanza.
Quello messo in piedi dagli USA nella Penisola, insomma, è un sistema difensivo a tutto tondo che la NATO, però utilizza non solo a scopi difensivi, ma anche offensivi, visto che da queste basi sono spesso partiti aerei e truppe verso zone dove si sono combattute e si combattono guerre in piena regola. Se da una parte questa situazione sta divenendo sempre più insopportabile agli occhi della cittadinanza, che in molti casi ha dato vita a vere e proprie proteste di piazza, dall’altra il governo di Roma, indipendentemente dalla maggioranza in carica, ha sempre mortificato gli italiani dando ogni volta via libera senza tanti indugi ai desideri degli ingombranti ospiti.
Capitolo 1
Le 113 basi, panorama e considerazioni strategiche sulla loro dislocazione
Torna all’indice
Oggi, come già accennato, in Italia sorgono circa 110 basi NATO od USA, un numero che in Europa è secondo solo a quello della Germania, che ospita oltre 320 installazioni atlantiche, anche se Berlino, come precedentemente accennato, sta pian piano rivedendo la propria politica estera essendo oggi interessata più alle forniture di gas russo, che all’ombrello protettivo statunitense. Da notare che il numero di installazioni nel corso degli anni nel nostro Paese è cresciuto molto; un rapporto pubblicato nel 1977 dal governo americano riferiva, infatti, che all’epoca in Italia si trovavano appena 60 installazioni, tutte istituite con accordi bilaterali redatti in forma semplificata. Tra queste le più importanti erano: quella aerea di Aviano, concessa al governo di Washington nel 1951, ovvero subito dopo l’adesione al SOFA, e quella aereonavale di Sigonella, acquisita con un memorandum siglato l’8 aprile 1957. Tutte le basi NATO presenti in Europa, infatti, sono regolate da un apposito memorandum che rappresenta l’ossatura intorno cui ruotano tutti i specifici accordi tecnici diversi a seconda della singola base. Con il are del tempo, e l’evolversi dello scenario geopolitico internazionale, l’Italia però è diventata sempre più importante agli occhi degli Stati Uniti, che attualmente nei nostri confini, solo per scopi militari, sono proprietari di oltre 1.500 fabbricati, per una superficie di quasi 880.000 mq e ne hanno in affitto più di altri mille per una estensione di altri 800.000 mq, dislocando in queste varie basi più di 13.000 uomini. Se, nella prima metà degli Anni ‘70, le basi italiane avevano lo scopo di rispondere prontamente ad una eventuale invasione sovietica in Italia od Austria, negli anni successivi la Penisola ha assunto una importanza sempre maggiore per via del suo posizionamento nel cuore del Mediterraneo. Durante la Guerra Fredda era fondamentale controllare il fronte nord-orientale, oggi il baricentro strategico
italiano è spostato decisamente verso sud, in particolare su Napoli e la Sicilia. Dopo la caduta del Muro di Berlino ed il dissolvimento dell’Impero sovietico, l’Italia ha perso la propria funzione di Stato cuscinetto ed è diventata sempre più importante non solo per lo scenario medio orientale, ma anche per controllare i Balcani in dissolvimento. Analizzando la cartina delle installazioni militari si comprende meglio questa ripartizione del ruolo del nostro Paese, il grosso delle basi sono infatti impiantate: nel Nord-Est, tra la Campania e le Isole ed in Puglia; sostanzialmente inesistenti al centro e lungo la dorsale adriatica.
Queste basi ospitano l’USAF, l’US Navy, Army, il NAS, il National Security Agency, l’agenzia di sicurezza nazionale, ed infine il SETAF, Southern European Task Force, oggi trasformatosi in United States Army Africa (USARAF), l’unità di pronto intervento NATO per il Continente Nero.
Le principali basi USAF si trovano in Friuli-Venezia Giulia ed hanno il compito anche di pianificare e condurre le eventuali operazioni aeree in un Vicino Oriente sempre più in ebollizione. Il porto principale della marina americana, invece, rimane quello di Napoli, dal quale il Comando navale statunitense è chiamato a vigilare su ben 89 Paesi sparsi in 3 diversi Continenti; sempre nel capoluogo campano si trova il t Force Command, capace di dispiegare le proprie forze in soli cinque giorni in qualsiasi parte del Globo; altra base navale importante è quella di Taranto. I continui mutamenti dello scenario internazionale non permettono in realtà di stabilire con precisione il numero esatto di militari statunitensi, in quanto questo cambia praticamente di anno in anno in base alle esigenze della NATO e della Casa Bianca e dall’instabilità delle varie zone dove queste sono chiamate ad intervenire.
Le installazioni principali
Torna all’indice
Aviano
Posta nel cuore del Nord-Est, attualmente, questa base aerea, in provincia di Pordenone, rappresenta la più grande struttura avanzata dell’aviazione statunitense al di fuori dei propri confini. Essa contiene nei propri depositi diverse decine di bombe atomiche, ed è anche il centro delle telecomunicazioni USAF in Italia, ospitando, stando ai dati forniti dal Base Structure Report del 2010, oltre 3.500 militari. Qui sono dislocate le forze operative pronte al combattimento aereo già impiegate negli anni ati nei Balcani. Sempre qui si trovano la XVI Forza Aerea ed il XXXI Gruppo da Caccia dell’aviazione a stelle e strisce, nonché una unità dei marines. Negli Anni ‘90, Aviano ha ospitato aerei Awacs, Airbone Warning and Control System, per il controllo del Mare Adriatico. Questo è un sistema elettrico basato su un apposito radar progettato per eseguire missioni di sorveglianza aerea nonché funzioni di controllo, comando e comunicazione, sia per scopi tattici, sia per azioni di difesa aerea e viene montato su appositi velivoli Boeing E-3 Sentry. I più moderni sistemi Awacs possono rilevare aerei fino a 400 chilometri di distanza, copertura non offerta da nessun altra arma antiarea attualmente disponibile. Sul finire degli Anni ‘80, nella base friulana furono dislocati i primi caccia-bombardieri F-16, gioiello della tecnologia avionica
adattata alle esigenze militari. All’epoca si respirava aria di disarmo e così la CISL, unico sindacato ammesso nella base, propose di far stazionare in Friuli gli F-16 di cui la Spagna stava cercando di liberarsi. Questo gesto, all’apparenza secondario, fece sì che con il tempo il presidio di Aviano divenisse sempre più importante, arrivando pian piano a superare la base tedesca di Ramstein, fino a quel momento il principale sito dell’aviazioni NATO nel Vecchio Continente. Oggi Aviano ospita circa 40 F-16C/D del 31° Fighter Wing USAF ed è una delle installazioni aeree statunitensi più importanti in assoluto nel Mondo. Un apposito studio realizzato da un ufficiale dello Stato Maggiore dell’aviazione americana ha indicato, però recentemente la necessità, visto il mutato clima geopolitico, per la Difesa statunitense di trasferire in Polonia i caccia attualmente alloggiati ad Aviano. Il Comando USAF ha minimizzato asserendo che si tratta di una semplice “ipotesi accademica”, anche se è indubbio che la Polonia offra maggiori opportunità di addestramento per i militari, minori restrizioni allo spazio aereo, e soprattutto disponibilità di aree dove i piloti possono esercitarsi nei bombardamenti. Essendo una delle prime basi USA ad essere sorta in Italia, i militari statunitensi sono ormai parte integrante del tessuto sociale della zona,
anche se ovviamente nel corso degli anni non sono mancati momenti di tensione. Il primo si è avuto nel 1993 a seguito del protocollo d’intesa che ha portato al piano Aviano 2000. Forte di finanziamenti NATO per una cifra vicina ai 1.000 miliardi di lire, questo mirava ad adattare una vasta area demaniale italiana per la costruzione di ogni sorta di strutture ed infrastrutture per i nuovi militari statunitensi che di lì a poco sarebbero arrivati dalla base spagnola di Torrejón. Tra l’indifferenza dei vertici del presidio, le popolazioni locali iniziarono a manifestare contro questo progetto ed appoggiati dalla Commissione Regionale per le Servitù Militari ottennero che il governo italiano si impegnasse a destinare 24 miliardi di lire allo sviluppo viario dell’intera zona. Un secondo, questa volta tragico, episodio si ebbe anche nel 1998, in seguito alla strage del Cermis. Il 13 febbraio di quell’anno, un aereo militare decollato dalla base di Aviano per un volo di addestramento, tranciò i cavi di una funivia. La cabina, in cui si trovavano 20 persone, precipitò schiantandosi al suolo. Nell’impatto tutti gli occupanti persero la vita. I pubblici ministeri italiani richiesero di poter porre sotto processo i quattro marines coinvolti nella strage, ma il giudice per le indagini preliminari di Trento ritenne che, in forza della Convenzione di Londra del 1951 sullo status dei militari NATO, la giurisdizione sul caso dovesse riconoscersi alla giustizia militare statunitense. Gli esponenti della sinistra radicale, guidati all’epoca da Rifondazione Comunista, proposero anche di rinegoziare questo accordo, richiesta, però nemmeno presa in considerazione dal governo per un particolare tutt’altro che secondario: il SOFA non è un accordo bilaterale tra Roma e Washington, ma una vera e propria intesa tra tutti i Paesi del Patto Atlantico, e quindi il nostro governo per farlo avrebbe dovuto convocare una vera e propria conferenza di pace, peraltro con scarse possibilità di successo. Un nuovo incidente, fortunatamente di minore entità, si è verificato nel novembre del 2010 quando un caccia statunitense durante un volo di esercitazione a causa di alcune avarie dal pilota, dopo aver ricevuto l’assenso dalla torre di controllo, sganciò i due serbatoi di riserva e perfino una bomba da esercitazione sulla zona del Dandolo, a circa 15 chilometri da Pordenone, per fortuna senza colpire nessuna abitazione. Nel corso degli anni, ad Aviano, così come in tutti gli altri siti militari americani non sono mancate iniziative di movimenti pacifisti, ora però una recente sentenza della Cassazione, datata 26 febbraio 2009, ha probabilmente posto fine a questa situazione. Le sezioni unite civili della Cassazione nella sentenza 4461 hanno, infatti, stabilito che “i pacifisti non possono contestare la presenza, sul suolo italiano, della base militare americana di Aviano”. Alla base della decisione il difetto di giurisdizione della nostra magistratura ad interferire nelle iniziative “volte a realizzare un apparato difensivo nell’interesse comune di due Paesi, nello
specifico Stati uniti e Italia, a tutela della rispettiva sicurezza e nel rispetto degli obblighi convenzionalmente assunti”. Una sentenza tanto più amara se si pensa che secondo un rapporto statunitense del Natural Resources Defence Council, nella base italiana, secondo il concetto NATO di Nuclear Sharing, sarebbero conservate almeno 50 bombe atomiche B61-4 di potenza variabile tra 45 e 107 chilotoni. Si consideri, che Little Boy, la bomba impiegata per colpire Hiroshima, provocando 130 mila morti, aveva una potenza tra i 12,5 e i 18 chilotoni. Nel 2010, l’US Air Force ha pubblicato uno studio sul cosiddetto impatto economico generato dalle basi poste in territori straniero, ricerca svolta prendendo in considerazione i beni ed i servizi acquistati localmente dal personale militare, gli stipendi versati al personale civile locale, gli affitti degli alloggi e i lavori appaltati a ditte e imprese delle nazioni ospitanti. Stando ai dati forniti dal Pentagono, il valore totale del denaro immesso nell’economia di Aviano, nel periodo preso in considerazione, avrebbe raggiunto i 427 milioni di dollari. Di questi poco meno della metà corrisponderebbero alle spese sostenute fuori dalla base dal personale militare e civile statunitense e dai dipendenti civili italiani, circa 50 milioni generati dalle attività di costruzione, 16 milioni per le spese di servizio ed i restanti dall’acquisto di materiali ed attrezzature. Secondo l’aviazione USA, grazie ad Aviano, sarebbero stati generati oltre 1.700 posti di lavoro “secondari” che determinerebbero un movimento di denaro quantificabile in 60 milioni scarsi di dollari tra retribuzioni e contributi. Un flusso di liquidi che ad ogni modo non sembra in grado di giustificare una così ingombrante presenza militare.Camp Ederle.
Camp Ederle
Torna all’indice
Altra base americana molto importante è quella di Vicenza denominata Camp Ederle, da alcuni anni al centro di polemiche per via del prossimo ampliamento, anche se forse sarebbe più giusto parlare della costruzione di un nuovo presidio, visto che il progetto è denominato Ederle 2. Nella città berica si trova il quartier generale meridionale della NATO ed il comando SETAF della US Army, sotto cui operano le forze atlantiche di Italia, Turchia e Grecia. Sempre qui sono alloggiate le forze pronte ad intervenire tempestivamente in caso di battaglia via terra: un battaglione aviotrasportato, un battaglione di artiglieri con capacità nucleare, tre compagnie del genio. Il sito rappresenta, inoltre, un’importante stazione di telecomunicazione interna al sistema difensivo atlantico. Fondamentale poi la presenza dell’ASG, Area Group, il gruppo di o logistico, che ha il compito di gestire tutta l’installazione sia dal punto di vista strettamente militare, sia da quello amministrativo. Il numero uno dell’ASG, un alto ufficiale americano, dispone di un enorme potere tanto da essere definito “il Sindaco della Ederle”. Come per tutte le basi utilizzate dalla NATO i rapporti con le autorità sono regolati da accordi e memorandum segreti, che vengono periodicamente rivisti. Ufficialmente, la caserma Ederle appartiene all’esercito italiano, tanto che l’ufficiale più alto in grado è un colonnello del nostro esercito, anche se questi, in base all’organigramma militare a stelle e strisce, è solamente un sottocapo di stato maggiore dal momento che opera alle dipendenze di un colonnello USA. La 173rd Airborne Brigade Combat Team Sky Soldiers, forte di 3.300 paracadutisti, di base nella caserma, è stata impiegata attivamente, in questi ultimi anni, nelle operazioni in Iraq ed Afghanistan. Strettamente collegato alla caserma è l’aeroporto Dal Molin, che funge sia da scalo militare che civile. Negli anni ati la NATO aveva manifestato l’intenzione di abbandonare questo aeroporto, ma con il raddoppio della base Ederle ed il trasferimento in Veneto dei militari attualmente di stanza in Germania è facile prevedere restrizioni per il traffico civile ed un ritorno di fiamma dell’Alleanza Atlantica per questa infrastruttura, anche se le attuali dimensioni non sono particolarmente adatte a voli militari, non a caso i paracadutisti statunitensi sono soliti partire dalla base di Aviano. Di stanza nella base anche un’unità dei carabinieri che ha come principale incombenza quella di scortare i parà statunitensi quando questi, armati, devono uscire per lo
svolgimento delle proprie esercitazioni. Sempre ad Ederle, ai tempi della guerra in Bosnia, come svelato dal Pentagono, nel gennaio del 1996, durante un apposito briefing, fu schierato un Combined Air and Space Operations Center (CAOC), un’unità preposta alla sorveglianza elettronica e radio in grado di raccogliere senza sosta migliaia di informazioni, integrarle in tempo reale con fotografie del teatro delle operazioni e tradurle in scenari strategico-militari. Stando a quanto trapelato dall’organizzazione no profit Wikileaks, pochi giorni dopo l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, l’allora ambasciatore statunitense a Roma, Ronald Spogli, inviò a Condoleezza Rice, all’epoca ancora Segretario di Stato, una relazione sul progetto della nuova base. Secondo quanto fatto trapelare dagli uomini di Julian Assange, nel documento si sarebbe anche suggerito di fare del nuovo presidio la sede della sezione aerea (mentre quella navale sarebbe dovuta essere stabilita a Napoli) dell’AFRICOM, ovvero il comando militare americano responsabile delle operazioni in 53 Paesi africani.
Camp Darby e Livorno
Torna all’indice
La principale base NATO/USA nel centro Italia è sicuramente Camp Darby, situata tra Livorno e Pisa. Sede dell’unità di pronto intervento per l’Europa meridionale, la base toscana rappresenta per il Pentagono il più grande deposito logistico del Mediterraneo. Pur essendo situata nella provincia di Pisa è strettamente collegata tramite tutta una serie di canali che ruotano attorno alla pineta del Tombolo al vicino porto di Livorno. La base per la sua posizione è quanto mai strategica e centrale per le operazioni militari di Washington, tanto che, il 17 giugno 2003, appena tre mesi dopo l’attacco all’Iraq, il colonnello Carroll Walton, comandante del Southern European Task Force (SETAF) di Vicenza, oggi divenuto United States Army Africa (USARAF), parlando con i giornalisti dichiarava: «Ovviamente sono di parte, essendo un militare, ma ritengo che la posizione strategica della base sia talmente importante che è essenziale che essa mantenga il ruolo che ha». Uno studio condotto in Virginia nel 2002 ha permesso di sapere che in quell’anno sul suolo pisano si trovavano 20.000 tonnellate di munizioni per artiglieria, missili, razzi e bombe d’aereo con 8.100 tonnellate di alto esplosivo ospitate in 125 bunker; inoltre la struttura ospitava gli equipaggiamenti completi per armare una brigata meccanizzata: 2.600 tra blindati, jeep e camion, tra i quali 35 carri armati M1 Abrams e 70 veicoli da combattimento Bradley. Nel 2000, senza darne comunicazione alle autorità italiane, i vertici della base portarono a termine una delicata operazione di bonifica che avrebbe potuto provocare una vera e propria tragedia se qualcosa fosse andato storto. I numerosi bunker sotterranei refrigerati, nati per proteggere dal calore gli apparati più sofisticati destinati ai caccia ed ai bombardieri, da tempo infatti presentavano numerose crepe e necessitavano di urgenti ristrutturazioni. Alcuni di questi bunker, quindi, furono svuotati, e vennero spostati qualcosa come 100.000 ordigni e 23 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale. Data la delicatezza dell’operazione per manovrare queste bombe furono utilizzati robot comandati a distanza. Nonostante la segretezza che circonda questo, come tutti gli altri presidi NATO, si sa che da Camp Darby sono partiti il grosso dei mezzi e delle munizioni destinati alla missione militare in Iraq, sia nel 1991, sia dal 2003 in poi. Sempre da qui provenivano più della metà delle bombe scagliate sulla Serbia nel 1999. Alcuni ipotizzano che lo scontro tra il traghetto Moby Prince ed una petroliera a largo di Livorno, nell’aprile del 1991, veda in causa le forze militari USA di stanza in questa installazione, tanto più che il rifiuto costantemente opposto dalle autorità americane a collaborare con quelle italiane per chiarire la vicenda non è mai venuto meno. Nel gennaio del 2007, anche a causa del malumore sempre più crescente della popolazione verso questa ed altre servitù militari, la Regione Toscana chiese la riconversione
civile del presidio, anche perché nel frattempo erano aumentate le voci che volevano transitata nella base la super bomba Gbu-28 da 2.268 kg di esplosivo ed in grado di neutralizzare anche i bunker meglio protetti. Secondo molti utilizzata da Israele, che ne ha acquistate cento unità, durante la guerra in Libano contro Hezbollah del 2006. Ronald Spogli, ex ambasciatore USA in Italia, respinse al mittente l’ipotesi di riconvertire il presidio, mentre i vertici della base hanno sempre smentito ogni notizia riguardante la super bomba. Il Colonnello Raffaele Iubini, comandante italiano di Camp Darby ed il vicecomandante americano Vincent Faldo ascoltati da Elettra Deiana, all’epoca numero due della commissione Difesa della Camera, assicurarono che non ci fu nessun transito di superbombe, sostenendo che dopo il conflitto in Libano la base si trovava in stand-by e che venivano svolte solamente le attività strettamente necessarie alla quotidianità. L’importanza di questa struttura è ben nota agli oppositori della politica militare della Casa Bianca, non a caso durante un interrogatorio del 12 dicembre 2004, Cinzia Banelli, componente delle nuove Brigate Rosse, riferì che il suo gruppo aveva progettato e programmato
iniziative di sabotaggio, in particolare alla linea ferroviaria, ai danni della caserma pisana. Strettamente collegato a questa installazione, come detto, il porto di Livorno. Il Centro generale di sostegno con sede nella città portuale, o Leghorn per usare il nome angloamericano, nel 1994 è diventato il comando per le operazioni industriali dell’US Army in Europa. La missione del Leghorn è cambiata al mutare delle esigenze dell’esercito. Inizialmente, era chiamata a rifornire una piccola regione dell’Europa, oggi invece ha tanto materiale in magazzino da poter equipaggiare senza problemi un’intera brigata attraverso le scorte chiamate Awr-2 che comprendono munizioni, materiale rotabile, unit basic loads, ed articoli di sopravvivenza suddivisi in 45 pacchi per compagnia pronti per essere imbarcati ed utilizzati in operazioni degli Stati Uniti in tutto il Mondo. Novità in vista anche per questa base. Nel novembre 2009, infatti, la Regione Toscana ed i comuni di Pisa e Livorno hanno dato il via ad un accordo di programma da oltre 100 milioni di euro per il riassetto delle vie navigabili interne, tra le due città, al fine di ottimizzare gli interscambi tra i siti logistici della zona. Ovviamente, tra questi, il maggiormente interessato vi era proprio quello di Camp Darby. Le operazioni previste per il sito americano riguarderanno, in particolare, l’ampliamento del Canale dei Navicelli che collega questa base al porto di Livorno. Il Sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, esponente del Partito Democratico, ha chiesto al Comando USA una compartecipazione ai
lavori previsti per il progetto e Washington ha subito risposto affermativamente, ritenendo questo insediamento sempre fondamentale per le operazioni del Pentagono e manifestando l’intenzione di continuare ad investirvi anche per il futuro.
Capo Teulada
Torna all’indice
La principale base NATO in Sardegna è senza dubbio quella di Capo Teulada, che partendo dal cagliaritano fino a sconfinare nella provincia di Oristano, copre un tratto di costa di circa 100 chilometri resi off-limits per la popolazione civile, nonostante siano tra i più affascinanti di tutta l’Isola. Qui, infatti, sorge dal 1956 un poligono di tiro, grande circa settemila ettari, per le esercitazioni terrestri ed aereonavali NATO, che comprende anche un Centro Addestramento Unità Corazzate. Queste esercitazioni vengono compiute con munizioni e bombe vere e questo ovviamente determina non pochi problemi di convivenza con la comunità locale. Storica, infatti, la protesta inscenata tra il 2003 ed il 2004 dai pescatori della zona contro le continue operazioni aeronavali che non permettevano a questi di svolgere il proprio lavoro. I pescatori uscirono in mare nonostante il categorico divieto dei militari americani, che addirittura rivolsero contro di loro alcuni colpi di arma da fuoco, per fortuna andati a vuoto. Nell’estate successiva alcuni proiettili sparati da una nave durante un’esercitazione finirono per sbaglio a pochi metri dalle sedie a sdraio di alcuni turisti su una spiaggia limitrofa; fortunatamente anche in questa occasione nessuno si fece male. Nel maggio 2007, per accogliere almeno in parte la rimostranza della popolazione locale, gli scienziati del centro ricerche subacquee dell’Alleanza Atlantica hanno realizzato il monitoraggio dei fondali antistanti le coste sud-occidentali della Sardegna per permettere l’individuazione e la successiva bonifica degli ordigni bellici finiti in mare durante tutte le esercitazioni militari svolte a Capo Teulada. Nonostante questi precedenti, la NATO continua, però, imperterrita ad utilizzare la zona per i propri fini. Nel novembre 2008, infatti, proprio qui si svolse, per circa un mese, l’attività addestrativa interforze e multinazionale Eagle Resolve con la partecipazione di più di 700 uomini. Nel 2002 la base fu al centro di grandi progetti da parte dell’US Navy. Il comando della marina americana indicava proprio il sito sardo quale migliore area per le esercitazioni navali, in alternativa alla base di Cape Wrath, in Scozia. L’installazione cagliaritana però, aveva una grave controindicazione: “L’uso della base da parte degli Stati Uniti è limitato a due periodi di 14 giorni per anno e deve essere programmato con 18 mesi in anticipo. Forse, si potrebbero negoziare condizioni migliori, ma è improbabile che diventino molto favorevoli. E inoltre, la base è, naturalmente, sotto controllo
straniero”. Alla fine, a Capo Teulada non arrivarono altre truppe, stando almeno a quanto riferito alla Camera, il 16 ottobre del 2002, dall’allora Ministro per i Rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi, ma rimane ancor oggi senz’altro il più importante poligono di tiro NATO per tutto il Mediterraneo.
San Bartolomeo
Torna all’indice
A La Spezia, città fortemente militarizzata per la presenza di numerose scuole di addestramento della difesa italiana, ha sede per la NATO, presso l’Arsenale San Bartolomeo, il Nurc, il centro ricerche per la guerra sottomarina, composto da tre strutture: il Saclant, il Maricocesco e la Mariperman. Questo è un centro unico nel suo genere, che mette a disposizione delle esigenze di sicurezza l’alta preparazione dei suoi tecnici che provengono da tutti i Paesi dell’Alleanza. Esso è, inoltre, l’unico centro che, pur lavorando per la difesa, applica le sue tecnologie anche alla tutela dell’ambiente. L’installazione dipende dal comando NATO di Norfolk ed i suoi bilanci dall’Alleanza. Guidato da un direttore americano, è organizzato in quattro aree di ricerca: contromisure mine e difesa dei porti, ricognizione sottomarina e sorveglianza, o alle operazioni ed al comando. Il NATO Undersea Research Centre, fino al 2003, conosciuto come SACLANT ASW Research Centre, è una struttura dell’Alleanza Atlantica nata nel 1959 ed impiegata nella ricerca e sperimentazione di nuove tecnologie antisommergibile. Nel 1989, in occasione del trentennale, nella città ligure giunsero tutti gli ambasciatori che in Italia rappresentavano i Paesi membri della NATO oltre a tutti gli scienziati che avevano collaborato al suo sviluppo, questo solo per far capire durante la Guerra Fredda quanto importante fosse stato il sito per l’Europa occidentale. Il Maricocesco è invece, l’ente che serve a rifornire le navi della NATO dei necessari pezzi di ricambio. La terza struttura atlantica che opera nella base di San Bartolomeo è infine la Mariperman, ovvero la Commissione Permanente per gli Esperimenti sui Materiali da Guerra, composta da cinquecento persone e undici istituti, si va dall’artiglieria, alle munizioni e missili, alle armi subacquee. Stando ad un protocollo d’intesa risalente ad aprile del 2008 questo a breve dovrebbe diventare sede del distretto tecnologico cittadino e quindi mettere a disposizione, almeno in parte, i propri strumenti per finalità civili. Nel 2005, il Mariperman presentò al Mondo la sua ultima creazione: l’AUV, Autonomous Underwater Vehicle, ovvero un piccolo ed agile mezzo sottomarino a forma di siluro, lungo poco più di un metro e 40 e pesante 35 chili con la testa armata di sensori. Il suo uso, in ambito militare e civile, era stato a lungo testato e sperimentato al centro di ricerche NATO di La Spezia insieme a tutta una rete di sensori di superficie e subacquei, veicolati dall’AUV, in grado di intercettare e rendere inoffensivi gruppi di terroristi e per individuare
le mine sottomarine nelle aree portuali. Il robot ha una autonomia di circa venti ore ed è in grado di riconoscere le mine e gli esplosivi che possono essere depositati nei porti, là dove i cacciamine non riescono ad arrivare. Si tratta di tecnologia all’avanguardia, almeno secondo Marshall Billingslea, il Segretario Generale Aggiunto della Divisione per gli Investimenti per la Difesa della NATO, studiata ed applicata interamente al NURC. L’AUV, una volta programmato per la navigazione, immagazzina i dati richiesti, le informazioni e le immagini in digitale che poi vengono elaborate a bordo della nave madre o dalla base. Esso è anche in grado di trasmettere con modem acustici i dati che rileva. I dipendenti della struttura, attualmente, non dormono, però sonni troppo tranquilli. Il 14 agosto 2008, uno dei dirigenti del NURC ha infatti annunciato: “Se l’Italia non ci darà le strutture per crescere, con tutta probabilità il NATO Undersea Research Center sarà spostato nell’Est europeo”, terreno questo sempre più fertile per via dell’allargamento negli ex Paesi del Blocco sovietico nell’Alleanza Atlantica. Subito il primo cittadino spezzino Massimo Federici ha scritto al Ministro della Difesa Ignazio La Russa e al Sottosegretario Guido Crosetto per sollecitare una presa di posizione, paventando la minaccia di chiusura del polo tecnologico subacqueo, proprio quando La Spezia era divenuta un riferimento nel settore in tutto il Mondo, come dimostrato nel 2010 quando si è tenuta nella città ligure la prima
conferenza mondiale sulla “Water side security” durante la quale gli esperti internazionali, sia militari che civili, si sono confrontati in materia di sicurezza marittima.
Sigonella
Torna all’indice
Qui in Sicilia si trova la principale base aerea della marina statunitense nell’area del Mediterraneo centro meridionale, non a caso i vertici del Pentagono la chiamano The hub of med. Sigonella ospita diversi quadri tattici dell’aviazione della marina: elicotteri del tipo HC-4, caccia F-18 e A6 Intruder. Fino al 2006, erano di stanza qui anche gli elicotteri navalizzati CH-53E Super Stallion, che però la
difesa statunitense ha deciso di richiamare nella base di Norkfolk in Virginia. L’aeroporto siciliano rappresenta il più usuale punto di sosta utilizzato dai piloti statunitensi nella rotta tra gli USA e le basi del Sud-ovest asiatico e dell’Oceano Indiano. Già all’inizio degli Anni ‘50 gli USA ne avevano capito l’importanza, ma avevano indirizzato le proprie attenzioni verso Malta dove avevano inizialmente posto i propri aerei antisommergibili P-2 Neptune. Quando però, gli spazi a La Valletta e dintorni iniziarono a scarseggiare, la US Navy chiese l’appoggio della NATO per realizzare una base sulla principale Isola del Mediterraneo. Inizialmente l’Italia concesse il territorio tramite un accordo temporaneo firmato il 25 giugno del 1957. Un anno dopo iniziarono i lavori per la costruzione dell’area amministrativa e verso la fine del 1959 la base era già terminata. Stando ad uno studio compiuto da Antonio Mazzeo, ricercatore all’Università di Messina, Sigonella ha rappresentato il secondo programma al Mondo di investimenti in infrastrutture compiuto dalla marina militare USA durante il quadriennio 2004-07. Al suo interno, ogni anno, vengono consumati oltre 976 milioni di litri di acqua, cifra ancor più considerevole tenendo conto della penuria idrica della Regione, ed assorbe energia elettrica per oltre 4 milioni di dollari l’anno. Con il crescere dell’importanza strategia del Mediterraneo, di pari o aumenta anche quello di questa infrastruttura. Tralasciando, per il momento, il nuovo sistema di comunicazione AGS, da poco sono giunti in Sicilia anche i droni Global Hawk RQ-4B. Questi aerei, privi di pilota, e finalizzati alla ricognizione in volo, sono dislocati in Sicilia nell’ambito dell’accordo stipulato tra Italia e Stati Uniti nell’aprile del 2008. Il primo dei cinque UAV (aeromobile a pilotaggio remoto) è giunto a Sigonella nel settembre
2010. Dotati di potenti radar questi aerei riescono ad individuare tutte le unità, sia alleate sia nemiche, presenti sul campo di battaglia, siano esse aeree, terrestri o navali. In ambito NATO velivoli di questo tipo sono definiti C3 ed hanno elevate capacità nel settore intelligence, sorveglianza e ricognizione. Questi veivoli potranno anche essere impiegati sopra le acque internazionali per la sorveglianza delle linee di comunicazione, per il o ad operazioni umanitarie e, qualora richiesto dalle autorità italiane, per il concorso in operazioni di soccorso su territorio italiano in caso di calamità naturali. Oltre agli USA, anche la NATO ha deciso di dotarsi di una componente Global Hawk e di rischierarla sull’aeroporto di Sigonella al fine conseguire sinergie con la pattuglia a stelle e strisce. Grazie, si fa per dire, a questa doppia presenza la base siciliana è diventato il più importante centro militare europeo nel settore degli aeromobili a pilotaggio remoto. I Global Hawk americani, da inviare a Sigonella, potrebbero arrivare addirittura a venti, i quali, come suggerito dal direttore della sezione business development della Northrop Grumman, casa produttrice dell’aeromobile, Ed Walby «saranno in grado di volare da Sigonella
sino a Johannesburg e tornare indietro senza la necessità di rifornimenti supplementari di carburante». Ai siciliani qualche vantaggio da questa ingombrante presenza è comunque venuto. Nel 2005 il governo di Washington tramite il dipartimento della marina militare USA, infatti decise di finanziare il progetto realizzato dalla Provincia di Catania per potenziare la sicurezza della
strada antistante Sigonella, sia nell’ingresso della base USA, sia in quello del XLI Stormo dell’aviazione italiana, il gesto fu particolarmente significativo perché prima di allora gli Stati uniti si erano sempre opposti a questo piano. In questa base, per la prima e forse unica volta dal Dopoguerra ad oggi, avvenne il più grave dissidio tra l’Italia e gli USA. Tra il 7 e l’8 ottobre del 1985, una nave da crociera italiana, l’Achille Lauro, mentre si apprestava a lasciare l’Egitto per dirigersi verso Israele fu presa in ostaggio da quattro membri dell’Olp. Il commando chiese la liberazione di 50 loro compagni di lotta detenuti nelle carceri israeliane. Il governo italiano, tramite gli allora Ministri degli Esteri e della Difesa, Giulio Andreotti e Giovanni Spadolini, cercarono subito di intavolare una trattativa per risolvere la vicenda, anche sotto la spinta dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, però l’Ambasciata USA fermò ogni
tentativo sotto indicazione di Reagan. Incurante di ciò, Palazzo Chigi decise ugualmente di procedere per la
ricerca di un punto d’incontro con i terroristi. Sulla nave intanto i sequestratori stavano diventando impazienti e dopo aver minacciato di uccidere un eggero ogni tre minuti, iniziarono a dar seguito a queste parole uccidendo un disabile statunitense di religione ebraica gettandolo in mare. L’intransigenza della Casa Bianca diventava a questo punto sempre più ferrea e la prospettiva di un intervento armato sempre più reale. Nel frattempo, però negoziatori palestinesi erano riusciti a convincere i quattro ad arrendersi, promettendo una via di fuga diplomatica appoggiata dall’OLP e gestita dal governo italiano. I quattro furono fatti sbarcare ad Alessandria d’Egitto e presi in consegna dalle autorità egiziane che li inviarono subito in Tunisia con un apposito volo. Il Pentagono fece intercettare il velivolo che fu dirottato nella base USA di Sigonella. Craxi, dopo aver consentito l’atterraggio, ordinò ai vertici militari italiani di mettere i membri dell’OLP sotto la loro tutela. A quel punto si consumò lo strappo tra i due governi. All’atterraggio, trenta VAM, gli avieri preposti alla sorveglianza dell’AMI, e venti carabinieri circondarono l’aereo venendo a loro volta circondati da circa 50 militari della Delta Force americana. Ci furono minuti in cui lo scontro a fuoco apparve inevitabile. Il Presidente Reagan cercò di convincere Craxi a richiamare i suoi uomini, ma questi rimase fermo nella propria posizione ricordando che i fatti erano avvenuti in territorio italiano dal momento che l’Achille Lauro batteva bandiera tricolore. Alla fine, prevalse la linea del Segretario del PSI. La questione, però non finì qui. Il governo italiano prese in consegna i
quattro e li mise su un altro velivolo per portarli a Genova e farli interrogare dalla magistratura. L’Ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca dei fatti comandante del Sismi, rivelò che: “da una pista di rullaggio secondaria, a luci spente, decollò da Sigonella un caccia F-14 americano della VI Flotta USA. Questo non aveva chiesto l’autorizzazione al decollo, né aveva presentato, secondo i regolamenti, il piano di volo. Il caccia tentò di interferire con il volo della nostra formazione, cercando ancora una volta di dirottare l’aereo egiziano per assumerne il controllo. I nostri caccia lo dissuasero e lo respinsero”. A quasi tren’anni da quella notte, la base siciliana ha accresciuto il suo ruolo strategico fondamentale
per gli Stati Uniti nell’area del Mediterraneo, tanto più che i governi italiani che si sono susseguiti dagli Anni ‘90 in poi si sono ben guardati da attuare qualsiasi atto
che potesse minimamente irritare l’alleato americano. Specialmente dopo la crisi del febbraio 2011, Sigonella ha assunto per le forze USA il ruolo di vero e proprio hub per la movimentazione di uomini, mezzi e sistemi d’arma destinati allo scacchiere libico. Le installazioni dell’aeroporto siciliano offrono, infatti, il o tecnico-logistico agli aerei a decollo verticale V-22 Ospreys (in
dotazione all’unità anfibia USS Kearsarge, nave-comando del gruppo navale d’assalto dislocato nel Mediterraneo), agli elicotteri CH-46 Sea Knight e CH53E Super Stallion del Corpo dei marines, ed ai cacciabombardieri F-15 ed F-16 Fighting Falcon che l’US Air Force ha trasferito nel Canale di Sicilia. Da Sigonella partono, inoltre, i ricognitori Boeing RC-135 Rivet t, i velivoli di sorveglianza elettronica EP-3E Aries II, quelli per il rilevamento dei segnali radar EA-18G Growlers e gli aerei cisterna KC-130 e KC-135 utilizzati per il rifornimento dei velivoli impegnati nei raid, compresi i bombardieri strategici B2. Infine, nella struttura catanese, oltre ai Global Hawk, hanno trovato sede anche gli UAV MQ-1 Predator, che il Pentagono ha destinato per le operazioni di bombardamento. Secondo l’International Institute for Strategic Studies di Londra a Sigonella sono, infine, schierati sei cacciabombardieri F-16AM dell’aeronautica danese (armati di bombe GBU-49 da 500 libbre), otto cacciaintercettori JAS-39 ed un aereo cisterna Tp-84 dell’aeronautica militare svedese, due pattugliatori marittimi Lockheed -140 Aurora (con missili MK46 Mod V), canadesi, sei caccia F-16C ed un aereo cisterna Boeing KC-135 Stratotanker, turchi. L’Italia si conferma sempre più, oggi, nel suo ruolo di rampa di lancio per operazioni militari straniere, non sempre in linea con i suoi interessi, e sempre meno in quello di protagonista della scena mondiale, da un punto di vista economico ed ancor più politico.
Le altre basi
Torna all’indice
Il Nord-Ovest
Il Nord-ovest non è un territorio particolarmente importante agli occhi dell’Alleanza Atlantica, dato confermato dalle pochissime installazioni USA e NATO presenti in Piemonte, Liguria e Lombardia. In Piemonte risultano due sole installazioni, una nel novarese, a Cameri, ed una nel vercellese, a CandeloMasazza. A Cameri si trova una base aerea USA con copertura NATO, presidio che a breve dovrebbe veder crescere in misura esponenziale la propria importanza, ma per il momento limitato dall’essere un semplice centro di manutenzione per gli Eurofighters. L’8 aprile 2009, però, le commissioni Difesa di Camera e Senato hanno dato parere favorevole al progetto t Strike Fighter JSF F-35: in ballo 15 miliardi di euro, per assemblare questi caccia bombardieri americani. Gli USA, in particolare acquisteranno circa 2.500 JSF entro il 2034; gli altri saranno venduti all’estero. L’Italia sta finanziando l’operazione per il 5% del budget totale previsto. Nel 1996 fu il Ministro della Difesa del primo governo Prodi, Beniamino Andreatta, a far valere i propri contatti oltreoceano per inserire l’Italia nel progetto; Roma in cambio del proprio appoggio politico ed economico avrebbe avuto commesse sostanziose per le proprie industrie militari, Alenia-Finmeccanica su tutte. Essa si sarebbe presa l’onere e l’onore di ospitare, presso l’aeroporto militare di Cameri, la linea di montaggio finale, Final Assembly and Check-Out (FACO) del F-35, più grande al di fuori dei confini statunitensi. Con un indotto che coinvolge quaranta siti industriali in tutto lo Stivale, solo per entrare nell’affare, l’Italia ha sborsato un miliardo di euro. In tutto, 600 milioni servono per costruire il FACO a Cameri e 12,8 miliardi saranno spesi in rate da un miliardo all’anno fino al 2026 per acquistare 131 F-35, i quali dovrebbero sostituire i vecchi, ma infaticabili Tornado. I lavori a Cameri sono iniziati alla fine del 2009, lo stabilimento entrerà in funzione nel 2012 ed i primi aerei dovrebbero essere pronti a decollare nel 2013. Ovviamente, non appena la notizia divenne di pubblico dominio, la popolazione si divise: da una parte i pacifisti, dall’altra coloro che speravano che lo sviluppo della base potesse portare denaro e lavoro in tutta la zona, come era avvenuto per Aviano o come dovrebbe capitare a Vicenza con il raddoppio della caserma Ederle. Sempre in Piemonte è situata la base di Candelo-Masazza, centro per l’addestramento dell’USAF e dell’esercito americano posta sotto copertura NATO. Negli ultimi anni l’importanza del presidio, peraltro mai troppo elevata, è andata ulteriormente scemando. Gli unici picchi di popolarità si ebbero negli Anni ‘80. Nel settembre 1981 qui si svolse parte dell’esercitazione Display Determination ‘81 organizzata dalla NATO, che vide la partecipazione oltre a truppe italiane, di quelle britanniche, elleniche, portoghesi, statunitensi e turche,
al fine di sperimentare scenari bellici su diversi scacchieri terrestri dell’Italia settentrionale, della Turchia e della Grecia. L’operazione fu ripetuta, sempre in questa base, cinque anni più tardi. All’epoca però, si era ancora in clima di Guerra Fredda ed una guerra nel Mediterraneo appariva sempre dietro l’angolo. In Liguria, oltre a quella di San Bartolomeo, si trovano altre due basi: quella di La Spezia dove hanno sede i già citati reparti antisommergibili del Saclant ed il presidio di Finale Ligure operante come stazione di telecomunicazioni dell’esercito a stelle e strisce. Delle quattro strutture, invece, presenti in Lombardia, la più importante e famosa è quella di Ghedi nel bresciano. Base dell’aviazione
italiana, ma anche una stazione di comunicazione e soprattutto deposito di bombe nucleari USA. Testate atomiche a parte, il presidio è molto importante per la NATO; non a caso da qui sono partiti i caccia italiani impiegati in tutte le ultime missioni all’estero, la prima guerra del Golfo, l’intervento nell’ex Jugoslavia, la guerra in Afghanistan. Nel 2008 proprio da qui si sono alzati in volo alla volta di Mazar-i-Sharif, nel nord del Paese, per essere schierati ad Herat i quattro Tornado inviati dall’Italia per dare sostegno alle truppe del dispositivo NATO-ISAF. Sempre nel bresciano si trova poi la base di Montichiari, altra struttura utilizzata dall’aviazione statunitense; questa, però data la vicinanza con Ghedi rappresenta un’installazione del tutto secondaria. Nel pavese si trova il presidio militare di Remondò dove sono di stanza alcuni uomini dell’esercito americano, ma non solo. Secondo il sito del centro ufologico italiano, qui sarebbe presente anche un distaccamento del gruppo di sicurezza militare statunitense, denominato Majestic 12, che tra i suoi scopi avrebbe anche la costituzione e l’organizzazione di operazioni sotto copertura da condursi di concerto con la CIA per effettuare il recupero per gli USA di tecnologia ed “entità extraterrestri” manifestatesi nel territorio di potenze straniere. Nel comasco si trova, infine, la caserma di Sorico dove è alloggiata una antenna dell’NSA, l’agenzia per la sicurezza nazionale statunitense.
Il Nord-Est
Torna all’indice
Considerando che, fino alla dissoluzione dell’Impero sovietico, l’Italia rappresentava, nell’ottica delle Superpotenze, il confine tra capitalismo e comunismo, si comprende facilmente perché tra Trentino, Friuli e Veneto si trovino molte basi USA e NATO. Due sono quelle in Trentino Alto Adige, una in provincia di Bolzano ed una in quella di Trento. A Bolzano si trova il presidio di Cima Gallina, una stazione per le telecomunicazioni dotata di radar dell’USAF. Facile ipotizzare che durante la Guerra Fredda servisse per tenere costantemente monitorato il confine tra Italia, Austria e Jugoslavia. L’altra installazione si trova sul Monte Paganella ed utilizzata sempre come stazione di telecomunicazioni per l’aviazione. Piccolo particolare, nei pressi di entrambe le basi si trovano potenti ripetitori radio ufficialmente utilizzati da radio amatori locali. Non è da escludere che il personale delle due basi sia concentrato sulla prevenzione al terrorismo interno tramite apposite intercettazioni radio. In Friuli, detto di Aviano, sempre nei dintorni di Pordenone, si trova la caserma di Rovereto dove sono depositate munizioni ed armi statunitensi. In sostanza, essa opererebbe come deposito logistico per la vicina base di Aviano. A Rivolto, in provincia di Udine, ha sede una base dell’aviazione statunitense, anche se questo presidio più che altro è famoso per essere la sede delle Frecce Tricolori, la pattuglia acrobatica della nostra aviazione. Nonostante ciò, è abbastanza frequente vedere sulla pista di decollo ed atterraggio F-16C/J Fighting Falcon e F-117 Nighthawk alle dirette dipendenze del Comando US Air Force di Aviano. Nei pressi di Udine ha sede poi l’installazione di Maniago, che ha la funzione di poligono di tiro dell’USAF. Il nome di questa base è salito agli onori della cronaca il 27 novembre del 1986, quando due bombe inerti da esercitazioni caddero da un aereo che stava sorvolando la zona finendo a pochi metri da alcune persone. Un incidente simile peraltro era già accaduto due anni prima, quando una bomba era
accidentalmente caduta sul tetto di una abitazione civile. In Friuli, è anche situata la base di San Bernardo che risulta essere semplicemente un deposito munizioni dell’esercito atlantico. A
Trieste ha invece sede una base navale utilizzata a seconda dei bisogni anche dalla marina americana.
Vera e propria regione a sovranità limitata è il Veneto dove si trovano ben 19 basi USA o NATO. Detto precedentemente di Camp Ederle e di Vicenza, sempre nel distretto berico si trova la base di Tormento. Ufficialmente questo è un deposito di munizioni e di armi, negli anni ati perfino nucleari, come ammesso da un ex-generale dell’esercito americano nel 2003 sulle pagine di un giornale locale. Altro deposito di munizioni si trova a Longare, dove ha sede il Site Pluto. Questa installazione venne eretta a partire dal 1954, sfruttando una rete di grotte carsiche sotterranee. Su richiesta del comando NATO, lo Stato italiano espropriò i tre quinti dei terreni nei pressi di Longare da cui si dipartivano le grotte, cedendoli agli Stati Uniti. In totale vennero ceduti 30.000 metri quadri di superficie su 50.000 totali. Qui aveva sede il XXII distaccamento di artiglieria da campo americana e la 191° Explosive Ordnance, che aveva l’incarico di intervenire in caso di incidenti nucleari o di minaccia agli ordigni. Site Pluto venne congiunto anche alla base militare interforze di San Rocco di Longare, a poca distanza, che ospitava la difesa missilistica antiaerea. Oggi, questa installazione accoglie una cinquantina di militari che rappresentano una piccola riserva della 173^ Brigata Aviotrasportata di stanza alla Ederle. Altri depositi si trovano nel trevigiano, per la precisione a Oderzo e Codognè. Più importante risulta essere la base di Istrana, anche questa in provincia di Treviso. Da qui nel ‘99 sono partiti, direzione Serbia, i raids dell’aviazione militare se, sotto egida NATO, con 12 Jaguar, 10 Mirage F1 CT, 6 Mirage F1 CR, 3 Mirage IV P, 8 Mirage 2000 C, 15 Mirage 2000 D ed 1 C-160 Gabriel. Il presidio oggi è impiegato solitamente come scalo dagli F-15E Strike Eagle e dagli A-10 Thunderbolt. Sempre nel trevigiano ha poi sede nella base di Ciano, un centro di telecomunicazioni dell’esercito atlantico nonché sede di un potente
radar. A Verona città si trova invece l’Air Operations Center dell’USAF, nonché il comando NATO delle forze di terra dell’Europa meridionale ed è anche un importante centro di comunicazione. Ad Affi, in provincia di Verona, si trova la caserma West Star. Creata negli Anni ‘60, questa è uno dei tanti centri di
comunicazione USA dislocati nello Stivale e contiene al suo interno molti capannoni con protezioni Nbc; nel corso degli anni vi si sono svolte numerose esercitazioni, anche se negli ultimi tempi il comando NATO da cui dipende, per motivi di contenimento della spesa, sta operando una drastica riduzione del personale. Non è quindi da escludere che nel giro di pochi anni questa base possa chiudere o essere riconvertita. Sempre nel veronese a Lunghezzano si trova un terminale radar della NATO, sotto il controllo e la sorveglianza dell’US Space Command e
dell’NSA. Situazione molto simile quella di Erbezzo. Qui si trova una stazione radio della NATO del t Combat Operation Center. Altro radar USA è situato a Conselve nel padovano, così come nel vicino presidio di Monte Venda, dove però è posta anche una antenna per le telecomunicazioni interne alla NATO. Ancora nel padovano, per la precisione a Sant’Anna di Alfaedo, ha sede l’ennesima base radar atlantica. Qui la particolarità consiste nel tipo di antenne utilizzate ovvero quelle circolari tipo Wullenberg, capaci di ascoltare ogni genere di segnale telecomunicato. Quattro le installazioni sotto controllo USA o NATO tra Venezia e dintorni. Nella città lagunare ha sede una sezione navale dell’US Navy. A Lame di Concordia è invece situato l’ennesimo radar USA e la derivante base per le telecomunicazioni interne all’Alleanza. Situazione abbastanza simile a Ceggia, dove ha sede un altro centro radar a stelle strisce. Da segnalare però che nel 1988 questa installazione fu al centro di una interrogazione parlamentare presentata dai Verdi a causa della forte presenza di gas radon nella zona. L’azione degli onorevoli Michele Boato e Giancarlo Salvoldi era mirata ad appurare che tale massiccia presenza non fosse da mettere in relazione a eventuali testate nucleari custodite in questa base. Ovviamente l’iniziativa non ottenne risultati concreti. Altra base ed ennesimo centro di telecomunicazione USA a San Gottardo Boscomantivo, ancora in provincia di Verona.
Il Centro
Torna all’indice
Basi NATO e USA non potevano certo mancare nella rossa Emilia-Romagna. A Piacenza si trova il presidio militare di San Damiano: base USAF con copertura NATO. Ufficialmente è una base dell’aeronautica militare italiana, ma è strettamente dipendente dai dettami dell’Alleanza Atlantica. I soldati americani sono giunti qui nel 1991, in occasione della I^ Guerra del Golfo. Normalmente vi stazionano i Tornado del Cinquantesimo Stormo e del CLV Gruppo dell’AMI. Una stazione di telecomunicazioni USA, con copertura NATO, si trova nel modenese, per la precisione a Monte Cimone, mentre a Parma ha sede uno dei tanti depositi dell’aeronautica statunitense. Strettamente collegata a questa vi è poi la base limitrofa di Pieveottoville. Sul suolo italiano non solo basi per militari o armi USA e NATO, visto che a Bologna vi è una piccola succursale del governo statunitense, all’ombra delle due torri vi è, infatti, una stazione di telecomunicazioni del Dipartimento di Stato americano. Doppia presenza statunitense a Rimini. Nell’immediato entroterra si trova un gruppo logistico americano per l’attivazione di bombe nucleari, mentre nell’aeroporto Miramare è situato un centro telecomunicazioni atlantiche, distaccato presso il VII Reggimento Aviazione dell’Esercito che lì ha sede. Da segnalare che, sempre nella zona, a Pisignano, terra di confine tra la provincia di Cesena e quella di Ravenna, si trova l’aeroporto militare di Cervia-San Giorgio dove sono di stanza il XLVIII ed il LII Air Expeditionary Wing con la presenza saltuaria di F-15 e A10. Ufficialmente nelle Marche si trova solo il centro radar USA con copertura NATO di Potenza Picena, anche se da un’indagine più approfondita si scopre che all’aeroporto di Falconara Marittima, connesso con lo scalo civile Raffaele Sanzio, vi è un presidio militarizzato utilizzato durante la Guerra del 1999 in Kosovo. Sul Monte Conero è inoltre segnalata l’ennesima installazione radio e radar NATO, questa probabilmente dedicata al Vicino e Medio Oriente. In Toscana, già citato Camp Darby, va segnalato, sempre nel pisano, il sito militare di Coltano. Questi è una importante base USA e NATO utilizzata per lo scambio di informazioni top secret. È in questa sede, infatti, che vengono gestiti tutti i dati raccolti dai vari centri di telecomunicazione, non solo italiani, posti nel Mediterraneo. Il sito è inoltre un deposito per le munizioni atlantiche nonché base NSA. L’aeroporto militare di Pisa, gestito dell’aeronautica militare tricolore, vede atterrare anche F-15C Eagle, F-16 Fighting Falcon, EA-6B
Prowler, EC-130, EC-130H Com Call. Sicuramente non si può parlare di base USA, ma è evidente la volontà del Pentagono di considerarlo un buon punto di appoggio. Altra base saltuaria può essere considerata quella di Telamone nel grossetano. Qui si trovano solamente militari italiani, ma occasionalmente alloggiano nel presidio membri dell’US Navy che compongono gli equipaggi di navi militari all’ancora nella zona, tra cui unità della Classe Austin, della Classe Stalwart, della Classe Pegasus e della Classe Arleigh Burke. Sempre nei pressi di Grosseto, a Poggio Ballone, si trova un centro radar a copertura NATO. L’installazione deve la sua relativa notorietà alla strage di Ustica, poichè proprio dalle sue apparecchiature, sembra sia stato rilevato un velivolo in scia al Dc-9 Itavia tragicamente caduto nelle acque siciliane. Sempre in Toscana, a Monte Giogo, risulta poi un centro di telecomunicazioni USA sotto bandiera NATO. La struttura però, è da considerare in disuso o quasi, anche perché da alcuni anni una frana ha reso molto complicato raggiungere l’entrata, i radar apparentemente sono
comunque fuori uso; alla base di questi ora si trovano infatti antenne radio per la telefonia mobile. Basi atlantiche non potevano poi mancare nella Capitale e nelle zone limitrofe. A Roma si trova il Comando per il Mediterraneo Centrale della NATO, nonché il coordinamento logistico interforze degli USA. A quanto si sa, questa è una base dell’Alleanza Atlantica, ma non crediamo che Washington incontri troppe restrizioni nell’utilizzarla a piacimento. A Roma sud si trova poi l’aeroporto di Ciampino. Questo è uno scalo civile, utilizzato in prevalenza dalle compagnie low-cost, ma all’occorrenza viene utilizzato per i voli di Stato. Può capitare di vedervi atterrare anche velivoli dell’USAF, anche se non è uno degli scali più utilizzati dall’aviazione dell’Alleanza, o almeno non lo è più dal 2003, quando è stato in gran parte riconvertito per scopi civili. Nell’hinterland capitolino si trova poi una stazione per le telecomunicazioni statunitensi con copertura NATO. Secondo alcune indiscrezioni questa base sarebbe in stretto contatto con le installazioni sotterranee di Monte Cavo. Nel viterbese, per la precisione a Monte Romano, sito militare teoricamente gestito dall’esercito italiano, rappresenta la più vasta area addestrativa dell'Italia centrale, utilizzato anche da alcune unità dell’US Army stanziate nel nostro Paese. Nel pontino, a Casale delle Palme, infine, sorge la scuola telecomunicazioni NATO sotto stretto controllo degli USA.
Il Sud
Torna all’indice
Napoli vero e proprio terreno di conquista per le truppe USA e NATO. Nel capoluogo campano ha infatti sede il Comando del Security Force dei Marines; una base dei sommergibili statunitensi ed il comando delle forze aeree di stanza nel Mediterraneo. Tutto questo nella medesima installazione che ospita anche il porto usualmente impiegato da unità civili e militari a stelle e strisce. Ma non finisce certo qui. Sempre all’ombra del Vesuvio si trova l’aeroporto di NapoliCapodichino impiegato per i collegamenti dell’US Navy. Da pochi anni è stata trasferita la base USA precedentemente sita a Bagnoli che estende la propria giurisdizione militare fino al presidio
di Cirigliano, in provincia di Matera dove ha sede il Cincsouth il cui ambito di intervento si estende, metro più metro meno, da Gibilterra fino ai Paesi dell’ex Blocco sovietico non ancora entrati a far parte dell’Alleanza. Sempre all’interno di questo scalo civile, utilizzato indifferentemente da truppe dell’USAF e dell’US Navy, ha sede anche il Cincusnaveur, ovvero il comando in capo delle forze statunitensi in Europa. Nella metà degli Anni ‘80, le responsabilità del comando di tutte le forze armate statunitensi in Europa e delle forze nello scacchiere meridionale sono state unificate con il conglobamento del Comandante in Capo delle Forze Alleate nell’Europa del Sud, l’ex Cincssouth.
Precedentemente il Cincusnaveur era un comando esclusivamente americano senza giurisdizione sulle forze NATO e il Cincsouth era un comando dell’Alleanza Atlantica senza competenza sulle forze americane. Nei dintorni, a Monte Calmadoli ha invece sede l’ennesima stazione di telecomunicazioni USA, mentre nella splendida cornice di Ischia, la NATO ha pensato bene di porre un’antenna di telecomunicazione USA. Chiusa invece di recente la base di Nisida. Fino allo scoppio della guerra in Iraq qui alloggiava un piccolo distaccamento dell’Airbone Brigade che dipendeva dalla caserma vicentina di Camp Ederle. A Giugliano, dove già opera un comando Statcom, la popolazione è sul piede di guerra da quando è trapelata, nel settembre del 2008, la
notizia che alcune truppe da Bagnoli potrebbero prendere la via di questa base posta tra la provincia di Napoli e quella di Caserta. Alcuni avrebbero perfino parlato dell’edificazione di un nuovo presidio anche se l’operazione potrebbe essere la stessa utilizzata a Vicenza: nuova edificazione mascherata da allargamento. Nei pressi dell’ippodromo di Agnano vi è, invece, un distaccamento operativo della Marina statunitense. Ultima base nel napoletano quella di Licola dove è posta l’ennesima antenna per le comunicazioni interne all’Alleanza. Attualmente i radar di questa installazione sono utilizzati per tenere sotto controllo la situazione nei Balcani. Tre le basi nel casertano. La prima si trova a Grazzanise. Ufficialmente questo è un aeroporto militare della nostra aeronautica; tuttavia da qui nel 1999, nel corso delle operazioni aeree contro la Serbia durante la guerra del Kossovo, ed anche in altre occasioni, sono atterrati e poi ripartiti diversi F-117 e F-16C, nonché degli F/A-18D e F-15E Strike Eagle, ovviamente tutti battenti bandiera a stelle e strisce. Un’altra installazione, quindi si trova sul lago di Patria, dove c’è l’ennesima stazione utilizzata dagli atlantici per le loro comunicazioni. Ben più importante però, quella di Mondragone. Qui infatti c’è il centro di comando USA e NATO posto in un sito sotterraneo antiatomico, in sostanza in caso di conflitto i vertici USA e NATO presenti in Italia troverebbero pronto rifugio in questo qui. La sua esistenza venne alla ribalta nel 1989, quando i Verdi tappezzarono la città con un manifesto dal titolo “I segreti del Monte Petrino”. Ufficialmente l’identificazione di questa base è sempre stata nel Comune di Mondragone anche se le uniche due entrate visibili si trovano in diverso territorio comunale, ad una distanza di almeno 30 km. Le entrate vere e proprie della base, scavate nel cuore della montagna, sono alte oltre due metri e di forma circolare. Osservando la base dall’esterno ormai appare in disuso, ci sono perfino delle colate di cemento che ne hanno chiuso le entrate lasciando solo dei piccoli fori per far are l’aria, tuttavia non è da escludere che l’interno non sia stato smantellato e che in caso di conflitto potrebbe sempre essere utilizzato come il progetto originario prevedeva, ovvero come bunker anti-atomico scavato nella roccia. Un altro presidio per le comunicazioni NATO è poi situato a Montevergine in Irpinia. Due le installazioni presenti in Basilicata, entrambe nella Provincia di Matera. A Cirigliano ha sede un comando delle forze navali
statunitensi del Vecchio Continente, mentre a Pietraficcata si trova un centro di telecomunicazioni utilizzato sia dagli USA, sia dalla NATO. Ben più numerose le installazioni in Puglia, regione centrale sia per controllare sia i Balcani, sia il Mediterraneo meridionale. L’aeroporto di Gioia del Colle appartiene all’aviazione italiana eppure è classificato come Cob ed ha quindi la facoltà all’occorrenza di schierare velivoli dotati di armi nucleari sia della NATO che USA. Oggi si trovano in questo sito i caccia Eurofighter che da gennaio del 2009 hanno iniziato ad essere impiegati nel servizio di allarme italiano e NATO a difesa dello spazio aereo locale. Nei pressi di Brindisi sorge il poligono di tiro atlantico di Punta della Contessa. Ancora nel brindisino si trova poi il sito di San Vito dei Normanni dove è normalmente alloggiato un battaglione dell’Expeditionary Squadron, nonché un ufficio del gruppo di sicurezza elettronico dell’NSA. Qui ha funzionato per tanti anni una struttura top secret, la San Vito Air Station, una sorta di Echelon ante litteram, dotata di antenne circolari tipo Wullenberg capaci di ascoltare ogni genere di segnale telecomunicato, il che comportava evidenti problemi di compatibilità con il rispetto della privacy e delle leggi italiane a tutela della riservatezza delle comunicazioni. Tra i mezzi a disposizione dei
militari che operavano in questa base, un’antenna radiogoniometrica ad alta frequenza AN/FRLG “Elephant Cage” della Nsga, l’apparato fotografico Baker/Nunn della rete di localizzazione spaziale del US Space Command, la stazione radar integrata del sistema Nadge e il centro Setaf di addestramento alla guerra elettronica. Lo scopo di questa installazione era quello di Sigint ed Elint ossia di monitoraggio ed intercettazione delle comunicazioni elettroniche dell’avversario, provvedendo anche a mettere in atto contromisure elettroniche di disturbo contro il suo sistema di comando e di controllo. Negli ultimi anni la base di San Vito dei Normanni è stata snellita e poi recentemente disattivata; probabile che alcune funzioni siano state decentrate in altre località della Puglia mentre altre potrebbero essere state incorporate in sistemi satellitari di intercettazione
globale. Due le strutture nel foggiano: quella di Monte Iacotenente dove si trova il radar Nadge, e l’aeroporto militare di Amendola, dove sono spesso di stanza aerei NATO di Olanda e Belgio. Fondamentale negli interessi geopolitici di USA
e NATO è tuttavia la grande base navale di Taranto. La città pugliese è sede del Maridipart; la base è giuridicamente sotto il comando italiano ma è chiamata a funzionalità logistiche in prevalenza NATO, specie per quanto concerne il rifornimento, la riparazione e il controllo delle operazioni di combattimento. La base navale ospita sia navi militari di superficie, sia sommergibili e nei tre diversi siti in cui è divisa possono attraccare “di diritto” navi e sommergibili dell’Alleanza Atlantica e ciò perché il recente ampliamento è avvenuto con fondi di tutto il Patto. Spesso nel canale di Otranto sono transitati, per giungere in questa base, sommergibili a propulsione nucleare; proprio per questo esiste un apposito “Piano di emergenza per Taranto riguardante incidenti ad unità militari a propulsione nucleare” che prevede l’evacuazione della città. Il piano, rimasto segreto per tanti anni, è stato diffuso via Internet dal sito PeaceLink nel settembre del 2000. Questo era stato richiesto alla Prefettura di Taranto e ottenuto ricorrendo legalmente ad un “diritto all’informazione” contenuto nel Decreto legislativo 230/95. Sempre in riva allo Jonio si trova poi un piccolo arsenale militare destinato alla riparazione ed alla manutenzione delle navi. Oltre a questo sono presenti l’High Readiness Force della marina statunitense ed il sistema di intercettazione telematico C4I, Command, Control, Communications, Computers, and Intelligence, ovvero la più avanzata rete telematica militare per comunicare informazioni e “spiare” obiettivi da colpire. A Grottaglie, nella caserma Maristeli, è invece stata creata la base degli aerei a decollo verticale. Questo presidio, istituto ufficialmente nel settembre del 2002, appena un mese dopo era già diventato sede del Comitmarfor, inserito nel Comstrikforsouth, ovvero il Comando atlantico per l’Europa del sud. Il suo fine è quello di intervenire, con estrema rapidità, al comando di forze aeronavali e anfibie NATO in caso di crisi nell’area del Mediterraneo o in quelle circostanti, con compiti di mantenimento o imposizione della pace, aiuti umanitari e difesa collettiva e in particolare contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Sempre in Puglia si trova poi la base di Martina Franca dove opera il III Roc della NATO, una delle principali strutture di comando di guerra. Dipende dalla V Ataf, la forza aerea tattica alleata della NATO. Esso opera in sintonia con l’installazione di Montedragone per il coordinamento di tutte le forze terrestri, navali ed aeree dei Paesi della NATO, con quella di Affi e di Grezzana. La Calabria, invece, risulta poco funzionale ai giochi geopolitici dell’Alleanza Atlantica e non a caso qui si trovano appena tre installazioni. La prima a Crotone dove è posta una stazione di telecomunicazioni e radar sia USA, che NATO. Nei pressi di Catanzaro, invece, per la precisione a Monte Mancuso, sorge una stazione di telecomunicazioni USA, che durante la Guerra Fredda ha fatto nascere numerose leggende tra la popolazione locale. L’esistenza di questa base, infatti, non è un
mistero ed è anche facilmente visibile, attualmente ha subito un forte ridimensionamento, ma negli Anni ‘50 e ‘60 doveva essere molto attiva se la popolazione era convinta che i militari yankee vi avessero nascosto alcune testate nucleari da utilizzare in caso di aggressione e invasione sovietica. Un altro centro di telecomunicazione USA, questa volta con copertura NATO sorge invece a Sellia Marina. Sull’Aspromonte in località Nardello, si trova invece un ex sito statunitense abbandonato nel 1990.
Le Isole
Torna all’indice
Particolarmente ricche di installazioni NATO e USA sono le due grandi Isole del Mediterraneo: Sicilia e Sardegna. In Sicilia, già detto di Sigonella, si trovano numerose altre basi. A Motta Sant’Anastasia e Caltagirone, comuni entrambi nel catanese, vi sono due stazioni di telecomunicazione USA, subordinate a quella di Niscemi. Il presidio più importante del catanese è sicuramente quello di Vizzini. Qui infatti sono concentrati numerosi depositi a stelle e strisce,
anche se i vertici delle difesa italiana hanno sempre smentito questa presenza. L’aeroporto di Punta Raisi, a Palermo, invece viene utilizzato, anche se in modo molto saltuario, dai velivoli dell’USAF. A Isola delle Femmine sorge una base militare dell’Alleanza Atlantica ove sono stoccati munizionamenti ed armamenti di cui non è nota, né l’esatta tipologia, né la consistenza quantitativa; negli anni ati il gruppo parlamentare dei Verdi presentò un’interrogazione per sapere se fossero state adottate tutte le precauzioni onde scongiurare eventi accidentali che potessero procurare drammatiche conseguenze per la popolazione civile e per rendere di pubblico dominio la natura degli armamenti e dei munizionamenti stoccati presso questa installazione militare. Ancora una volta tutte queste domande non hanno trovato risposta. A Marina di Marza, nel ragusano, si trova l’ennesima stazione di comunicazione USA inserita nel sistema di Niscemi. Altra base degna di una certa importanza è quella di Augusta. Nel corso degli anni questa installazione ha più volte cambiato missione. Nel 1954 era infatti sede del centro addestramento antisommergibili; due anni più tardi divenne sede del I gruppo elicotteristi. Attualmente, la base è sede della VI Flotta americana ed importante deposito di munizioni. Nel febbraio del 2009, qui si è svolta Noble Manta ‘09, la più importante esercitazione dedicata ai mezzi subacquei condotta annualmente dalla NATO. L’esercitazione viene condotta dai comandi Submarines Allied Forces South and Maritime Air Naples, sotto la supervisione del comando alleato componente marittima di Napoli. Questa esercitazione è finalizzata all’addestramento delle unità subacquee e vede la partecipazione ogni anno di forze aeree e di superficie dei Paesi dell’Alleanza. Normalmente qui è alloggiato il personale della marina statunitense per l’Europa meridionale, con
un distaccamento del Naval Activity. A Monte Lauro e Centurie, invece, si trovano altre due stazioni di telecomunicazioni USA, anche queste integrate con Niscemi. La base di Niscemi, attualmente, è il centro del NavComtelsta, il comando che coordina le attività dell’esistente stazione di telecomunicazione navale del presidio. In pratica è indispensabile per le comunicazioni interne alla marina dello Zio Sam. Questa installazione, inoltre, è stata scelta dal Pentagono per ospitare una delle quattro antenne del MUOS, il nuovo sistema di comunicazione satellitare ad altissima frequenza e banda stretta. A Trapani si trova una base dell’aviazione statunitense dotata di copertura NATO, pur risultando essere un aeroporto militare della nostra aviazione. Sull’isola di Lampedusa vi è, invece, una base appoggio della Guardia Costiera USA, nonché un centro d’ascolto e comunicazione dell’NSA, basato sul sistema Loran. Questo, che attualmente in Italia risulta essere disattivo, anche se fuori dai nostro confini ancora in uso, è un sistema di radionavigazione terrestre che utilizza le onde a bassa frequenza e sfrutta l’intervallo di tempo tra i segnali ricevuti da tre o più stazioni per determinare la posizione di una nave o di un aereo. Con l’avvento del sistema GPS il Loran è caduto in disuso. Altro centro per le telecomunicazioni interne alla marina degli Stati uniti è quello situato sull’isola di Pantelleria dove fa bella mostra di sé anche un radar utilizzato dalla locale base aerea NATO. Il problema delle servitù militari è molto sentito in Sardegna visto che l’Isola in pratica ne è piena. Tralasciando La Maddalena, il presidio sta venendo smantellato e sarà trattato a parte, nel sassarese vi è l’installazione di Monte Limbara. Oggi rappresenta semplicemente, si fa per dire, una base missilistica statunitense. Negli Anni ‘70, però faceva parte del Medcom ed era il riferimento italiano di una dorsale troposcatter, un particolare sistema di comunicazione, che dalla Spagna arriva fino ai Paesi mediorientali il tutto tramite un centinaio circa di installazioni controllate dal Pentagono. In Italia ce ne erano svariate disseminate un po’ per tutta la Penisola, in codice la rete interna ai nostri confini era detta Big Rally. Partendo dal settentrione si connetteva al sistema ET-A european tropospheric scatter army. Sempre nei dintorni di Olbia, sull’Isola di Tavolara, si trova una stazione radiotelegrafica di o ai sommergibili della marina di Washington. A Sinis di Cabras, nei pressi di Oristano, vi è un centro del NAS per l’elaborazione dei dati, probabilmente da quelli raccolti dalla vicina installazione di Torre Grande. Poco distante, sul Monte Arci, è invece alloggiata una stazione di telecomunicazioni USA che però opera con copertura NATO. A Capo Frasca si trova invece un importante poligono di tiro normalmente utilizzato dalle truppe NATO ed USA per le loro esercitazioni. In questo sito sono inoltre situati impianti radar, un eliporto e altri presidi di sussistenza. Questa installazione ha un rapporto di
consultazione e collegamento con quelle di Torre Grande e Sinis di Cabras. A Santulussurgiu è invece posizionata l’ennesima stazione di telecomunicazione interna all’aviazione a stelle e strisce che però opera con copertura NATO. Nel nuorese si trova poi il sito di Perdasdefogu. Qui la NATO ha deciso di alloggiare una base missilistica sperimentale con relativo poligono. Nel 2004 questo presidio è diventato anche base per l’addestramento di battaglioni per la guerra elettronica, ciò ha fatto sì che nel sito giungessero anche gli aerei invisibili F-117 Nighthawk, solitamente conosciuti come Stealth. Le truppe in questa base quindi devono apprendere come captare le emissioni elettromagnetiche dell’avversario, ingannarle e disturbarle ed infine devono proteggere la propria attività elettronica dalle contromisure del nemico. Sul mare di Cagliari sorge una base navale d’appoggio degli USA, anche se più importanti sembrano essere le tante installazioni terrestri disseminate in tutto il cagliaritano. A Capo Teulada si trova un famosissimo poligono, che l’estate rimane chiuso per motivi di pubblica sicurezza, ma che durante il resto dell’anno vede svolgersi le esercitazioni aeree ed aeronavali della VI Flotta statunitense e NATO, ed include perfino un centro per l’addestramento delle unità corazzate. Piccolo particolare il tutto si volge su circa 100 chilometri di costa. Per estensione è il secondo poligono d’Italia, anche se, grazie ai finanziamenti dell’Alleanza Atlantica, è destinato a diventare il più grande centro europeo di addestramento. Sia da terra che dal mare, vengono regolarmente utilizzati proiettili e bersagli all’uranio impoverito, il che è causa di un grave inquinamento ambientale e non solo. La Sardegna è la regione italiana a contare il maggior numero di soldati deceduti per presunta contaminazione da uranio dopo aver prestato servizio presso i poligoni dell’Isola. Nel febbraio 2011, il senatore della Lega Nord, Fabio Rizzi, medico, e membro della Commissione parlamentare sull'uranio impoverito, evidenziava che «lo Stato ha sempre detto che l'Esercito italiano non ha mai usato armi arricchite con sostanze radioattive, ma non può affermarlo per le forze armate di tutto il mondo che hanno sparato e sparano ancor oggi quello che vogliono senza controlli nei poligoni italiani e sardi in particolare». Nell’ottobre del 2002 si sono svolte, sempre in Sardegna, imponenti manovre di sbarco anfibio, con la partecipazione del sommergibile nucleare d’attacco USS Oklahoma City. Decimomannu è uno degli aeroporti più grandi, se non il più grande, della NATO, grande come tre scali civili ed è stato rimesso in funzione dopo un accordo stretto nel 1995 tra Italia, Canada e Germania. Attualmente, risulta essere uno scalo miliare degli USA a copertura NATO. Anche nell’aeroporto di Elmas è sede du una base d’appoggio dell’aviazione a stelle e strisce. Poligoni missilistici si trovano a Salto di Quirra; questi sono sia sperimentali, sia di addestramento interforze. Vi si addestrano unità della NATO e della VI Flotta con attività nelle varie
combinazioni terra-aria-mare. Gestito dal Ministero della Difesa italiano è utilizzato anche da alcune aziende private per la sperimentazione di nuovi armamenti. Altro sito in cui la VI Flotta si esercita è quello di Capo San Lorenzo. Tutta la zona è costantemente interdetta ad ogni qualsivoglia tipo di navigazione marittima ed aerea, militare e civile. Nel cagliaritano infine si trova anche il consueto deposito di munizioni USA e NATO, per la precisione su Monte Urpino. Ultimo presidio da esaminare nella regione, quello di Tempio che ospita una base atlantica per ricerche, elaborazione dati ed impianti radar.
Le basi dismesse, o presunte tali
Torna all’indice
Come già detto la continua evoluzione del quadro geopolitico mondiale determina continue modifiche nelle basi USA e NATO e così può capitare che oltre a doversene aprire di nuove alcune vengano chiuse o destinate ad usi civili. Negli ultimi anni, sono quattro i presidi dimessi, o almeno così dicono le autorità competenti, su cui vale la pena di soffermarsi. La prima è quella di Gaeta nel pontino. Per molti decenni questa installazione è stata la base permanente della VI Flotta e della squadra navale di scorta alla nave comando “La Salle”. All’inizio del 2006, le truppe statunitensi e NATO hanno però, smontato le tende. L’annuncio di un ripensamento sul ruolo della base c’era
stato nel 2005, quando l’Ammiraglio Gregory Johnson, comandante del t Force Command NATO di Napoli, aveva annunciato che a breve termine le forze dell’US Navy nel vecchio Continente sarebbero dimezzate ando da 1.100 unità a 500. La base laziale rientrava in questo riposizionamento strategico, con la VI Flotta che si sarebbe spostata in Spagna. Il progetto di rivedere il ruolo della base di Gaeta risale però a qualche anno prima, Falco Accame, già Presidente della Commissione Difesa della Camera, riferì infatti che già il 30 settembre del 1998 il Pentagono aveva deciso di trasferire tutto il presidio in questione a Taranto.
Quando nel 2005, la “La Salle” rientrò negli Stati Uniti per essere avviata alla dismissione, il contrammiraglio Terrence Dudley, comandante della base, affermò: «La nostra marina sta riesaminando tutti gli aspetti della sua presenza in Europa, al fine di rendere ottimali le sue capacità, di ridurre le sue carenze, e di vincere la sfida posta dal cambiamento delle sue priorità di difesa. Il
trasferimento della Sesta Flotta su una nuova base in Spagna è solo una delle molteplici misure in via di elaborazione». Presto però ogni supposizione sulla
chiusura della base venne vanificata dall’arrivo poco tempo dopo, nel porto laziale della “Mount Whitney” che assunse il comando della Sesta flotta USA nel Mediterraneo e che è stata attivamente impegnata sia nel Mer Nero durante la
crisi georgiana del 2008, che più di recente nell’ambito le operazioni contro il regime libico di Muammar Gheddafi. Il comando NATO-Sud rimarrà a Napoli, ma verrà snellito grazie alle nuove tecnologie che permetteranno una rilevante riduzione del personale. Altra installazione che di recente ha subito un vero e proprio restyling l’ex base navale di Brindisi che ha coinvolto anche il presidio di San Vito dei Normanni. Abbandonata dagli americani nel 1993, per molti anni è rimasta inutilizzata anche se, nonostante la formale cessione all’Italia, l’ingresso era categoricamente vietato da parte dei soldati statunitensi che ne piantonavano l’entrata. Nel 1994, fu firmato un accordo tra il Segretario Generale delle Nazioni Unite ed il nostro governo per l’impiego di installazioni militari per operazioni di mantenimento di pace ed operazioni umanitarie, anche se poi ci sono voluti ben sei anni prima che, era il giugno 2000, venisse riaperta la base, questa volta sotto giurisdizione UNHRD. James Morris, direttore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, visitando il sito nel 2007, ricordò il ruolo cruciale ottenuto dalla base in molte emergenze recenti, tra cui quella in Sudan ed in Libano. In gergo questa viene considerata una base “live” sempre pronta per il rischieramento di nuovi reparti, in virtù di ciò l’aeroporto militare di Brindisi è stato trasformato per rispondere a queste finalità divenendo la prima base al Mondo voluta dalle Nazioni Unite come struttura logistica per le operazioni di assistenza umanitaria. Nel 2007 il sito, grazie al nostro Ministero della Difesa, è stato ulteriormente ampliato, anche beneficiando del contributo speciale di cinque milioni di euro per la riabilitazione degli edifici di San Vito messo in campo dalla Farnesina. I nuovi spazi messi a disposizione hanno consentito al PAM di potenziare l’intervento nelle emergenze. Con il are del tempo e l’aumentare delle emergenze umanitarie questa base ha acquisito un ruolo sempre maggiore, tanto che ora questo è
ritenuto dagli esperti un luogo strategico per gli interventi di emergenza. Si calcola che dal giugno 2000, data della sua apertura, questa abbia assistito ogni
anno in media trenta Paesi colpiti da catastrofi naturali o da emergenze complesse, effettuando circa 130 missioni per un totale di 2.000 tonnellate di aiuti inviati, per un valore pari a circa nove milioni di dollari. Il successo e l’efficacia degli interventi della base hanno indotto il PAM ad aprire di recente altre quattro analoghe iniziative in aree strategiche del Mondo: Ghana, Emirati Arabi, Malesia e Panama.
Altro sito, che negli ultimi anni ha rivisto la propria funzione, quello di Comiso nel ragusano. Durante gli Anni ‘80 questo presidio militare era diventato il simbolo dello scontro tra USA e URSS, nonché meta di svariate manifestazioni pacifiste contro l’installazione dei missili Cruise o da crociera. Questi progettati alla fine degli Anni ‘70 potevano essere lanciati da navi, aerei e sommergibili. Avevano una duplice capacità: da una parte quella di tenersi ad una quota bassa, il volo oscillava tra i 20 ed i 50 metri di altezza, ma ad una velocità molto alta e con un’autonomia di 3.500 Km. La loro più grande peculiarità, per lo meno in quegli anni, era però quella di riuscire a sfuggire al controllo dei radar in uso all’epoca. Possedevano, inoltre, la capacità di correggere la loro rotta, adattandola alle asperità del terreno in virtù di due tecniche: la presenza di un computer di bordo che conservava al suo interno il profilo topografico del territorio da sorvolare utilizzando il sistema di navigazione Tercom ed un radar, i cui rilievi altimetrici modificavano in tempo reale la traiettoria del missile, guidandolo sull’obiettivo tramite il sistema Dsmac di confronto e correlazione della scena. Il 6 dicembre 1979 tramite una semplice risoluzione il Parlamento italiano si era impegnato a realizzare nella Penisola la più grande base missilistica d’Europa, nell’ambito della politica della NATO di contrasto della minaccia sovietica. La decisione di impiantarla a Comiso arrivò circa 18 mesi dopo, per la precisione il 7 agosto del 1981. In questo lembo di terra siciliano giunsero 112 missili Cruise a testata nucleare e la struttura ospitò anche il 487° battaglione US Army americano, questo fino al 27 maggio 1991, giorno in cui i missili furono rimossi dal territorio italiano, grazie allo storico accordo ReaganGorbaciov, stipulato l’8 dicembre 1987. Da quel giorno per la base si aprì una nuova fase, preludio ad un forte ridimensionamento, con parte dell’opinione pubblica che spingeva per una riconversione delle sue strutture. Dal 2008 Comiso è stata riconvertita ad aeroporto civile. L’Amministrazione USA, solitamente restia a cedere installazioni militari, nell’occasione aprì una trattativa con Roma, anche perché il mantenimento della struttura costava annualmente 500 miliardi di lire equamente divisi tra le casse dei due Paesi e da quella della
NATO. Per tre mesi, nella primavera del ‘99, l’ex base missilistica divenne il cuore di una grande campagna umanitaria che vide l’occupazione di gran parte dei 13.000 posti letto da parte dei profughi dal Kosovo. Nel 2004 per decidere il futuro di questa installazione scese in campo anche una commissione di esperti statunitensi dell’Eucom che guidata dal capitano di Vascello Timothy Lee Davison, aveva il compito di capire se questa potesse essere ancora funzionale agli interessi USA, ovviamente a costi ragionevoli, o meno. Alla fine, la commissione diede il via libera alla riconversione della ex base missilistica in aeroporto civile di secondo livello, tramite lavori interamente finanziati con fondi europei per una spesa di quasi 50 milioni di euro spesi per realizzare una nuova pista di atterraggio, la torre di controllo e le relative attrezzature di volo, le aree eggeri, i parcheggi, gli uffici, la logistiche e tutte le altre infrastrutture necessarie.
Nel gennaio 2008 gli USA dopo oltre trent’anni hanno invece abbandonato la base di Santo Stefano alla Maddalena, in gergo militare conosciuta come Navsuppact La Maddalena. Per anni è stata la sede del comando del Submarine Squadron 22, nonché base delle navi appoggio sottomarini “USS Emory S. Land” e “USS Simon Lake”. Qui tutto ha inizio nel 1972, con la stipula di un accordo tra il governo degli Stati Uniti e quello italiano, all’epoca presieduto da Giulio Andreotti, per l’apertura a Santo Stefano di una base della marina statunitense nell’ambito del sistema di difesa NATO. I termini dell’accordo tra il Governo italiano e quello degli Stati Uniti, ovviamente, non sono mai stati resi noti. Sette anni dopo l’apertura della base viene predisposto un piano di emergenza nel caso di incidenti e di conseguente rischio di inquinamento radioattivo, anche se gli abitanti della zona e con essi gli italiani, ne vengono a conoscenza solo venticinque anni dopo. Nella base erano alloggiati sommergibili a stelle e strisce che negli anni sono anche rimasti coinvolti in alcuni incidenti. Il 20 settembre del 1977, ad esempio, il sommergibile atomico americano “USS Ray” urtò violentemente il fondale marino a 70 miglia a sud di Cagliari, mentre il 18 novembre dello stesso anno toccò al sommergibile “USS Hartford” andare contro una secca. L’entità dei danni fu tale
da richiedere un’immediata riparazione, questi per citare solo due episodi anche se ancora oggi, a più di trenta anni di distanza i medici di base continuano a
denunciare percentuali anomale di tumori e alterazioni genetiche. Nel 2003 è stato avviato l’iter amministrativo per una serie di lavori nella base di Santo Stefano che ha scatenato una vera e propria guerra di cifre mentre l’anno successivo tornò a farsi largo lo spettro radioattività. Il CRIIRAD, un istituto di ricerca se che
studia questo fenemeno, diffuse infatti i dati di una campionatura fatta sulle alghe tra La Maddalena e Bonifacio, segnalando valori di radioattività 400 volte superiori alla norma. Il 14 gennaio di quell’anno, la Regione Sardegna firmò a Roma un protocollo d’intesa col governo che dava in pratica il via libera alla ristrutturazione, con il quale veniva anche categoricamente escluso che si sarebbe trattato di un qualche ampliamento di questa installazione; appena due settimane dopo l’inaspettato colpo di scena: il Consiglio Regionale della Sardegna approvò infatti un ordine del
giorno di centrosinistra e sardisti che prevedeva un monitoraggio nell’Arcipelago della Maddalena, affidando a istituti di ricerca indipendenti il rilevamento dell’effettivo livello di inquinamento radioattivo nell’aria e nell’acqua. Veniva anche chiesto lo smantellamento della base USA di Santo Stefano “entro un periodo di tempo ragionevole e prestabilito”. Il neo governatore Renato Soru fiutò l’aria e si impegnò subito in questo progetto indicando nella riduzione delle servitù militari una delle priorità del governo regionale. Il 23 novembre del 2005, il Pentagono annunciò finalmente che l’installazione sarebbe stata chiusa. La decisione, fanno sapere da Oltreoceano, è giunta dopo che la Difesa ha determinato che le sue caratteristiche “non servono più nell’ottica della strategia attuale, mirata alla lotta al terrorismo”.
Un portavoce del Pentagono si affrettava ad aggiungere che gli Stati Uniti, dopo consultazioni con l’Italia, avevano deciso che avrebbero rimosso le loro forze dall’installazione della Maddalena, chiosando che, a suo tempo, comunque, questa installazione era stata pensata ed utilizzata a beneficio della reciproca sicurezza, aspetto questo evidentemente venuto meno qui come in altre basi mentre i nuovi scenari geopolitici determinavano l’ampliamento di altre
installazioni più funzionali alle politiche militari dello Zio Sam.
Capitolo 2
L’Italia ed il fantasma nucleare
Torna all’indice
Come già anticipato, per circa mezzo secolo l’Europa è stata terreno di scontro frontale tra le due Superpotenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Oltre ad aver disseminato il Vecchio Continente di basi militari e soldati, per spaventare il nemico venne ovviamente usato anche il deterrente nucleare.
A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della Guerra Fredda, però, non solo quelle installazioni belliche e quei militari sono rimasti, ma anche le testate nucleari continuano ad essere nascoste negli stessi bunker da chissà quanti decenni.
Attualmente, sono almeno sei le basi, dislocate in cinque Paesi europei che volenti o nolenti, ospitano al loro interno delle testate nucleari
Nel 2005 le testate nucleari ivi presenti ammontavano a 480 unità, numero, comunque, approssimativo visto che i vari accordi stretti da NATO-USA e Paesi alleati sono coperti dal massimo segreto e che le stime sono state fatte in base alla grandezza dei bunker dove si presume si trovino questi ordigni.
Da quel poco che si è riusciti a scoprire, queste bombe vengono gestite attraverso un sistema di sicurezza per l’immagazzinamento degli armamenti, ideato durante gli anni della Cortina di Ferro, che prevedeva di collocare le testate nucleari, insieme ad armi convenzionali, in rifugi sotterranei con apertura a tempo. Questi hangar sotterranei sono in grado di ospitare, ognuno, quattro testate, e sono spesso affidati agli uomini di squadre composte all’incirca da 150 militari. Questi sono tenuti ad attenersi in modo rigoroso e preciso all’AFI 21204, risalente al maggio del 2007, documento che fornisce le linee di condotta e le procedure per la manutenzione, la certificazione, il movimento logistico e le procedure di controllo per le armi nucleari. Questo protocollo va applicato a tutto il personale che mantiene, tratta e controlla le armi nucleari. Tra l’altro riporta esplicitamente il principio e la pratica del “nuclear sharing”, nella parte in cui precisa che la custodia continua delle armi nucleari e delle loro componenti da parte degli Stati Uniti, “ è obbligatoria fino al ricezione di un ordine valido relativo al controllo nucleare, che permetta il trasferimento delle armi nucleari USA a forze armate non americane incaricate del loro utilizzo”.
Altra procedura da osservare è quella stabilita, il 29 gennaio 2007, dall’USAF nuclear surety staff assistance visit and functional export visit program managment; questo documento più nel dettaglio fissa i criteri e le procedure per le ispezioni in siti con ordigni nucleari e per le verifiche sulle condizioni di sicurezza.
La presenza di questo tipo di bombe in Europa è stata indirettamente ammessa da Washington nel febbraio 2005, tramite alcuni documenti ufficiali declassificati, e contenuti un rapporto sulle armi nucleari a stelle e strisce nel Vecchio Continente. All’epoca, stando ai dati resi noti dal Natural Resocurcese Defense Council, risultava che il Pentagono, in base ad una decisione assunta nel novembre del 2000 dall’allora Presidente Bill Clinton, manteneva in Europa poco meno di 500 testate nucleari, dislocate in otto diverse basi di sei differenti Paesi, tutti aderenti alla NATO. In base a questo documento risultavano 150 bombe alloggiate in tre basi tedesche, 110 in una inglese, 90 in Italia tra Ghedi ed Aviano, altrettante in Turchia, 20 in Belgio e 20 in Olanda. Tutte sarebbero bombe tattiche aviolanciabili B-61Mod 11, costruite però, in almeno tre differenti versioni con una potenza che oscilla dai 45 ai 170 kiloton, una potenza
distruttiva pari a 900 volte l’effetto prodotto sulle bombe sganciate alla fine della Seconda Guerra Mondiale dagli USA sul Giappone.
Gli USA continuano a mantenere parte del loro arsenale atomico in Europa con il solito pretesto di voler prevenire i conflitti come affermava anche la “Direttiva 60”, promulgata sempre da Clinton nel 1997, in cui viene ribadito che questo tipo di armamenti non solo continua ad essere puntato su Russia e Cina, ma possono essere usate contro “Stati canaglia” e perfino contro “soggetti nonstatali che minaccino gli Stati Uniti, le loro truppe all’estero e i loro alleati con armi di distruzione di massa”, anche non nucleari.
Rispetto alla situazione denunciata nel 2005, ora la realtà sarebbe leggermente diversa, con il numero degli ordigni presenti un’Europa di poco inferiore. Il 27 giugno del 2008, infatti, è venuta alla luce la notizia, fino a quel momento top secret, che gli USA avevano rimosso tutti gli ordigni nucleari dalla Gran Bretagna mettendo fine ad una presenza durata oltre mezzo secolo. Ad informare l’opinione pubblica europea in generale e quella britannica in particolare il FAS un nucleo di scienziati che spesso collabora con gli esperti del Pentagono.
L’associazione degli scienziati americani si è anche chiesta perché l’Amministrazione Bush abbia deciso di tenere segreta questa iniziativa, noi azzardiamo che alla volontà di veder risalire i propri livelli di gradimento in Europa la Casa Bianca abbia preferito evitare discussioni capaci di innescare una sorta di effetto domino negli altri Paesi alleati che ancora hanno il “privilegio” di mantenere questo tipo di ordigni.
Un anno prima, nel luglio 2007, sorte analoga era toccata alla base tedesca di Ramstein, nella regione della Renania; tolte anche qui infatti le 130 testate atomiche degli Stati Uniti che fino a quel momento vi erano custodite.
Già nel 2005 le testate USA erano state spostate per motivi di sicurezza quando iniziarono ampi lavori di ristrutturazione della base aerea americana, diventata, dopo la chiusura di quella di Francoforte, la più importante in Europa. Ancora prima, nel 2001, le atomiche statunitensi erano state rimosse anche dalla base greca di Araxos, anche se negli Anni ‘80 e ‘90 i vari governi ellenici che si erano avvicendati al potere avevano sempre smentito tale presenza.
In mancanza di notizie ufficiali sul destino delle bombe rimosse da Grecia, Germania e Gran Bretagna, due le ipotesi che si possono avanzare: la prima è che queste testate siano state riposizionate all’interno dell’Europa, la seconda è che siano tornate a casa. La più plausibile appare quest’ultima, sia perché i nuovi impegni geopolitici degli USA e della NATO hanno in parte tolto importanza all’Europa sia, soprattutto, perché trattandosi di ordigni ormai obsoleti non hanno la funzionalità richiesta attualmente e quindi possono anche essere sacrificati, oltretutto creando nuovi rapporti di fiducia con i Paesi alleati.
Ovviamente, in Europa non tutti sono disposti ad accollarsi i rischi derivanti dal possesso di armi atomiche per giunta di proprietà di un Paese terzo tanto che, a cadenza quasi periodica, qualcuno torna ad alzare la voce contro questa situazione. L’ultima levata di scudi si è avuta tra il 2005 ed il 2007 quando fonti del Pentagono hanno denunciato rischi per la sicurezza in alcuni presidi. Il mantenimento di questi armamenti in Europa appare anche una palese violazione, da parte di Washington, del Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty). Questo siglato, l’8 dicembre 1987, infatti, imponeva lo smantellamento di tutti i missili, di crociera e balistici, vettori di armi convenzionali o nucleari, con un raggio d’azione dai 500 ai 5.500 chilometri. Tre anni dopo, secondo il calendario stilato dalle parti erano state smantellate e distrutte 2.692 di tali armi, 846 statunitensi e 1.846 sovietiche, evidentemente non tutte visto che ancora oggi il Vecchio Continente appare un vero e proprio campo minato.
L’8 luglio 1996, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati sono giuridicamente obbligati a condurre e concludere in buona fede
negoziati che portino al disarmo nucleare totale, in osservanza dell’Articolo 6 del Trattato di non proliferazione nucleare. Eppure come abbiamo appena visto sono ancora molte le testate atomiche made in USA pericolosamente presenti in casa nostra.
Nel febbraio 2010, a livello europeo, si è registrata una piccola presa di posizione comune da parte di alcuni Paesi contro queste testate, cui l’Italia non ha però preso parte. Belgio, Germania, Lussemburgo, Olanda e Norvegia hanno infatti chiesto di porre la questione all’ordine del giorno del successivo summit NATO, aprendo anche ai canali diplomatici per portare dalla loro parte altri Stati europei. In quest’ottica Guido Westerwellw, ministro degli Esteri tedesco, chiese ufficialmente agli Stati uniti la rimozione delle testate nucleari presenti i Germania. Ad alimentare le speranze dei Paesi del Vecchio continente alcune indiscrezioni fornite dal New York Times secondo cui l’Amministrazione Obama stava ventilando la possibilità di rivedere i piani di guerra nucleare. Le speranze, però, morirono sul nascere visto che il summit dell’Alleanza Atlantica, del novembre 2010, a Lisbona, non prese nemmeno in considerazione questa proposta dal momento che il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton dopo poche settimane rispedì al mittente la richiesta europea.
L’Ascia di pietra e le atomiche USA
Torna all’indice
Stone Ax, è il nome in codice posto da Washington sull’accordo, ovviamente segreto, tra Italia e USA che regola la presenza delle atomiche a stelle e strisce nella Penisola. A darne notizia fu, nel gennaio del 2005, William Arkin, ex analista d’intelligence per l’esercito americano nel libro “Code names: deciphering U.S. military plans, programs and operations in the 11/9 world” in cui rendeva noti circa 3.000 nomi in codice impiegati dal Pentagono per le varie operazioni segrete condotte nei quattro angoli del Mondo. Nel volume viene appunto precisato che Stone Ax si riferisce all’accordo tecnico segreto tra Roma e Washington riguardante l’eventuale spiegamento dell’arma nucleare, questo inoltre prevedrebbe anche il principio della “doppia chiave”, ovvero la possibilità che una parte di queste armi possa essere usata dalle forze armate italiane una volta che gli USA ne abbiano deciso l’impiego; accordi simili sottoscritti con gli altri Paesi europei dotati dell’atomica statunitense sono invece denominati: Toolchest, relativo al dispiegamento dell’arma nucleare redatto con la Germania; Toy Chest con l’Olanda, mentre quello con il Belgio è Pine Cone.
Ovviamente dei dettagli dell’accordo italiano si sa molto poco, perfino il periodo in cui questo è stato sottoscritto è avvolto nel mistero. Il centrosinistra in Parlamento ha più volte accusato Berlusconi di averlo sottoscritto posteriormente all’11 settembre 2001, ma da un rapporto del Natural Resources Defense Council del 2005 e da quanto dichiarato in alcune interviste da Arkin, sembra più plausibile credere che questo accordo, così come gli altri simili, siano stati sottoscritti dopo la Seconda Guerra del Golfo essendo oltretutto suscettibili di periodiche revisioni ed aggiornamenti. In realtà, un primo trattato Stone Ax sarebbe stato sottoscritto già durante gli Anni ‘50, di conseguenza tutti i governi che si sono avvicendati nel corso dei decenni ne erano a conoscenza. Recentemente, però, proprio dal centrodestra, sarebbe stato sottoscritto un nuovo accordo denominato sempre Stone Ax che prevedrebbe la condivisione nucleare e che non sarebbe ato per via parlamentare, così come tutti i patti segreti militari stipulati dai due Paesi.
Alcune dichiarazioni rilasciate, nel febbraio del 2005, sempre da Arkin non aiutano a far luce. Stando a quanto dichiarato dallo scrittore, infatti, la presenza degli ordigni nucleari sul territorio italiano sarebbe legata all’interesse dei mandarini europei della NATO, ovvero l’insieme della burocrazia civile e militare di Paesi membri che vede nella condivisione negli arsenali un modo per contare di più nell’Alleanza occupando un posto accanto agli Stati Uniti nel consiglio di pianificazione nucleare della NATO. Chiaramente, non appena il contenuto del libro di Arkin è diventato di pubblico dominio, in Italia si è accesa la solita sterile polemica, con gli esponenti della sinistra più o meno radicale che invocavano chiarezza mentre il governo ha tentato di minimizzare il tutto.
L’eurodeputato dei Comunisti italiani Marco Rizzo rivolgeva le proprie domande in materia alla Commissione Europea chiedendo: «È ammissibile che uno Stato terzo, cioè gli USA, utilizzi basi di altri Paesi per portare a termine progetti segreti il cui fine è sconosciuto? Oppure qualcuno è al corrente di questi piani ma ritiene opportuno che la politica non debba essere investita del problema?».
Oltre a questo importante, ma misterioso, documento, ce n’è un altro che appare utile e doveroso ricordare ovvero il Principio Strategico dell’Alleanza, questo, approvato dai vari capi di Stato interessati, all’Articolo 62 lascia poco spazio ad interpretazione varie affermando: «L’Alleanza Atlantica, per garantire che la sua posizione nucleare sia credibile, deve continuare ad esigere dagli alleati europei coinvolti nella pianificazione della difesa collettiva un ruolo attivo nelle questioni nucleari, lo spiegamento di forze nucleari sui loro territori in tempo di pace e la partecipazione ad accordi per gestire il comando, il controllo e la consultazione».
Il fatto che l’Italia ospiti queste bombe determina anche un problema giuridico tutt’altro che secondario: nel 1975 Roma ha infatti ratificato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare che, all’Articolo 2, stabilisce che ciascuno degli Stati non nucleari si impegna a non ricevere da chicchessia armi atomichei o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su di essi, direttamente o
indirettamente; a rendere il quadro ancora più complesso il pronunciamento della Corte dell’Aja che vieta l’importazione ed il transito di armi nucleari.
Ghedi, Aviano ed il segreto di Pulcinella
Torna all’indice
La presenza delle atomiche statunitensi in Italia, nonostante alcune goffe smentite di alcuni nostri politici e la cortina fumogena che avvolge l’argomento, è ormai un fatto assodato.
Premesso che una datazione precisa dello Stone Ax è molto difficile, già negli Anni ‘80, per la precisione l’11 luglio 1986, ovvero appena due mesi dopo il disastro di Cernobyl ed il rinnovarsi dello spettro nucleare, gli italiani vennero a conoscenza del fatto che un piccolo arsenale atomico avrebbe potuto celarsi proprio dietro il giardino di casa. Le agenzie di stampa batterono, infatti, la notizia, appresa dal “Washington Post” che il Pentagono aveva appena illustrato alla sotto-commissione della Camera statunitense il Piano WS3 per ottenere gli stanziamenti per le costruzioni militari durante l’anno fiscale.
Il progetto prevedeva che in 25 basi aeree americane sparse per il Mondo, tra cui quelle italiane di Aviano, Ghedi e Rimini, sarebbero stati dislocati bombardieri atomici ed ordigni nucleari in un modo più sicuro ed efficace: anziché in normali arsenali si prevedeva infatti di stivarli sotto gli hangar dei bombardieri all’interno di speciali rifugi.
Inizialmente, nell’elenco era compresa anche la base siciliana di Comiso, ma dopo la vicenda legata ai missili Cruise questa opzione era caduta nel vuoto.
Stando a quanto asserito dal quotidiano statunitense gli alti ufficiali della Difesa, durante la loro audizione, non avrebbero discusso delle basi come luoghi dove già questi ordigni sarebbero stati stipati, ma avrebbero tenuto un discorso riferito al futuro o al condizionale.
Nel novembre del 1991, durante il tredicesimo vertice della NATO, che nell’occasione si teneva proprio a Roma, George Bush senior propose agli alleati il ritiro parziale delle bombe d’aereo B-61, ovvero quelle atomiche che l’Alleanza Atlantica, invece, voleva mantenere in Europa. All’epoca, in Italia ce ne sarebbero state circa 200, di cui 150 nella sola base di Aviano e le restanti equamente divise tra gli aeroporti di Ghedi e Rimini. Un anno dopo, almeno stando ai numeri snocciolati da Greenpeace, in seguito al vertice sarebbero rimaste sul suolo italiano 150 bombe, con il ridimensionamento che avrebbe interessato solo una piccola parte di quelle precedentemente stoccate ad Aviano, anche se a breve-medio termine il numero era destinato a scendere ancora.
La presenza delle testate nucleari nel nostro Paese cadde per alcuni anni nel dimenticatoio, finché non ci pensarono proprio gli alleati d’Oltreoceano a ricordarlo agli italiani.
Robert Norris, studioso del Natural Resoruces Defense Council di Washington, dopo aver consultato alcuni documenti del Pentagono, ha confermato che in Italia ci sono testate nucleari, quantificandole, però in una trentina, venti delle quali nascoste nella base americana di Aviano, le restanti dieci a Ghedi Torre.
La storia appare avvolta nel mistero perché, come riferisce sempre Norris, quasi tutta la parte che riguarda lo Stivale sarebbe stata cancellata; gli studiosi che hanno operato con lui però, sarebbero ugualmente riusciti a ricostruire le parti mancanti analizzando nei minimi dettagli le varie tabelle allegate al documento principale e confrontandole con il contenuto di altre fonti prese in esame.
Parlando con la principale agenzia giornalistica italiana lo studioso ipotizzò: «Evidentemente il governo americano considera la storia del suo arsenale atomico in Italia ancora troppo delicata per essere pubblicata, o forse non ha ottenuto il consenso delle autorità italiane. Ma la presenza delle bombe si può
accertare studiando i movimenti delle truppe americane che controllano le munizioni nucleari». Secondo quanto emerse dalla ricerca, infatti, i primi ordigni nucleari arrivarono in Italia nell’aprile del 1957, anche se già da alcuni mesi prima le truppe dello Zio Sam di stanza nei nostri confini erano state equipaggiate con missili Corporal e Honest John, su cui vennero montate testate nucleari tattiche da impiegare, nel caso di attacco sovietico, contro le masse di carri dell’Armata Rossa.
Negli Anni ‘60 e ‘70 vennero dispiegati altri tipi di missili, mortai da otto pollici per il lancio di ordigni nucleari, e bombe atomiche di profondità destinate agli aerei della base di Sigonella per la caccia ai sottomarini sovietici nel Mediterraneo. Insomma, in Italia le atomiche statunitensi ci sono, l’unica incertezza riguarda il numero esatto visto che anche la loro dislocazione nelle installazioni di Ghedi ed Aviano ormai è da darsi per assodata.
Le reazioni della popolazione civile
Torna all’indice
Da sempre buona parte della popolazione civile delle zone interessate, e non solo, alla presenza di basi militari americane, non apprezza troppo, l’ingombrante presenza nucleare vicino casa, tanto che, il 22 dicembre 2005, il governo degli Stati Uniti è stato citato in giudizio da alcuni cittadini pordenonesi con la richiesta che venissero rimosse le armi atomiche presenti ad Aviano, in quanto pericolose ed in contrasto con il Trattato di non Proliferazione Nucleare.
Il 28 marzo del 2007, i legali della Difesa statunitense e del governo di Washington hanno avanzato una richiesta di sospensiva del procedimento in attesa del pronunciamento della Cassazione. Secondo i legali a stelle e strisce la competenza sulla materia non sarebbe dei tribunali italiani, mentre per i legali dei cittadini di Pordenone nulla avrebbe arrecato danno al proseguimento del dibattimento.
La matassa, come riferito anche nel paragrafo relativo al presidio di Aviano, è stata dipanata solamente con il pronunciamento delle sezioni unite della Cassazione che hanno confermato il difetto di giurisdizione dei nostri giudici per ciò che concerne la sicurezza militare tra Italia ed USA. La popolazione civile però, non si è arresa, tanto che, il 7 luglio 2008, più di 60.000 firme sono state consegnate alla Camera in sostegno della legge di iniziativa popolare contro i trattati, le basi e le servitù militari. Il comitato promotore, tramite una nota, ha ribadito la convinzione che sia ormai tempo di «prendere di petto i trattati militari segreti dietro cui si nascondono i governi italiani, come nel caso del Dal Molin a Vicenza, per giustificare la costruzione e la presenza di basi militari e armi nucleari USA e NATO sul nostro territorio».
Da segnalare che pochi mesi prima il sindaco di Ghedi, Anna Giulia Guarneri, e quello di Aviano, Stefano Del Cont, si erano uniti a quelli di Peer, in Belgio,
Uden, in Olanda, Incirlik, in Turchia, ed al Presidente del Consiglio del Landkreis Vulkaneifel (una provincia della Renania-Pfalz, in Germania) per chiedere che i loro territori fossero liberati dalle armi nucleari ancora presenti sul suolo di Stati europei non-nucleari. Questi politici sono tutti membri del Network Mayors for Peace, l’associazione, presieduta dal sindaco di Hiroshima, che, dal 1982, promuove l’eliminazione di tutte le armi atomiche entro il 2020, oltre allo sviluppo della pace nel mondo e che conta l’adesione al 2011 di 2.963 primi cittadini (dei quali 304 italiani, i più numerosi dopo quelli di Giappone, Belgio e Germania) di 134 Paesi.
Capitolo 3
Vicenza e la base della discordia, cronologia di una protesta di popolo
Torna all’indice
Come evidenziato nelle pagine precedenti, i rapporti tra USA ed Italia (a livello di cittadinanza, certo non di governo) nel corso degli ultimi anni hanno subito vari mutamenti, ma la stessa cosa è accaduta anche riguardo ai rapporti tra i cittadini e le pretese bellico-militari di Washington.
Se prima infatti da parte degli italiani, quanto meno da parte della maggioranza silenziosa, c’era una sorta di benevolenza, negli ultimi tempi sembra essere subentrata quasi una vera e propria antipatia, come si è visto di recente nella vicenda relativa all’edificazione della nuova caserma Ederle nel vicentino, una zona dove la presenza dei militari americani è già corposa. Tutta la vicenda ha inizio verso la fine di settembre del 2006, quando il settimanale L’Espresso diede notizia delle richieste avanzate dalle forze armate americane di impiegare le aree dell’aeroporto Dal Molin per espandere la propria presenza a Vicenza.
Nel dettaglio il settimanale sosteneva che la più potente fortezza americana fuori dagli Stati Uniti sarebbe stata realizzata entro il 2010 a meno di un chilometro dal centro della città berica. Nelle intenzioni del Pentagono questa avrebbe a quel punto rappresentato “il cuore ed il cervello della risposta bellica di pronto intervento sull’intero scacchiere mediorientale, Iraq e Afghanistan inclusi”. Il piano, all’epoca, prevedeva l’investimento di oltre trecento milioni di dollari, già stanziati per il 2007, per la costruzione di nuove caserme e strutture, come prima fase di un programma di installazioni da completare appunto entro il 2010, per
una spesa complessiva che potrebbe raggiungere il miliardo di dollari, secondo le stime iniziali fornite dalla difesa americana.
Entro tale data, rivelava L’Espresso, sarebbe sorta a Vicenza la prima superbrigata aviotrasportata, che avrebbe trasformato l’attuale 173^ Brigata paracadutisti in una Brigade Combat Team, una forza di fuoco impressionate con capacità di venire inviata in pochi giorni in qualunque zona del Medio Oriente, del Mediterraneo e del Caucaso. A pieno regime questa unità dovrebbe arrivare a disporre di quasi 5.000 paracadutisti, oltre cinquanta carri armati pesanti M1, novanta veicoli blindati da combattimento, che ora si trovano ancora in Germania, due batterie di artiglieria e rampe di missili multipli a lungo raggio. Il piano contempla inoltre anche la presenza di una cellula di intelligence militare, con aerei spia senza pilota e strumentazioni elettroniche per intercettare le comunicazioni radio.
Sempre in base al contenuto di questo articolo, si apprendeva anche che il Pentagono aveva preso questa decisione già nel 2005 con l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che l’aveva prontamente avallata senza darne la minima pubblicità, un po’ come avviene per tutti gli accordi militari tra i due Paesi, e venne annunciata dal comandante delle forze armate americane in Europa direttamente davanti al Senato statunitense: “il nostro comando - disse in quell’occasione il comandante, secondo quanto riportava l’articolo - ha piani per espandere impianti e infrastrutture nell’area di Vicenza, includendo le strutture militari americane all’aeroporto Dal Molin favorendone la crescita attraverso la ristrutturazione”. Subito ovviamente scoppiò il solito vespaio di polemiche all’italiana, con il centrodestra che cercava di minimizzare il tutto, rilanciando peraltro l’importanza del rapporto con gli alleati d’Oltreoceano mentre la sinistra radicale insorgeva cercando di spronare il governo, al tempo quello bianco-rosso di Romano Prodi, a precisare la portata delle parole riportate dal settimanale e soprattutto per conoscere le intenzioni dell’esecutivo in materia.
Il 21 settembre di quell’anno, infatti, i senatori di Rifondazione chiedevano ai Ministri degli Esteri, Massimo D’Alema, e della Difesa, Arturo Parisi, un
incontro urgente per avere chiarimenti su quanto riguardava la caserma Ederle di Vicenza e l’aeroporto Dal Molin, parlando di “progetto insensato al quale i cittadini erano contrari sia perché avrebbe interessato un’area verde, sia perché non volevano consentire la sopraffazione di un governo straniero sul territorio italiano”.
L’eco delle polemiche scoppiate a Roma e Vicenza arrivò subito anche a Washington, con il Pentagono che si affrettò a dare la propria versione dei fatti.
La Difesa a stelle e strisce smentì immediatamente l’intenzione di separare in due basi diverse a Vicenza la 173^ Brigata aviotrasportata, o di utilizzare l’aeroporto Dal Molin per le proprie attività militari, sostenendo che queste sarebbero state ancora gestite nell’installazione di Aviano. Commentando l’articolo apparso sulla stampa italiana il comandante di Marina Joe Carpenter parlò di notizie false, ricordando che già il Ministro della Difesa statunitense Donald Rumsfeld riferendo della volontà di riposizionare le forze militari americane aveva escluso la volontà di creare nuove installazioni sulla falsa riga di quella tedesca di Ramstein, che non a caso era in quel periodo oggetto di un vero e proprio ridimensionamento. In termini numerici però, il Pentagono ammetteva che il personale militare di stanza nella città veneta sarebbe ata da 2.900 uomini a poco meno di 5.000, e soprattutto che la nuova aerea che sarebbe entrata a loro disposizione era di circa quaranta ettari, smentendo, per l’ennesima volta, la volontà di realizzare la più grande base sul suolo europeo. Il portavoce del Pentagono aggiunse anche che l’Amministrazione stava lavorando in stretto rapporto con il governo italiano e con le autorità locali, riferendo che i progetti riguardanti la città veneta facevano parte di una più vasta riorganizzazione delle forze armate americane, pensata per dislocarle nei luoghi dove fosse poi possibile utilizzarle con maggiore flessibilità. Per ammorbidire il clima politico e soprattutto per cercare di portare dalla propria parte i cittadini vicentini, onde evitare anche le tante contestazioni che poi invece non sono mancate, gli USA si affrettarono anche a far sapere che i lavori non solo sarebbero stati affidati a ditte italiane, ma che allo stesso tempo i livelli occupazionali italiani nel complesso militare sarebbero aumentati.
Veniva poi precisato che nell’installazione non vi sarebbero stati in assoluto carri M1, blindati M2 Bradley, nessun tipo di artiglieria semovente e mortai, né tanto meno lanciamissili MLRS, così come non vi sarebbe stato nessun tipo di aereo da ricognizione senza pilota tipo Predator, smentendo quindi le indiscrezioni apparse sulla stampa tricolore.
Mentre le autorità militari statunitensi erano impegnate ad addolcire la pillola alla popolazione civile, i politici italiani davano vita ad un vero e proprio gioco delle parti, non solo per negare quanto affermato a Washington e dintorni, ma anche per cercare di smentire quella che poi si sarebbe dimostrata la realtà.
Il 28 settembre del 2006, riferendo al termine del question time del giorno precedente, il parlamentare del PDCI Severino Galante, all’epoca componente della commissione Difesa di Montecitorio, sosteneva l’inesistenza di un qualche impegno formale da parte del governo italiano verso quello alleato sul progetto Ederle 2 e che la crescente protesta della cittadinanza vicentina contro l’ampliamento della base militare Dal Molin “aveva spinto il Governo sulla via della totale riconsiderazione del progetto”. Galante poi scaricava le responsabilità verso l’amministrazione comunale alla quale era stato chiesto un parere di accettabilità: “non ha praticamente detto o fatto nulla, lasciando supporre l’implicita non accettazione del progetto”, anche perché gli uffici tecnici del Comune di Vicenza avevano già dichiarato tale edificazione in contrasto con il Piano regolatore comunale.
Nel frattempo iniziava a far sentire la propria voce anche l’allora sindaco di centrodestra Enrico Hüllweck; questi prima sollecitava un incontro in materia con le istituzioni, quindi affermava di essere stato piantato in asso da quello che era in quei giorni Vice Presidente del Consiglio sco Rutelli.
Venti giorni dopo le prime indiscrezioni pubblicate da L’Espresso, intanto un sondaggio eseguito dalla Demos registrava la contrarietà dei cittadini a questo nuovo presidio bellico. Su 1.502 intervistati più della metà si erano schierati per
il no, con ben sette su dieci che si dicevano pronti a seguire lo sviluppo della vicenda.
Secondo l’analisi, era soprattutto l’elettorato di centrosinistra a voler dire no all’allargamento della base, ma più di uno su tre degli elettori della CDL si diceva pronto ad opporsi al progetto.
Chi si dichiarava a favore di questa installazione militare poneva a base della sua scelta motivi di carattere economico: la caserma, pensavano, porterebbe benessere alla città, che invece soffrirebbe una contrazione in termini di lavoro e occupazione in caso gli americani dovessero decidere di portare la loro base altrove. Chi invece votava no, lo faceva perché non condivideva l’idea che eventuali attacchi al Medio Oriente partissero da Vicenza, o perché temeva per la sicurezza della città. A queste motivazioni si intrecciavano poi preoccupazioni circa la viabilità e la qualità ambientale. Tutti sembravano, infine, volere il referendum: l’84% degli interpellati chiedeva che la parola definitiva sull’installazione militare fosse lasciata ai cittadini.
Dal canto suo l’Amministrazione USA, che a quei tempi anche in patria non godeva di alti livelli di popolarità, cercava di gettare acqua sul fuoco con Frank Helmick, Comandante Generale della Setaf, che parlando con la stampa italiana assicurava: «Non esiste alcun accordo firmato per la realizzazione dell’ampliamento della base americana presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza», precisando che quella, però, era l’aerea più vicina che meglio si prestava al progetto del Pentagono.
Il 21 ottobre, intanto, faceva il proprio ingresso sulla scena il comitato No Dal Molin. Quel giorno infatti alcuni esponenti del presidio permanente, che dal 16 gennaio 2007 stazionavano pacificamente davanti alla base con circa cinquanta persone, entrarono sulla pista dello scalo, e tennero una breve conferenza stampa, in cui illustrarono le ragioni della propria contrarietà al progetto; quindi, con l’arrivo sul posto di agenti della Digos e carabinieri, furono fatti uscire
dall’aeroporto.
I rappresentanti dei movimenti cittadini contrari all’ampliamento della base militare USA ribadirono la richiesta di un referendum sulla vicenda ed annunciarono che avrebbero dato vita ad una manifestazione di protesta davanti alla prefettura nei giorni successivi in occasione del consiglio comunale in cui la giunta avrebbero dovuto esprimere il proprio parere su questo progetto.
Il pronunciamento municipale arrivò il 27 ottobre successivo. Quel giorno, con i soli voti della maggioranza di centrodestra, il Consiglio comunale approvò il raddoppio della caserma Ederle nel sito dell’aeroporto Dal Molin. Opposizione sconfitta per 21 voti a 17 sull’ordine del giorno principale, ovvero quello relativo all’assenso al progetto, ed anche, 20 a 17, sulla proposta di tenere un apposito referendum per valutare il parere dei cittadini. Dando il proprio sì, l’amministrazione comunale aveva comunque posto varie condizioni tra cui quella relativa all’assenza di voli militari operativi, il mantenimento dell’utilizzo civile del Dal Molin, l’assenza di qualsiasi onere economico per l’amministrazione locale e l’impegno degli USA a utilizzare maestranze e risorse professionali locali per la costruzione della nuova base.
Anche se più che altro la decisione presa a Palazzo Trissino, sede del Comune di Vicenza, ebbe come principale conseguenza quella di trasferire l’incombenza al governo ed al Ministro Parisi, ovvero colui che avrebbe dovuto dare il via libera finale al progetto previa valutazione dell’impatto sociale e ambientale su Vicenza.
Il titolare di Palazzo Baracchini, in precedenza parlando del disegno della Casa Bianca lo aveva definito rispondente allo spirito di amicizia esistente tra Italia e USA ed in continuità con la natura della precedente presenza militare.
La sinistra radicale, vale a dire Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi, all’epoca parte integrante della maggioranza di governo, però iniziava ad alzare barricate nel tentativo di convincere gli alleati a negare agli statunitensi il permesso di erigere il nuovo presidio militare, forti anche della spaccatura che nel frattempo si era venuta a creare nel territorio interessato al progetto.
Se Vicenza aveva detto sì, il vicino comune di Caldogno, confinante con l’aeroporto Dal Molin, decideva invece di rispondere no ai desideri del Pentagono. Durante un apposito consiglio comunale convocato il 16 novembre, i quattordici componenti della lista civica di maggioranza, sostanzialmente di centro, e i due rappresentanti della Lega Nord approvavano un documento nel quale veniva espresso parere negativo all’insediamento della nuova struttura. Astenuti gli altri quattro consiglieri di minoranza, appartenenti a una seconda lista civica. Motivando la decisione, Marcello Vezzaro, sindaco del piccolo comune, che nei giorni precedenti aveva illustrato l’ordine del giorno al Ministro Parisi, precisava che il no era da intendersi solo alla base e non alla presenza dei militari americani in generale. Insomma, per la giunta di Caldogno il presidio poteva anche sorgere, bastava solo spostarlo di pochi chilometri.
Mentre il governo cercava goffamente di prendere tempo barcamenandosi tra real politik, il bisogno di avallare le richieste statunitensi, meri calcoli elettorali, e la necessità di non scontentare troppo forze politiche fondamentali per la sopravvivenza dell’esecutivo, gli USA già il 17 novembre pubblicavano il bando di gara per la costruzione dell’impianto. Nel sito del comando, opere ingegneristiche del corpo navale statunitense erano, infatti, presenti delle preinformazioni per le imprese italiane sulle caratteristiche richieste per partecipare ad un appalto da 300 milioni di euro riguardante l’affidamento in un unico blocco dei lavori per l’ampliamento dell’aeroporto Dal Molin.
Il 2 dicembre, intanto, alcune migliaia di cittadini davano vita ad un lungo corteo che attraversava le vie cittadine per dire no alla base. Tra i partecipanti alla manifestazione figuravano rappresentanti di Emergency, dei centri sociali e di partiti del centrosinistra.
Se il 2006 si chiudeva con polemiche a non finire, il 2007 a Vicenza si apriva con uno scontro frontale fra le varie parti politiche. Il centrosinistra al governo era composto da forze troppo diverse tra loro per poter evitare contrasti quotidiani, con la politica estera e militare che determinavano una vera e propria guerra fredda. In questo quadro la nuova base di Vicenza rappresentava la punta di un iceberg molto più grande; proprio la Ederle quindi determinò la prima grave frattura nella coalizione. L’opposizione di centrodestra, infatti, presentò, il 30 gennaio 2007, un ordine del giorno a Palazzo Madama mirante ad obbligare il governo a confermare incondizionatamente l’alleanza con gli USA, evitando di porre veti di sorta all’allargamento del nuovo presidio militare.
La votazione avvenne in un clima surreale ed alla fine con 152 voti a 146 ò il testo della minoranza, un fatto che scatenò le ire della sinistra radicale che da mesi stava monopolizzando le proteste di piazza contro la nuova installazione. Lo smacco era servito e inutile si mostrava la grande manifestazione popolare che si svolse il successivo 17 febbraio.
A maggio, dal 13 al 15, la protesta popolare si scatenava di nuovo: tre giorni di manifestazioni in altrettanti luoghi scelti dal Presidio permanente per far sentire la propria voce alle autorità italiane e a quelle di Washington.
I luoghi dove la popolazione di Vicenza è tornata a far sentire la propria voce di protesta sono: il Consiglio comunale, la caserma Ederle e il Dal Molin, ognuno ovviamente scelto in base alla propria importanza ed al proprio ruolo in questa storia. Nel mirino soprattutto il sindaco Enrico Hüllweck, che pochi giorni prima aveva definito “barbari” i cittadini contrari alla nuova caserma. Al termine della tre giorni il presidio avanzò la proposta di destinare l’area già utilizzata dai soldati statunitensi ad uso civile a tutto vantaggio della collettività, un’ipotesi che l’amministrazione locale e quella di Roma lasciava però cadere nel dimenticatoio.
L’estate non fermò i contestatori che diedero vita a numerose azioni di disturbo, per altro totalmente legali, compiute contro le linee telefoniche comunali con continue chiamate dirette agli amministratori locali con la richiesta di rinunciare al progetto e la messa in scena di rappresentazioni teatrali improvvisate nel centro città, tutte con contenuti antimilitaristici.
A settembre poi la sollevazione popolare alzò il tiro. Il comitato No Dal Molin per prima cosa si recò a Venezia, al Tar del Veneto, per presentare il ricorso contro il nulla osta concesso prima del governo Berlusconi poi da quello Prodi per la realizzazione della nuova servitù militare.
Ben cinque le motivazioni, secondo i promotori dell’iniziativa che avrebbero dovuto far pendere l’ago della bilancia dalla loro parte: in primis la palese violazione dell’Articolo 11 della Carta costituzionale, quello secondo cui l’Italia ripudia la guerra; i No dal Molin facevano poi affidamento ai Trattati europei di Maastricht, Amsterdam e Nizza che, secondo la loro tesi, stabilirebbero la necessità in politica estera, di un consenso del Consiglio Europeo per le operazioni come quella in atto nel capoluogo berico. Successivamente il presidio permanente chiedeva ufficialmente al governo di indire un referendum in materia, anche se su questo punto la Costituzione è abbastanza chiara e proibisce consultazioni elettorali sulle alleanze militari.
A novembre il presidio decise di replicare la mobilitazione popolare ed annunciò per dicembre altri tre giorni di contestazione, da venerdì 14 a domenica 16, contro l’amministrazione locale che continuava a sostenere a spada tratta la decisione presa a Washington, ed avallata in mondo bipartisan a Roma.
Il 7 novembre furono interrotti i lavori di bonifica della zona a causa dei blocchi messi in atto dai No Dal Molin. Due settimane dopo i vicentini, e con loro tutti i cittadini italiani, vennero letteralmente presi in giro dalle autorità civili e militari: venne infatti deciso che il progetto sarebbe stato spostato di cinquanta metri, ovvero ad ovest dello scalo e non più ad est come inizialmente previsto.
Il Comipar veneto, un comitato misto regionale di cui fanno parte Regione Veneto, Comune di Vicenza, Ministero della Difesa e rappresentanti dell’esercito statunitense, infatti accoglieva positivamente la proposta di spostare di alcuni metri il presidio. Alla base della decisione la considerazione che in questo modo l’impatto ambientale sarebbe stato minore in quanto offriva la possibilità di utilizzare edifici e risorse già esistenti. Dandone notizia Paolo Costa, nominato, nel giugno 2007, dal governo Prodi, Rappresentante della Presidenza del Consiglio per le questioni relative all’attuazione della base Dal Molin di Vicenza, precisava che questo era un semplice parere per nulla vincolante e che la decisione finale spettava sempre a Palazzo Baracchini, sede del Ministero della Difesa, aggiungendo: “Adesso gli americani stanno definendo la loro gara d’appalto, sanno cosa fare e dove lo devono fare, quindi sta a loro andare avanti il più rapidamente possibile”.
Nel frattempo si avvicinava la tre giorni di dicembre, cui il comitato permanente era riuscito a dare una dimensione europea avendo coinvolto anche altre città del Vecchio Continente oppresse da sgradite servitù militari; prima di fare ciò i contestatori decisero, però, di calare su Roma per far sentire la propria voce domenica 9 dicembre. Sfruttando gli stati generali della sinistra radicale i No Dal Molin avvertivano quelli che erano i loro referenti politici “il tempo delle promesse è finito. O i parlamentari dei partiti della sinistra radicale e i loro membri del governo pongono la discriminante a Prodi sul No al Dal Molin e sulla moratoria, e lo fanno entro la grande manifestazione del 15 dicembre, oppure significa chiaramente che, per stare aggrappati al potere, sono disposti a cedere anche su questo”.
Proprio durante la manifestazione, però, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in quelle ore in visita negli USA dal suo omologo George Bush, ammetteva candidamente che per ciò che concerneva la nuova base la decisione era già stata presa, gettando nello scompiglio i vicentini che comunque non si arresero nemmeno in quell’occasione.
Cambia il governo, ma non il vento
Torna all’indice
Le parole di Napolitano, per quanto amare, non riuscirono a far perdere d’animo i cittadini che ate le festività ripresero le loro proteste. A rilanciare lo scontro frontale una notizia diffusa dal quotidiano Stars&Stripes, l’organo di informazione dell’esercito americano diffuso in tutto il Mondo; questo, il 7 gennaio 2008, annunciava che la Setaf aveva ottenuto tutti i permessi necessari per iniziare a costruire la caserma Ederle 2 all’interno dell’area dell’aeroporto. Commentando il tutto Ryan Dillon, responsabile delle pubbliche relazioni Setaf, aggiungeva che il o successivo sarebbe stata l’individuazione del general contractor, ovvero di colui che avrebbe dovuto fare da capofila nella costruzione dell’opera.
Nelle intenzioni dell’amministrazione militare a stelle e strisce, il vincitore della gara d’appalto da 325 milioni di euro sarebbe dovuto essere annunciato a ridosso dell’estate. Nel frattempo, dalla politica arrivò uno scossone: cadeva il governo e ad aprile si tenevano anche le elezioni comunali che videro la vittoria di Achille Variati. Il portabandiera del centrosinistra incentrò la sua campagna elettorale sulla lotta contro la base e la popolazione lo premiò, anche se appena per un pugni di voti, sufficienti però a far sperare in un nuovo clima.
Già dall’inizio del suo mandato il neo eletto sindaco cominciò a sostenere le posizioni del presidio permanente, tanto che da subito si rese disponibile ad indire un referendum per conoscere il parere della popolazione, quindi già il 7 maggio cancellò la decisione presa dalla giunta precedente che imponeva lo smantellamento del tendone montato dai No Dal Molin; alla base della sua decisione la considerazione che i luoghi di discussione e di protesta sono luoghi di democrazia piena, che vanno rispettati e considerati con molta attenzione, ricordando anche come la protesta di coloro che si oppongono all’edificazione del nuovo sito bellico, non sia mai sfociata nella violenza.
Intanto, il progetto di referendum prendeva sempre più piede, Variati all’inizio di luglio confermò che si sarebbe tenuto, anche se da Roma, dove il centrodestra era diventato maggioranza, l’asservimento a Washington non cambiava.
A fine luglio, il Consiglio di Stato faceva intanto sapere di avere accolto il ricorso della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Difesa contro l’ordinanza del Tar del Veneto che poco più di un mese prima, per l’esattezza il 18 giugno, aveva invece dato parere favorevole alla domanda di sospensione dei provvedimenti relativi alla realizzazione del progetto Dal Molin. La quarta sezione del CDS quindi ribaltava totalmente la decisione del tribunale amministrativo veneto, rendendo nulli i ricorsi avanzati dal Codacons regionale e dall’ecoistituto Alex Langer di Mestre.
Nella precedente ordinanza del Tar i giudici, in particolare, avevano sottolineato il fatto che fino ad ora nessun esecutivo tra i tre che sono stati interessati alla vicenda, Berlusconi III, Prodi II e Berlusconi IV, aveva ato la richiesta di erigere il presidio con un qualche documento che desse conferma dell’atto di consenso “presentato dal governo italiano a quello degli Stati Uniti, espresso verbalmente nelle forme e nelle sedi istituzionali”.
Palazzo Spada aveva invece deliberato diversamente asserendo che “il consenso prestato dal governo italiano all’ampliamento dell’insediamento militare americano all’interno dell’aeroporto Dal Molin è un atto politico, come tale insindacabile dal giudice amministrativo, secondo un tradizionale principio sancito dall’Articolo 31 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato”.
Secondo i giudici detta insindacabilità riguardava non solo il contenuto ma soprattutto la forma “propria dell’ordinamento nel quale l’atto si è formato”.
Tramite una nota il CDS ha poi ulteriormente precisato che il nulla osta di
Palazzo Baracchini doveva essere inquadrato nella specifica procedura prevista per le attività a finanziamento diretto statunitense, secondo quanto previsto dall’accordo bilaterale tra Roma e Washington del 20 ottobre 1954, la cui realizzazione era demandata ad una apposita commissione mista addetta alle costruzioni, inserita nell’ambito della direzione generale dei lavori e del demanio del ministero della Difesa. Il Codacons però, ostentava sicurezza nella convinzione che l’ordinanza avrebbe potuto avere effetto solo dopo l’8 settembre, data in cui il Tar del Veneto era chiamato a decidere nel merito sugli oltre venti motivi di ricorso presentati, e valutare concretamente i gravissimi rischi ambientali connessi ad un insediamento di oltre 2.500 nuove unità di militari che porterebbe all’utilizzo di tutta l’acqua delle falde acquifere della zona a favore della base.
Nel frattempo il referendum iniziava a monopolizzare l’attenzione di politici e media. I primi di luglio, come anticipato sopra, Variati aveva rotto gli indugi ed assicurato che si sarebbe tenuto, subito dopo però, il Capo del governo, Silvio Berlusconi, parlando dal Giappone, dove si trovava in occasione del G8 asseriva: “In merito alle polemiche sull’ampliamento della base Dal Molin a Vicenza, ritengo utile e opportuno ricordare a tutti il dovere di rispettare gli impegni liberamente assunti dall’Italia e ribaditi negli anni da governi di diversa maggioranza politica, nei confronti degli Stati Uniti”, criticando chi alimentava false aspettative sulla possibilità di rimettere in discussione una decisione già presa e “pertanto irreversibile”, chiaro riferimento alla decisione del primo cittadino vicentino. Variati non si faceva intimidire da chi era pronto a svendere un lembo della sua città e il 7 agosto firmava l’ordinanza con la quale disponeva la consultazione popolare sulla destinazione dell’area aeroportuale Dal Molin, fissandola per domenica 5 ottobre.
Poiché la nostra Costituzione non prevede consultazioni popolari in tema di politica estera e militare il quesito era così congegnato: “È lei favorevole all’adozione da parte del Consiglio comunale di Vicenza, nella sua funzione di organo di indirizzo politico amministrativo, di una deliberazione per l’avvio del procedimento di acquisizione al patrimonio comunale, previa sdemanializzazione, dell’area aeroportuale Dal Molin da destinare ad usi di interesse collettivo salvaguardando l’integrità ambientale del sito?”.
La giunta comunale approvò il testo in modo quasi plebiscitario, ed il sindaco coglieva anche l’occasione per attaccare Paolo Costa ricordando che a questo non fosse stato conferito il potere di avviare negoziati ma solo ed esclusivamente il compito di realizzare l’allargamento. Roma non prese molto bene la decisione del sindaco, con Berlusconi che immediatamente invitò il primo cittadino berico a rivedere la propria decisione. Il Presidente del Consiglio non utilizzò mezzi termini nella missiva che inviò a Palazzo Trissino definendo la consultazione popolare “gravemente inopportuna”. Ovviamente, Variati replicò a tono non solo definendola invece “opportuna, legittima e giusta”, ma precisando anche che ai cittadini non sarebbe stato chiesto di esprimersi su scelte di politica estera o di difesa, e neppure sul “base sì, base no”.
Più nello specifico i vicentini avrebbero dovuto dire se volevano o meno che il Comune avviasse la procedura per chiedere la cessione di un’area delicatissima dal punto di vista ambientale, da destinarsi a usi collettivi; «questo - concludeva il sindaco - è nelle nostre facoltà: e credo che, se a chiederlo saranno in molti, avrà peso».
La campagna elettorale per il referendum andava avanti e da Roma si cercava di tirare la volata ai filo americani, tanto che perfino Giorgio Napolitano, per molti anni esponente di spicco del PCI, ma due anni prima salito al Quirinale prendeva posizione. Visitando Vicenza, il Capo dello Stato spiegava che gli interessi dei cittadini, potevano e dovevano combinarsi con le ragioni della collettività nazionale. Intanto, la data del referendum si avvicinava e gli USA decidevano di rompere gli indugi e are al contrattacco.
Il 24 settembre 2008, infatti, con la rimozione di trentotto serbatoi per lo stoccaggio di carburanti da parte del comando guarnigione dell’esercito a stelle e strisce, riprendeva a pieno ritmo la bonifica ambientale dell’aeroporto Dal Molin di Vicenza; riferendo dello stato di avanzamento dei lavori, una nota emessa dal portavoce del comando statunitense spiegava che era stata avviata anche un’ulteriore bonifica ambientale precisando che i serbatoi appena rimossi erano
stati interrati negli Anni ‘50 e servivano per i carburanti destinati ad aviazione, autotrazione ed alimentazione per riscaldamento, e il loro spostamento era funzionale principalmente a verificarne l’integrità strutturale dopo tanti decenni di impiego.
Contro i No Dal Molin scendeva in campo anche Giancarlo Galan, Presidente della Regione Veneta; questi non solo sosteneva che i problemi della città berica non si risolvevano con il referendum popolare contro l’ampliamento della base USA, ma soprattutto si scagliava contro il sindaco in carica, che “spende e spande per lettere e schede, per ricorsi su ricorsi, per mettere in piedi centri di raccolta mediante i quali far salire l’odio contro gli Stati Uniti”.
A pochi giorni dal referendum, però, arriva la doccia gelata. Il 30 settembre Paolo Costa annunciava, in barba al referendum previsto per la domenica successiva e senza rispettare minimamente la volontà popolare, la decisione di consegnare da subito l’aeroporto Dal Molin al comando militare italiano che lo avrebbe messo subito a disposizione di quello a stelle e strisce.
Giuridicamente parlando, il terreno rimaneva di proprietà del demanio, ma i soldati dello Zio Sam potevano avviare da subito i lavori per edificare la loro ennesima base nella Penisola.
Sul piede di guerra i manifestanti che, appresa la decisione del commissario, tuonavano: «Costa è un mercenario che costruisce una verità utile ai suoi committenti, ovvero a chi l’ha incaricato di imporre la nuova base statunitense a Vicenza».
Il primo ottobre, ci pensava il Consiglio di Stato a spegnere bruscamente le ultime speranze dei No Dal Molin. Palazzo Spada accoglieva la richiesta di sospendere il referendum sulla base statunitense Ederle2. I vicentini quindi
perdevano la possibilità di far sentire la loro opinione.
Il CDS motivava il pronunciamento spiegando che il quesito aveva per oggetto un auspicio del Comune in quel momento irrealizzabile, ovvero il progetto di acquisire un’area sulla cui sdemanializzazione si sono pronunciate in senso sfavorevole le autorità competenti.
Secondo il dispositivo firmato dal Presidente Luigi Cossu, «la consultazione stessa appare comunque inutile ove si volesse assumere una sua connotazione patrimoniale, giacché non occorrono sondaggi per accertare la volontà positiva di ogni cittadino di accrescere il patrimonio del Comune di appartenenza al pari di quanto potrebbe verificarsi se si proponesse un quesito su un ipotetico vantaggio patrimoniale individuale e o collettivo».
Quindi i vicentini non potevano votare perché avrebbero vinto i sì, accrescendo il patrimonio del Comune. Soddisfazione per il pronunciamento di Palazzo Spada fu subito espressa da Galan che in precedenza aveva definito “penoso” il referendum.
Per il sindaco ed i cittadini veneti la decisione presa dal Consiglio di Stato fu un durissimo colpo che comunque non fermò la voglia di arrestare le ruspe. Achille Variati prese mestamente atto della decisione, ma non ancora vinto, lanciò nuovamente la sua sfida alla politica militare statunitense.
Anche se il referendum era stato cancellato il 5 ottobre i cittadini avrebbero ugualmente potuto esprimere il loro parere, certo non sarebbe stato vincolante e non avrebbe prodotto nulla ma, nelle intenzioni del primo cittadino sarebbe ugualmente stato un importante segnala sia per Roma che per Washington. “Le ordinanze vanno rispettate - precisò - ma possono anche essere commentate, le cose a Roma si sono svolte con una tale rapidità che sembrava fosse già tutto
scritto. A me sembra che quella sulla consultazione sia un’ordinanza sorretta più da motivazioni di carattere politico che giuridico”.
Domenica 5 ottobre 2008, nelle strade di Vicenza, il comitato permanente montò i gazebo e diede ai cittadini la possibilità di pronunciarsi.
Il 28% dei vicentini vi si recò con un vero e proprio plebiscito, per la cronaca il 95% dei votanti, in favore della possibilità che il Comune acquistasse il terreno, con Palazzo Palladio che parlò di un risultato straordinario, che non aveva precedenti in Europa con “una città che reagisce, anche se bastonata ed umiliata, e porta migliaia di cittadini a dire di sì o di no alla proposta di acquisizione di un’area militare”, esortando gli USA a tenere ben presente il parere dei vicentini.
L’ultra atlantico Giancarlo Galan ovviamente capovolse la lettura data dal municipio e puntando l’indice contro l’alta astensione, incurante del fatto che la consultazione popolare indetta e poi cancellata non aveva bisogno di un qualsivoglia quorum, sostenne che questa era la dimostrazione che la gran parte dei cittadini si era tenuta lontana “dall’imbroglio referendario”. Aggirato l’ostacolo della volontà popolare, verso la fine di ottobre riaprirono i cantieri con le demolizioni di alcune palazzine, in modo da fare spazio alle nuove case che andranno ad ospitare i soldati dello zio Sam che si riverseranno in massa nel Bel Paese.
I titoli di coda e le polemiche infinite
Torna all’indice
Alla fine purtroppo, a nulla è valsa la lotta che per mesi i cittadini di Vicenza hanno condotto per evitare di diventare una città ultra militarizzata, una protesta che ha avuto ripercussioni anche sul personale civile impiegato nella Ederle. Verso la fine del 2008 questi, infatti, avviarono una vertenza contro il comando militare italiano denunciando forme di discriminazione di cui sarebbero vittime rispetto a quelli americani. Il Giornale di Vicenza dando notizia di ciò asserì che sarebbe perfino esistito un relativo dossier recapitato direttamente sulla scrivania di Franco Frattini, attuale Ministro degli Esteri, che si sarebbe attivato in prima persona per chiudere questa querelle e tranquillizzare i vertici della Setaf. A preoccupare gli italiani anche il fatto che, una volta ultimati i lavori, l’istallazione vicentina diventerà, insieme a Napoli, una delle sedi di un comando Africom, uno dei sei comandi combinati militari americani competenti a livello regionale su tutto il Globo, che dalla base centrale di Stoccarda in Germania, è responsabile per le operazioni nei 53 Paesi di tutta l’Africa, ad esclusione del solo Egitto.
A rendere nota la notizia del nuovo ruolo delle due basi italiane è stato, in una apposita conferenza stampa nel dicembre 2008, il Ministro degli Esteri Franco Frattini, accompagnato dall’Ambasciatore statunitense Ronald Spogli.
Con l’inizio dei lavori sono continuate anche le proteste ed i gesti estremi dei cittadini. Il 31 gennaio del 2009, circa duecento dimostranti hanno aperto un varco nella recinzione facendo irruzione nell’area civile dell’aeroporto Dal Molin, occupando un fazzoletto di terra di fronte, ma separato dalle reti, alla pista. L’irruzione, risoltasi poi pacificamente, ha creato l’ennesimo attrito tra Variati e Galan. Il giorno seguente, i comitati anti base hanno inaugurato il Parco della Pace, nella stessa area dove alcuni mesi prima avevano piantato 150 alberi con l’obiettivo di realizzarvi la grande area verde di Vicenza. La zona è comunque separata da quelle in cui erano in corso le demolizioni e dove due settimane dopo, secondo la tabella di marcia, sarebbero dovute iniziare le
costruzioni dei nuovi edifici.
Il 23 giugno 2009, i vicentini hanno inviato una lettera al Presidente americano Barack Obama, invitandolo a recarsi nella cittadina. Nella missiva è ricordato che dal 1959 la città veneta ospita vari siti militari a stelle e strisce chiedendo se negli USA sarebbe stato possibile costruire una base militare ad un miglio dal centro storico di una città patrimonio mondiale dell’Unesco o se sarebbe possibile fare questo senza ascoltare i cittadini e andando contro il volere della popolazione locale. Il 4 luglio successivo, infine, si è tenuta una grande manifestazione popolare anche se, al momento, i lavori procedono a ritmo sostenuto e le cooperative bolognesi che si sono aggiudicate l’appalto dovrebbero consegnare il nuovo sito entro marzo 2012 rispettando i patti concordati. Nel frattempo, il comitato anti base non ha certo alzato bandiera bianca, anche se la vittoria dell’imperialismo statunitense sull’Italia appare lampante, nonostante tre anni di lotta. “Non intendiamo mollare ed abbandonare tutto” ha continua a ripetere Cinzia Bottene durante un dibattito che ha visto anche la presenza del sindaco Achille Variati, che però non ha potuto far altro che ammettere che l’opposizione fine a se stessa al progetto non ha più senso.
Nel gennaio 2010, i vicentini ripresero le loro proteste penetrando all’interno nel cantiere dove fervevano i lavori. Cinque manifestanti si incatenarono ad una gru mentre altri cinque erano saliti su un carrello elevatore. Alla fine della giornata si contarono 37 persone denunciate dalle forze dell’ordine per essersi introdotte in modo clandestino in un’area militare ed aver danneggiato del materiale.
A febbraio, tornava alla carica il sindaco Variati che in modo provocatorio inviò 10 domande al commissario governativo Paolo Costa inerenti il cantiere e le preoccupazioni del primo cittadino in merito alla sua vicinanza con la falda acquifera che rifornisce le case dei vicentini.
Nuove tensioni si registrarono in aprile quando dopo l’invasione nell’area di una quarantina di dimostranti arrivò nella zona una pattuglia dei carabinieri; ne
nacque una piccola colluttazione al termine della quale un militare riportò ferite che in ospedale furono giudicate guaribili in sette giorni. Alla fine di giugno, il comitato permanente registrò una piccola vittoria di Pirro. Il 26, infatti, fu infatti dato il via libera alla proposta di compensazione che il governo si era impegnato a riconoscere alla città in relazione alla realizzazione del nuovo presidio.
In particolare, le parti decisero di convenire sulla proposta di soprassedere alla rototraslazione della pista aeroportuale, anche in vista della possibilità di concentrare sul vicino aeroporto di Thiene possibili sviluppi di attività aeroportuali ed eliportuali di interesse vincentino; fu stabilito poi di destinare la parte di sedime ex aeroportuale del Dal Molin non interessata dall’insediamento militare statunitense alla realizzazione di un parco urbano attrezzato; di ospitare in uno degli attuali hangar il museo aeronautico di Vicenza; destinare il finanziamento previsto dalla delibera Cipe del marzo 2009 per la rototraslazione della pista, oltre al completamento della bonifica bellica dell’area destinata a parco e al museo, ad ulteriore finanziamento della progettazione della tangenziale nord del comune berico.Il sindaco commentò in modo quanto mai entusiasta l’accordo raggiunto parlando di grande vittoria della città destinato a porre le fondamenta per la riconciliazione di Vicenza.
Soddisfatto anche il presidio permanente che lasciandosi forse troppo andare sostenne che la realizzazione del parco della pace alla fine avrebbe bloccato i progetti dell’amministrazione militare statunitense; nonostante questi toni trionfalistici i membri del presidio permanente sottolinearono comunque che i risultati ottenuti al termine di questa estenuante contrattazione non legittimavano in alcun modo quanto stava avvenendo all’interno del cantiere della nuova base.
Le piccole concessioni fatte al comitato No Dal Molin non hanno in nessun modo cambiato però le strategie statunitensi e le mire su Vicenza, tanto che poche settimane dopo David Thorne, rappresentante diplomatico degli USA nel BelPaese ribadì che il Pentagono non avrebbe diminuito gli investimenti nelle basi militari Usaf in Italia. L’ambasciatore spiegò che l’obbiettivo statunitense rimaneva comunque quello di tenere allo stesso livello i bilanci di tutte le basi
presenti nel nostro Paese, con la possibilità di poter perfino aumentare i soldati ad Aviano e a Vicenza, sottolineando che questi due presidi per l’America e per la NATO sono molto importanti strategicamente. Non a caso, come ha spiegato alla fine del 2010, Jeff Borowey la base veneta rappresenta una “priorità strategica per i piani di lavoro 2011”, tanto che questa struttura da sola assorbirà poco meno di un terzo degli investimenti destinati per il 2011 al potenziamento delle basi statunitensi presenti in Europa che, quantificato in moneta corrente equivale a poco più di 29 milioni di dollari.
Stando alle informazioni fornite dal Pentagono le aree destinate agli uffici cresceranno in superficie del 30%, mentre quelle riservate a deposito veicoli di un 25%; tutti progetti ovviamente rispondenti alle richieste del Dipartimento della Difesa statunitense in materia di protezione da attacchi terroristici anche se dovranno prima ottenere il placet, quanto mai scontato, da parte della commissione mista Italia-USA.
Oggi, dei sei battaglioni che compongono la 173^ Brigata paracadutisti americana, solo due sono stanziati permanentemente a Vicenza, gl’altri quattro sono ancora dislocati in Germania. Presto però l’attiva unità di proiezione statunitense potrebbe vedersi riunita ed ad ospitarla ci penserà la quanto mai fedele Italia.
Capitolo 4
In Sicilia la regia del grande fratello bellico
Torna all’indice
Come studiato nel primo capitolo, gli USA in Italia hanno a loro più o meno totale disposizione sia basi militari vere e proprie, sia dei semplici, si fa per dire, presidi finalizzati alla realizzazione di intercettazioni radar. Come le prime sono periodicamente riviste, con il numero dei militari che cambia in base alle esigenze e con le relative competenze sempre in via di ridefinizione, anche le seconde sono soggette a mutamenti frutto di interessi geopolitici; queste infatti possono essere abbandonate quando non sono più funzionali al loro scopo come in precedenza, oppure quando ormai, diventate obsolete, ammodernare gli strumenti si rivela troppo oneroso rispetto ai vantaggi che si possono ottenere. Talvolta però, capita che in alcune di queste vengano introdotte significative innovazioni tecnico-tattiche. E questo è proprio il caso della Sicilia, che a breve, sotto questo punto di vista, potrebbe diventare una sorta di cabina di regia del grande fratello globale messo in atto da Washington per sorvegliare non solo i cosiddetti “Stati canaglia” ma anche i Paesi alleati, sia quelli del bacino Mediterraneo, sia quelli dell’aerea Vicino e Mediorientale.
Due i sistemi destinati ad assolvere questo compito: l’AGS, che troverà il suo impiego nell’installazione militare di Sigonella ed il MUOS, la cui entrata a pieno regime è prevista per il 2013, che invece avrà il suo punto d’appoggio a Niscemi, inserendosi all’interno di un quadrilatero che avrà una copertura pressoché totale e che un domani potrebbe perfino diventare funzionale al fantomatico progetto delle “Guerre Stellari” lanciato negli Anni ‘80 da Ronald Reagan.
Facile comprendere perché la più grande Isola del Mediterraneo a breve diventerà centrale in questa strategia del controllo globale. Posta a ridosso di Europa, Africa e Medio Oriente, la Sicilia gode di una posizione di assoluto vantaggio rispetto a qualsiasi altro possibile approdo, Spagna e Grecia non offrono adeguate garanzie e la Francia, schiava della sua grandeur, non è troppo incline a dare alla NATO troppi poteri all’interno dei propri confini.
L’Italia, inoltre, indipendentemente dal vessillo che sventola su Palazzo Chigi, rappresenta un fedele alleato che non pone mai concreti e seri ostacoli alle decisioni tattico-militari di Casa Bianca e Pentagono. Diverso il discorso per quanto concerne la popolazione locale, ma alla fine a Roma non è che se ne sia mai tenuto molto conto.
Sigonella ed il sistema AGS
Torna all’indice
Il sistema AGS (Alliance Ground Surveillance) di Sigonella, attualmente, rappresenta uno dei più importanti programmi intrapresi dell’Alleanza Atlantica. Nel dettaglio, tale progetto riguarda un sofisticato sistema aereo di sorveglianza della superficie terrestre realizzato per mezzo di più velivoli, sia con, che senza pilota, integrato da tutta una serie di stazioni di terra interoperative chiamate ad analizzare meticolosamente i dati raccolti.
Chiamato anche “Occhio nel cielo”, questo deve il suo funzionamento a tutta una serie di radar posti sugli aerei che pur volando ad alta quota riescono a scrutare nel dettaglio il territorio sorvegliato e tramite i satelliti collegati trasferiscono tutti i dati raccolti alle stazioni terrestri di controllo collegate. Per capirne meglio le potenzialità basta considerare che questo strumento, una volta entrato a pieno regime, riuscirà a permettere l’identificazione delle truppe impiegate sul territorio e quindi a seguire dettagliatamente tutti i movimenti di queste, anche su luoghi molto vasti o impervi. Tra i compiti che l’AGS è chiamato ad assolvere, ovviamente, su tutti gli altri spicca la lotta al terrorismo, non a caso gli aerei chiamati ad integrare i radar sono i Global Hawk, velivoli privi di pilota capaci di operare ad oltre 20.000 metri di quota, di giorno e di notte, in ogni condizione meteorologica con una autonomia di molte ore, che già operano attivamente in Afghanistan. Il progetto è in fase di studio dagli esperti militari del Pentagono dal 2002, in pratica fin dal vertice NATO di Praga che ha, in parte, ridisegnato, l’Alleanza Atlantica, con l’Italia che temendo di perdere il proprio ruolo a scapito di Paesi dell’ex blocco sovietico, subito si offrì di contribuire fattivamente alla nascita ed allo sviluppo della “nuova” difesa collettiva.
Riferendo del vertice, l’allora Ministro della Difesa, Antonio Martino, ed il Capo di Stato Maggiore della Difesa Rolando Mosca Moschini, oltre a dare notizia della creazione del NATO response force annunciavano l’adesione del nostro Paese al progetto AGS definendolo “un fattore essenziale e vincente per le
operazioni del futuro”.
Nell’aprile del 2005, a Bruxelles, la NATO sottoscriveva un contratto, pari a 23 milioni di euro, con il Consorzio TIPS, formato da sei società: EADS, Galileo Avionica, General Dynamics Canada, Indra, Northrop Grumman e Thales, per lo sviluppo, entro il 2010, del progetto di sorveglianza terrestre. A progetto concluso l’esborso complessivo viene calcolato intorno ai quattro miliardi di euro.
Nel frattempo strane voci riguardanti il presidio siciliano iniziano a circolare. Sempre nel 2005 il quotidiano iberico El Pais annunciava che l’installazione di Sigonella, così come quella spagnola di Rota, nei pressi di Cadice, a breve sarebbe diventata una delle postazioni avanzate per le unità speciali per la lotta antiterrorismo USA.
Il giornale citava come fonte il Capo delle forze militari USA in Europa, il Generale dei Marine James Jones. Questi infatti asseriva che la riqualificazione di queste due basi era necessaria per far fronte alle minacce emergenti in Europa dell’Est, nel Caucaso ed in gran parte dell’Africa.
Dopo tre anni di sostanziale silenzio, nel giugno 2008 il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, al termine di un incontro bilaterale con il Segretario USA alla Difesa Robert Gates, sollecitava un adeguato sostegno da parte dell’Amministrazione americana affinché Sigonella fosse scelta come base per le attività del nuovo sistema.
All’epoca, infatti, vari gli Stati in lizza per portarsi in casa i nuovi aerei e i nuovi radar, con il Pentagono che stava vagliando soprattutto le candidature di Spagna, Turchia e Polonia, anche se la scelta finale già appariva come un testa a testa tra il nostro Paese e la Germania.
Il titolare di Palazzo Baracchini, sede del Ministero della Difesa, per sostenere l’installazione siciliana sottolineava che la “Piccola Saigon”, come gli americani chiamano Sigonella, storpiando la pronuncia della località siciliana, si prestava sia come luogo, sia come efficienza, sia come costi ridotti, anche perché lì già sorgeva un presidio a completa disposizione delle truppe USA e NATO.
Nell’ottobre dello stesso anno, sempre La Russa affermava che da parte di Washington c’era l’assoluta disponibilità a scegliere la base isolana per inserirla nel nuovo sistema.
Il 20 gennaio 2009, la scelta diventava infatti ufficiale: Sigonella sarebbe stata la base dell’AGS, come riferiva il Ministro.In questo presidio sono giunti così, altri 800 militari americani, con le relative famiglie. Il costo complessivo per l’adeguamento della base è stimato in oltre un miliardo e mezzo di euro a carico di numerosi Paesi dell’Alleanza Atlantica; quello per l’Italia veniva calcolato in circa 150 milioni di euro. Oltre ai nuovi soldati, nell’installazione troveranno posto anche quattro UAV Global Hawk a stelle e strisce, nonché un velivolo SIGINT funzionale al rilevamento delle onde elettromagnetiche, comprese quelle telefoniche.
Le conseguenze di tutto ciò venivano sottolineate con molta semplicità dalla nostra Difesa, che affermava trionfante che questo presidio diventerà il punto dove interagiranno le forze di intelligence italiane, della NATO ed internazionali, con grande rilievo di prestigio per il nostro Paese, ventilando anche possibili ritorni non secondari per la cittadinanza dal punto di vista economico, occupazionale e sociale.
Secondo il Generale Vincenzo Camporini, fino al gennaio 2011, Capo di Stato Maggiore della Difesa, questa scelta è comunque avvenuta dopo un’attenta valutazione. Ovviamente, è ormai già stato preventivato un allargamento del
presidio esistente, ventilando anche pareri favorevoli già ottenuti dai comuni limitrofi, con evidente la volontà di evitare nuove proteste popolari come quelle scatenatosi a Vicenza con la Ederle 2, obiettivo raggiunto visto che qui le contestazioni sono state molto scarse.
Il programma ha preso ufficialmente il via nel febbraio 2009. Il 19 dello stesso mese, infatti, con la firma apposta a Cracovia dal Ministro La Russa, al termine del vertice dei responsabili della Difesa dei Paesi del Patto Atlantico, veniva avviato il processo per la ratifica dell’accordo in base al quale la Sicilia avrebbe ospitato la base del nuovo sistema di sorveglianza ed intercettazione.
L’inizio dell’operatività dell’AGS era inizialmente prevista per il 2013, nonostante la titubanza di alcune nazioni, per la cronaca: il Belgio, la Francia, l’Ungheria, l’Olanda, il Portogallo, la Grecia e la Spagna.
Nonostante i grandi investimenti previsti per questo presidio la grave crisi economica cha tra il 2008 ed il 2010 ha colpito tutto il mondo ha fatto sentire i suoi effetti anche a Sigonella, dove una settantina di lavoratori civili italiani hanno perso il lavoro, situazione che ha portato perfino ad uno sciopero all’interno di questa base.
Ciò ha determinato anche un piccolo contenzioso legislativo visto che la Legge n. 98 del 1971 prevede che lo Stato assuma nei propri uffici periferici il personale eventualmente licenziato da organismi militari esteri, con l’Italia che per molto tempo non ha fatto valere questo principio mentre l’amministrazione militare statunitense, in sfregio ad ogni regola provvedeva a sostituire i lavoratori italiani con quelli americani.
Guerra e affari all’ombra dell’AGS
Torna all’indice
Dopo aver ricordato le varie tappe che hanno portato all’AGS ed alla scelta di Sigonella, a questo punto appare utile anche far cenno delle aziende che si sono aggiudicate gli appalti per rendere il presidio funzionale alle nuove necessità. In prima fila il Team Bos Sigonella, un società costituitasi appositamente per questa occasione e che unisce due ditte tricolori, la vicentina Gemmo S.p.A ed la catanese La.Ra., impresa da anni attiva in questa installazione, oltre la statunitense Del-Jen inc.
Tra le opere che questo consorzio dovrà realizzare entro il 2013 si segnalano l’esecuzione, la supervisione, il trasporto di armamenti, di materiali e di attrezzature necessarie ai servizi operativi e di o, al controllo delle sostanze nocive, alla raccolta e al riciclaggio dei rifiuti; tutto questo solo per quanto riguarda i lavori all’esterno visto che grazie al bando la Team Bos si è aggiudicata anche la manutenzione interna alla base militare, compresa la pulizia delle strade ed il servizio di bus navetta per tutto il personale, sia civile che militare che lavora nell’installazione.
Alcuni di questi lavori saranno realizzati in strutture collegate, come ad esempio il complesso portuale di Augusta, nei pressi di Siracusa, dove normalmente attraccano portaerei e sottomari nucleari, la stazione di telecomunicazione di Niscemi, in provincia di Caltanissetta, dove sta per sorgere uno dei quattro terminal terrestri del sistema satellitare MUOS, e il Pachino Target Range, in località Marza, a Ragusa, centro di o per le esercitazioni aeree e navali statunitensi e NATO nel Mediterraneo centrale.
Niscemi ed il MUOS
Torna all’indice
Altro sistema di sorveglianza radar USA-NATO che troverà in Sicilia il suolo su cui svilupparsi è il MUOS che verrà posizionato a Niscemi, in provincia di Caltanissetta.
In questa città, dal 1991, è in funzione il centro trasmissioni radio navali USA, composto di ben 41 antenne, dipendente dalla Navcomtelsta Sicily, la stazione navale USA di computer e telecomunicazioni, situata nella vicina installazione di Sigonella. Queste trasmettono sia ad alta che a bassa frequenza, contribuendo alle comunicazioni supersegrete delle forze di superficie, sottomarine, aeree e terrestri e dei centri C4I degli Stati Uniti e degli altri membri della NATO.
Dalla fine degli Anni ‘90, questa installazione, come quella portoricana di Aguada, quella islandese di Keflavik e quella nipponica di Awase, è dotata del sistema di trasmissione a bassa frequenza AN/FRT-95 che, operando tra i 24 ed i 160 kHz con una potenza compresa tra i 280 kW e i 500 kW, anche se il sistema permette l’estensione in caso di necessità sino ai 2.000 kW, ha permesso al Pentagono di accrescere la propria copertura nelle regioni del Nord Atlantico e del Pacifico settentrionale.
Alla fine 2006, in seguito alla chiusura della base islandese il NavComtelsta di Niscemi ha ottenuto in dote anche tutte le relative funzioni di collegamento in bassa frequenza con i sottomarini strategici operanti nella regione atlantica, primo segnale della crescente attenzione del Pentagono verso questo sito militare. A breve, sempre in questo presidio militare, troverà posto una delle quattro stazioni terrestri del nuovo sistema di telecomunicazioni a banda stretta di nuova generazione messo a punto dalla marina dello Zio Sam. Questo, tramite l’appoggio di tutta una vasta rete di satelliti geosincroni, ovvero quelli la cui rotazione è perfettamente uguale a quella del globo terrestre, permetterà di
collegare con comunicazioni radio, video e trasmissione dati ad altissima frequenza le forze navali, aeree e terrestri mentre sono in movimento, in qualsiasi parte del Mondo si trovino, utilizzando appunto le quattro antenne che ne formano il quadrilatero. Le frequenze utilizzate saranno in Vhf e Uhf con le onde radio che raggiungeranno valori compresi tra i 224 ed i 380 Mhz. La particolarità di queste onde radio consiste nella loro capacità di attraversare la ionosfera senza venire riflesse e proprio per questo vengono utilizzate per le trasmissioni extraspaziali per mezzo di satelliti artificiali. Inoltre, le medesime onde radio possono anche essere usate per eventuali trasmissioni terrestri utilizzando le irregolarità della troposfera, ovvero la parte bassa dell’atmosfera.
Le altre tre basi, coinvolte in questo progetto, sono quelle americane di Norfolk, in Virginia, e quella di Wahiawa, nelle Isole Hawaii, e quella australiana di Geraldton. Ogni installazione è composta da tre grandi antenne circolari con un diametro di 18,4 metri e da due torri radio alte ognuna 149 metri.
I luoghi su cui sorgeranno i terminali di questo sofisticato sistema sono stati tutti accuratamente valutati e scelti dal Navy’s Comunications Satellite Acquistion Program Office della marina statunitense e dallo Spawar. Le quattro basi elette alla fine hanno vinto la concorrenza di tutte le altre grazie al pregio di essere poste strategicamente attorno al Globo e quindi in grado di garantire una copertura ottimale dei satelliti in orbita ed un uso efficiente ed effettivo delle infrastrutture di comunicazione e della rete di connessione terrestri.
Questi quattro punti non solo saranno collegati tra loro, ma anche con tutti i Centri di comando e controllo delle forze armate a stelle e strisce, con i tanti centri logistici sparsi nel mondo e gli oltre 18.000 terminali militari radio esistenti, i gruppi operativi di combattimento, i missili Cruise e gli aerei Global Hawk, insomma tutto ciò che serve agli USA ed alla NATO per condurre una qualche operazione bellica.
Per realizzare questa sorta di grande fratello militare globale l’US Navy ha già
destinato oltre quaranta milioni di dollari, tredici dei quali solo per la predisposizione dell’area riservata alla stazione terrestre, del centro di controllo dei mega generatori elettrici e di un deposito di gasolio; altri trenta milioni di dollari per gli shelter, cabine prefabbricate atte a dare ricovero agli apparati di trasmissione e ricezione di segnali televisivi, radiofonici, telefonici, di comunicazioni militari, e l’acquisto delle attrezzature tecnologiche di questo sistema. Nel presidio siciliano sono inoltre previsti lavori per la posa di sofisticati cavi a fibre ottiche necessarie per il collegamento tra le antenne satellitari e il Centro comunicazione e la realizzazione di altri piccoli impianti di o ed infrastrutturali, ad esempio le strade ed i sentieri di accesso alle antenne.
Non si sa con esattezza quale governo italiano abbia siglato l’accordo con gli USA e dato il proprio assenso per posizionare in Sicilia questo nuovo orecchio magnetico, gli atti sono ovviamente coperti da segreto anche se l’unica cosa certa è che inizialmente il sito eletto era quello di Sigonella, probabile quindi presumere che la scelta sia cambiata dopo che la Piccola Saigon ha ottenuto i Global Hawk dell’AGS, ma non solo. Spulciando infatti tra i documenti pubblici della marina a stelle e strisce il bilancio presentato al Congresso nel febbraio del 2006 si scopre infatti, che si faceva menzione dell’installazione di tre antenne MUOS a Sigonella, mentre nel bilancio relativo al biennio 2008/09, presentato solo dodici mesi dopo, l’installazione era già prevista a Niscemi.
Alfonso Cirrone Cipolla, capogruppo PD nel Consiglio Provinciale di Caltanissetta, sostiene che il cambio di sito sia stato dettato dalle risultanze di uno studio sull’impatto delle onde elettromagnetiche generate da queste grandi antenne, elaborato per conto dell’US Navy dall’AGI, società con sede a Exton, in Pennsylvania, in collaborazione con la Maxim Systems di San Diego, in California.
Questo studio, denominato “Sicily RADHAZ radio and radar radiations hazards model”, sarebbe stato basato sull’elaborazione di un modello di verifica dei rischi di irradiazione elettromagnetica sui sistemi d’arma, munizioni, propellenti
ed esplosivi ospitati nello scalo aeronavale siciliano, con i risultati che avrebbero consigliato ai vertici del Pentagono di spostare di pochi chilometri le antenne, pena il rischio che le fortissime emissioni elettromagnetiche potessero avviare la detonazione degli ordigni presenti nella base, rischio che evidentemente a Niscemi non si corre, o almeno così si spera. Tempo previsto per rendere il sistema operativo: tre anni.
Nel 2010 dovrebbero essere eseguiti i lanci dei satelliti mentre dodici mesi dopo, il MUOS dovrebbe entrare a pieno regime.
Le proteste popolari
Torna all’indice
Anche se meno vistose e pubblicizzate di quelle contro la Ederle, anche il MUOS ha provocato proteste popolari guidate spesso dal primo cittadino del piccolo comune.
L’11 settembre del 2008, infatti, Giovanni Di Martino, sindaco di Niscemi, scendeva in campo invocando l’intervento dell’Arpa, l’Agenzia ambientale regionale, per capire se l’installazione della nuova stazione radio potesse realmente provocare danni ambientali o addirittura alle persone, riproponendosi di interpellare a tal proposito anche il Ministro della Difesa. Una settimana dopo sempre il primo cittadino chiedeva il blocco dei lavori di installazione fino a quando non ci fossero state certezze su possibili rischi per la salute degli abitanti delle zone limitrofe, soprattutto in merito a possibili malattie tumorali.
Interrogazioni sui rischi legati a questa installazione approdavano anche a Roma. Il deputato siciliano Carmelo Lo Monte infatti, esprimeva in aula la propria preoccupazione in merito alla salute dei cittadini, sollecitando il governo a chiarire se i lavori fossero già iniziati e in caso affermativo del perché i cittadini non ne avessero ancora saputo nulla. L’esponente dell’MPA concludeva il suo intervento in aula chiosando: «Non è possibile che prima venga realizzato l’impianto e poi si proceda alle verifiche degli standard di sicurezza; le preoccupazioni dei cittadini sono giuste».
Nell’occasione si mossero anche alcuni parlamentari del Partito Democratico che presentarono una apposita interrogazione ai Ministri della Difesa e dell’Ambiente, in merito al MUOS. In questa si chiedeva di spiegare le ragioni dello spostamento delle antenne da Sigonella a Niscemi, e quale fosse in quel momento lo stato di avanzamento dei lavori. Inoltre, si chiedeva alle autorità competenti se fossero state attuate o almeno previste analisi di impatto
ambientale, considerato che l’area scelta coincideva in parte con la Riserva Naturale Orientata Sughereta; ed infine se e con quali modalità fossero state valutate le possibili conseguenze sulla salute delle popolazioni e in che misura e come si intendesse confrontarsi con le istituzioni locali fornendo loro tutte le informazioni necessarie.
Il 26 febbraio del 2009, prendevano la parola i cittadini. Quel giorno, infatti, tremila persone scesero in piazza nel piccolo comune siciliano per dire “no” a questa installazione. Alla base della protesta popolare il timore che i campi magnetici potessero a medio e lungo termine causare danni alla salute, specie considerando che nella base sono già in funzione più di quaranta antenne ad uso e consumo dei militari dello Zio Sam. La manifestazione, promossa dagli studenti del liceo scientifico Leonardo Da Vinci, riuscì a coinvolgere tutte le scuole del paese; in prima fila sfilarono anche i sindaci e gli amministratori dei comuni limitrofi: Caltagirone, Gela, Butera, Riesi, Mazzarino. Al corteo presero parte anche i dipendenti delle agenzie di pompe funebri che portarono in spalla tre bare, metafora di altrettanti rischi di morte per la popolazione, ovvero i veleni del petrolchimico, le onde elettromagnetiche del MUOS e la futura centrale nucleare che potrebbe essere istallata nel ragusano. Nell’occasione, il Presidente del Consiglio Comunale di Niscemi annunciò che nei giorni seguenti avrebbe convocato una apposita seduta consiliare da tenersi a Roma, davanti all’Ambasciata americana, aperta alla partecipazione dei cittadini di Niscemi.
In favore della popolazione civile si schierò anche l’Assemblea Regionale siciliana, con il Governatore Raffaele Lombardo che, dopo le perplessità espresse dall’Assessore Regionale all’Ambiente, Pippo Sorbello, prima ha bloccato l’iter approvativo del progetto MUOS per carenza di informazioni tecniche relative alle problematiche legate all’elettromagnetismo, quindi ha chiesto al presidente del Consiglio un intervento ufficiale per manifestare all’amministrazione statunitense il disappunto per la mancata informazione e la ovvia contrarietà della Regione all’installazione del sistema.
In una missiva inviata a tutti i Ministri interessati in questa vicenda il politico
siciliano ribadiva che l’area era considerata di particolare pregio ambientale oltre che una riserva naturale orientata e sito di interesse comunitario. «Questa amministrazione - sottolineava Lombardo - è fortemente preoccupata per la salute delle popolazioni residenti e per le influenze negative che l’impianto possa avere sulla natura, ritenendo necessario essere messa in condizione di poter valutare gli effetti che l’installazione potrebbe determinare». Il Presidente della Regione si lamentava anche del diniego opposto dalle autorità militari e dal responsabile tecnico del presidio, a fornire le minime informazioni relative agli impianti trasmittenti già operanti dichiarando non solo di non essere in loro possesso ma anche secretate dall’attività militare, rifiuto che limitava fortemente se non addirittura vanificava del tutto l’attività di indagine e di studio necessaria.
L’animatore del Movimento per l’Autonomia concludeva, quindi, la sua epistola chiedendo al governo di intervenire immediatamente per manifestare presso Washington il disappunto per la mancata informazione, l’urgenza della definizione di atti formali indirizzati al recupero delle difficoltà create, e la ovvia contrarietà della Regione alla messa in opera di questo nuovo strumento di intelligence.
Appena due giorni dopo, sempre Lombardo polemizzava a distanza con il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, reo, mentre rispondeva ad una interrogazione parlamentare, di essere inciampato in numerose inesattezze per superare la sostanziale carenza di informazioni tecniche relative alle problematiche legate all’elettromagnetismo.
Nei primi giorni di aprile, intanto, l’Arpa diffondeva i risultati delle proprie indagini ed il Sindaco di Niscemi, Giovanni Di Martino, li definiva preoccupanti dal momento che delle quattro centraline installate per effettuare i rilevamenti, due avevano registrato valori di attenzione per l’inquinamento elettromagnetico, quando il sistema MUOS doveva ancora entrare in funzione. I maggiori timori inoltre erano legati al fatto che questi punti di rilevamento erano stati posizionati nei pressi di abitazioni civili. A detta del primo cittadino, i risultati raccolti mostravano chiaramente già la presenza di un preoccupante stato di
inquinamento elettromagnetico che toccava i centri abitati della zona.
Il giorno dopo, però, prendevano la parola i rappresentanti della Casa Bianca, che ovviamente minimizzarono il tutto. L’8 aprile il Dipartimento americano della US Navy consegnava all’Assessorato Regionale per l’Ambiente, le schede tecniche ed i dati della simulazione di emissioni di elettromagnetismo ante operam del nuovo sistema di comunicazioni. L’iniziativa era stata assunta in modo autonomo dal governo americano che in precedenza aveva incaricato il Console generale americano in Italia, J. Patrick Truhn, di mettere a disposizione della Regione siciliana tutta la documentazione necessaria che i tecnici dell’Arpa Sicilia avessero potuto richiedere.
Lo stesso Truhn, incontrando l’Assessore all’Ambiente siciliano Pippo Sorbello, ribadiva che tutte le misurazioni effettuate nel sito confermavano che le emissioni in radio frequenza generate a Niscemi erano destinate a rimanere entro i limiti fissati dalla normativa italiana anche dopo la completa installazione del MUOS, sottolineando che questo sistema avrebbe rispettato anche i più cautelativi limiti futuri raccomandati dalla Commissione europea sul Rapporto Bioiniziative.
Nonostante le rassicurazioni offerte da Washington e dintorni però, la protesta popolare non si arrestava, tanto che il 23 maggio 2009 una nuova manifestazione andava in scena a Niscemi. Alla marcia, guidata dal Sindaco Di Martino, parteciparono anche i rappresentanti di altri 15 comuni della zona. Il primo cittadino ribadiva che iniziative di questo tipo sarebbero continuate fino a quando le autorità competenti non avrebbero fornito le dovute certezze sulla salute dei cittadini e dell’ambiente. Di Martino puntava l’indice accusatorio anche contro il Presidente della Regione Lombardo che, chiamato più volte in causa, non aveva ancora dato le dovute risposte alla popolazione. A luglio protagonisti ancora una volta gli studenti che inviarono ben cinquecento lettere al Presidente statunitense Barack Obama. Sostanzialmente uno solo l’argomento, ovvero la richiesta, fatta all’uomo più potente del Mondo dagli alunni delle scuole elementari e medie di Niscemi, di bloccare la costruzione dell’impianto
MUOS. Tutte queste missive furono consegnate all’Ambasciatore americano a Roma dall’insegnante Giuseppe Maida, più volte salito agli onori della cronaca per le tante iniziative avviate contro questo nuovo insediamento. A convocarlo era stata la stessa sede diplomatica statunitense in Italia, con un fax firmato da Paula Chiede, addetto stampa dell’Ambasciata. Nella stessa data al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano furono invece consegnati gli atti ufficiali contro questo nuovo strumento di intelligence deliberati dalle amministrazioni di cinque diversi comuni tra cui quello di Niscemi, e quelli delle giunte provinciali di Caltanisetta e Catania, oltre ad una petizione, forte di oltre 4.500 firme, promossa dagli studenti del liceo Scientifico di Niscemi.
Sperando di ottenere qualche risultato, il professor Maida scrisse anche una nuova missiva ad Obama, proponendo di trasformare la base di Niscemi in un grande museo internazionale all’aperto sulle conquiste statunitensi nello spazio.
Come nel caso di Vicenza, anche in Sicilia, la popolazione civile nulla ha potuto contro le decisioni prese Oltreoceano per meri interessi geopolitici, anche perché, come abbiamo ampiamente documentato in questo saggio, da parte dei politici italiani sembra sempre prevalere ogni volta la volontà di non inimicarsi la Casa Bianca. Diverso l’atteggiamento dei politici locali, ma anche questi purtroppo, anche dopo aver guidato dure lotte, sempre pacifiche, alla fine non hanno mai avuto voce in capitolo.
Il 29 Marzo 2013 l'amministrazione regionale ha revocato l'autorizzazione alla costruzione del Mobile Objective System, dopo che la Regione Siciliana ha raggiunto un'intesa con il Governo per chiedere agli Stati Uniti di non installare le parabole fino all'ottenimento di risultati sull'impatto ambientale e sulla salute dei dispositivi attivati anche alla massima potenza, benché la partita resti ancora formalmente aperta dato che il Ministero della difesa ha presentato ricorso al Tar Sicilia chiedendo l'annullamento della revoca e la condanna della Regione al risarcimento dei danni.
Bibliografia
Torna all’indice
Documenti ufficiali:
Base structure report 2008-2009. La finanziaria del Pentagono in cui sono elencate tutte le basi USA, sia interne che esterne, il numero di soldati impiegati e lo stanziamento previsto per l’anno di interesse.
Sheel agreement, un documento del 1955 che regola la giurisdizione militare che vige nelle basi statunitensi dislocate all’estero.
Sofa o Trattato di Londra sottoscritto dal nostro Paese il 9 giugno 1951.
Testi:
G. Giordano “La politica estera degli Stati Uniti - Da Truman a Bush”, Franco Angeli, 1999, Milano.
G. Giordano “Storia della politica internazionale”, Franco Angeli, 1994, Milano.
R. Faenza, M. Fini “Gli americani in Italia”, Feltrinelli,1976, Milano.
R. Crockatt “Cinquant’anni di Guerra Fredda” Salerno editrice, 1995, Roma.
Articoli:
A Desiderio – “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza” in Limes 4/99.
E. Furlains – “Aviano Oh-Ahio!” in Limes 4/99.
M. Dinucci – “Basi USA in Italia” su La rinascita della Sinistra, 17/03/2006.
G. Di Feo – “Camp Darby, il più grande arsenale USA all’estero” su Il Corriere della Sera, 13/01/03.
V. Parlato – “Basi USA in Italia, il caso di Sigonella” su Il Manifesto, 06/07/2004.
G. Solvetti – “Nella base dove saranno assemblati i caccia F-35 un affare di guerra” su Il Manifesto, 22/04/2009.
Reperibili in rete:
http://www.fvg.peacelink.it/aviano2000/aviano-usa.html.
http://www.kelebekler.com su questo sito si trovano elencate tutte le basi USA o NATO nel Mondo.
http://uonna.it/bombe-atomiche-italia-dove-sono.html.
http://www.pagine di difesa.it/2007/pdd_070129.html.
http://www.brainzapopolare.it/sezioni/mondo/20030302_camp_darby.html.
http://www.presidiopermanente.noblogs.org/post/2007/03/14/lo-scoop-sultormeno.
http://www.eurasia.org/?read=6655.
http://www.informa-azione.info/conquistati_dagli_americani.
http://radicali.radcialparty.org/search_view.php?id=48401&lang=&cms.
http://www.resistenze.org/sito/os/ip/osip2i25html.
http://marina.difesa.it/editoria/notiziario/2005/aprile/02.asp.
http://byebyeunclesam.wordpress.com/2008/04/14/tesate-nucleari-usa-ineuropa/.
http://associazioneunipro.it/MUOS/index.php.
Fabrizio Di Ernesto è giornalista professionista e lavora per la redazione del giornale on-line Agenzia Stampa Italia dove ha iniziato ad occuparsi di politica internazionale ed analisi geopolitica. Come free-lance collabora con il mensile di economia Alpes; altri sui articoli sono inoltre apparsi su vari siti internet e sul quadrimestrale di geopolitica Eurasia. Per i tipi Fuoco Edizioni ha pubblicato “Portaerei Italia nel 2009 e “Petrolio, cammelli e finanza” nel 2010.
Torna all’indice
* * * * *
Per Smashword la Fuoco Edizioni ha pubblicato:
L’artiglio del Drago Iran, prossima guerra? Il mistero di Calatubo La seconda vita di Bettino Craxi Chi muore si rivede L’Estate in tavola I segreti del debito pubblico Il cuore di Sarah La guerra dell’acqua
Italia, Potenza globale? Il ritorno dell’Impero di Mezzo Sahara sabbia e sangue Il lato oscuro dell’America Celeste nostalgia Gli italiani nella guerra di Corea
* * * * *
Vieni a trovare la nostra Casa editrice anche su Facebook e Twitter o contattaci su Skype.