L’onorata vendetta Un racconto ispirato alla figura del Magistrato Pasquale Lo Torto
Caterina Sorbilli
Published by Giuseppe Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2014 Copyright Caterina Sorbilli
Tutti i diritti riservati ISBN: 9788868150938
In copertina: Palazzo Fazzari, Tropea Foto di sco Barritta
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INDICE
Frontespizio
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Caterina Sorbilli
Copertina
Dedica
Premessa
Introduzione
L’onorata vendetta
Epilogo
Postfazione
Note
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Caterina Sorbilli
Caterina Sorbilli è nata nel 1972 a Tropea, dove vive, abita e lavora. Sposata e madre di due bambine, si è laureata in Pedagogia all’Università degli Studi di Messina; insegna dal 1992 presso le scuole Primarie. Ha conseguito la specializzazione all’insegnamento per i diversamente abili e possiede l’abilitazione per insegnare negli istituti superiori Storia e Filosofia. È giornalista pubblicista iscritta all’Ordine della Regione Calabria. Ha collaborato con il quotidiano L’Ora della Calabria, sotto la direzione di Piero Sansonetti e Luciano Regolo; pubblica articoli anche su diversi siti internet e blog. Per tanti anni ha fatto parte della redazione del mensile Tropeaedintorni.it, pubblicando rubriche ed articoli socio-culturali.
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A Fatima e Carla Pia gemme luminose e preziosissime.
A mio padre, che mi ha saputo insegnare l’essenza della vera libertà: non odiare.
Premessa
IL COSIDDETTO “DELITTO D’ONORE”
Il delitto d’onore, secondo la comune opinione, è una particolare tipologia di reato che tiene conto della motivazione soggettiva dell’autore, finalizzata a tutelare una particolare forma di onore, o comunque di reputazione, con specifico riferimento ad alcuni ambiti socioculturali e relazionali, come, ad esempio, i rapporti matrimoniali o familiari. L’onore, definito come il complesso delle condizioni dalle quali dipende il valore sociale della persona, è in alcuni ordinamenti giuridici riconosciuto come rilevante e, quindi, da considerare anche a fini giuridici e, particolarmente, nel settore penale. In Italia, sino al 1981, la commissione di un delitto di omicidio, o di omicidio preterintenzionale, o di lesione personale, commesso al fine di salvaguardare l’onore, era sanzionata con una pena notevolmente ridotta rispetto alle analoghe e comuni fattispecie di reato. Si trattava di previsioni speciali, che si ricollegavano ad una consolidata tradizione giuridica e che tenevano conto della “sensibile efficacia dello stato di provocazione, determinato da una grave offesa al sentimento dell’onore” (così la Relazione ministeriale sul progetto del Codice penale), pur continuando a tutelare la vita della persona come bene esclusivo della stessa e presupposto necessario per il godimento di ogni altro bene. La più autorevole dottrina dell’epoca riteneva, però, che l’omicidio per causa d’onore “non fa onore alla nostra civiltà”, aggiungendo che era irrilevante il fatto che “leggi straniere contengano o non contengano disposizioni simili” in quanto “noi dobbiamo pensare col nostro cervello e non con quello degli altri” (MANZINI). L’art 587 del Codice penale prevedeva infatti: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima
relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”. La giurisprudenza individuava la ratio di questa norma nell’esigenza di “tutelare l’onore proprio e della famiglia”, inteso come “patrimonio morale” e “sentimento spiccatamente morale e sociale”. Questa speciale forma attenuata di omicidio prevedeva la reclusione da tre a sette anni per colui il quale avesse ucciso la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere “l’onore suo o della famiglia”, richiedendo però che vi fosse, come elemento costitutivo, uno stato d’ira determinato dalla scoperta di una illegittima relazione carnale che, nella prassi, veniva sempre presunto. La relazione carnale era individuata essenzialmente nel rapporto sessuale compiuto fuori dal matrimonio, e non in una semplice relazione amorosa. Rimanevano, altresì, esclusi, secondo l’orientamento giurisprudenziale allora prevalente, i semplici atti osceni o di libidine, che potevano avere solo valore indiziante quando erano sicuramente immediatamente preparatori o successivi alla congiunzione carnale. Inoltre, non era necessaria la sorpresa in flagrante adulterio (in ipsis rebus venereis), ma si riteneva sufficiente la scoperta da parte del soggetto attivo del fatto lesivo dell’onore, al quale seguiva la reazione. In altri termini, bastava che l’omicidio fosse commesso, anche successivamente alla consumazione del rapporto sessuale, quando il soggetto attivo scopriva comunque la illegittima relazione carnale, vale a dire nel momento in cui lo stesso veniva, per la prima volta, a conoscenza di detta relazione in qualsiasi modo, anche con il rinvenimento di fotografie e di corrispondenza, ovvero mediante l’ascolto di una comunicazione telefonica o anche a seguito di confessione. Non era necessario che si trattasse di notizia insospettata, contava il momento in cui si acquisiva la certezza del fatto lesivo dell’onore. La speciale fattispecie di omicidio per causa d’onore si applicava anche con riferimento all’omicidio dell’amante del coniuge, ovvero dell’extraneus, che aveva partecipato al rapporto carnale a prescindere dal suo status. Il delitto di omicidio per causa di onore era sempre perseguibile d’ufficio e la competenza era attribuita alla Corte d’assise anche in caso di tentativo.
In seguito alla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale dei reati di adulterio e concubinato (Corte cost. 19 dicembre 1968 n. 126 e 3 dicembre 1949 n. 147), la fattispecie di omicidio per causa d’onore veniva estesa ad entrambi i coniugi, ovvero anche alla moglie. L’art. 587, secondo capoverso, c. p., prevedeva anche, come si è già notato, la speciale fattispecie di lesioni personali per causa d’onore. Fattispecie analoghe erano previste anche per i reati di infanticidio, aborto e abbandono di minori. A seguito della riforma del diritto di famiglia nel 1975 veniva abolita l’autorità maritale, cioè la liceità, da parte del coniuge, dell’uso di “mezzi di correzione” e disciplina nei confronti della propria moglie. Nel 1981 scompariva finalmente dal nostro codice penale il delitto d’onore in quanto lo stesso veniva abrogato dall’art. 1 della legge n. 442 del 1981: “un’abrogazione tardiva e al contempo relativamente recente se la osserviamo nella cronologia della nostra storia giuridica” (MASSARO), in armonia con le scelte di fondo della nostra Costituzione e con i diritti fondamentali dell’uomo. Successivamente la Corte di Cassazione, con la sentenza 10 ottobre 2007 n. 37352, ha nuovamente ribadito la impossibilità di riconoscere ad un omicidio commesso per causa d’onore una qualsiasi rilevanza attenuante con riferimento alla responsabilità penale, rilevando come tale causa affondi le proprie radici in un modello socioculturale ormai arcaico, che non può trovare riconoscimento e rilevanza penale. In particolare, la giurisprudenza, basandosi sull’art. 90 c. p. in forza del quale gli stati emotivi e ionali non possono né escludere né attenuare l’imputabilità, ha evidenziato che la causa d’onore non può neppure rientrare nella circostanza attenuante generale dell’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale (Cass. 8 novembre 1995, n. 11043).
Antonio Scaglione, Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo
Introduzione
Il seguente racconto è una storia inventata. Personaggi, luoghi e fatti sono il frutto di fantasia, anche se sfumati ed amalgamati da e con ricordi di famiglia. Esso si ispira alla storia professionale ed umana di un mio prozio, fratello della nonna materna Mannina. Il dottor Pasquale Lo Torto, nato a Tropea l’8 ottobre del 1916, è morto a Palermo il 10 agosto nel 1964, dove ha vissuto e condotto parte della sua brillante carriera di Pubblico Ministero. Il desiderio di scrivere di lui nasce dal fatto di non averlo mai conosciuto, perché nata molti anni dopo la sua dipartita a causa di una malattia al tempo poco curabile. In seno alla famiglia Lo Torto, il nome di zio Pasqualino ha riecheggiato soprattutto tra i muri della vecchia casa ubicata in Largo Galluppi; di lui si ricordavano spesso aneddoti simpatici e comportamenti affettuosi ed io, pur essendo bambinetta, percepivo che doveva trattarsi di un parente importante. Zio Pasqualino mi è sempre apparso come un arbitro supremo tanto che, al solo nominarlo, si placavano automaticamente animi e spiriti agitati. Il ricordo che i molti componenti la famiglia hanno tramandato ai nipoti più giovani è fondamentalmente quello di un uomo giusto, generoso, per bene, rispettoso e rispettato, uomo di cultura, devoto marito e padre. Col are del tempo è affiorato in me, sempre più forte, il desiderio di conoscere più da vicino questo uomo. Approfittando di un libriccino custodito nella biblioteca di famiglia, realizzato per ricordarlo a 25 anni dalla morte, è iniziata questa avventura che un po’ ha ricolmato i vuoti lasciati liberi dai racconti, quasi sempre a carattere personale, ascoltati nelle riunioni familiari. Mancava, infatti, gran parte delle notizie riguardanti la sua professione, che egli mai ebbe a contaminare con aspetti casalinghi e privati.
Il libriccino confezionato dal fratello Filippo, come omaggio all’intera famiglia, è stato per me una miniera d’oro; si tratta di una raccolta di documenti ed articoli giornalistici inerenti ad alcuni processi trattati da zio Pasqualino, ma di assoluto valore documentale. A questo c’è da premettere che il giudice Lo Torto non usava scrivere le sue requisitorie, ma si limitava ad annotare qualche appunto utile ad imbastire i discorsi che puntualmente proponeva a braccio. Per questo motivo gli articoli giornalistici diventano elemento principale per tracciarne i capisaldi della vivida e specchiata, seppur breve, carriera forense. Egli contribuì all’evoluzione culturale che portò allo sradicamento del paradigma, in cui aveva trovato linfa vitale, l’attenuante riferibile al cosi detto “Delitto d’Onore”, tematica sulla quale l’opinione pubblica intorno agli anni ‘50-‘60 si ritrovò divisa, coinvolta, particolarmente attenta. In quegli anni si ebbe un certo fermento culturale, letterario, cinematografico, l’informazione in generale si occupò notevolmente del problema ed il nostro fu persino sfiorato dalla notorietà offerta dal mondo della settima arte, tanto da essere citato nel libretto di presentazione del celebre film “Divorzio all’italiana” e nel libro omonimo in cui il regista Pietro Germi riportava le parole di un noto giornalista del tempo, Mauro de Mauro:
“Purtroppo – dice invece un giovane magistrato, il Sostituto Procuratore dott. Pasquale Lo Torto – i tempi mutano da un ventennio all’altro, ma la legge è sempre quella. Occorre invece adeguare la legge al nuovo modo di considerare la vita, nei suoi rapporti veri, essenziali, rieducando le masse, mostrando loro qual è il vero onore da tutelare. Ciò si può raggiungere attraverso molteplici fattori concorrenti, uno dei quali è rappresentato dai pronunziati della Giustizia. Se le sentenze rimarranno ancorate ai secolari pregiudizi atavici, i delitti organizzati continueranno. Per modificare la coscienza popolare occorre anche modificare le sentenze, e allora l’ambiente si renderà conto che il delitto d’onore come tale non esiste”.
Siamo ancora lontani dal 1981 anno in cui dal nostro codice penale verrà abolito
l’art. 587, che prevedeva una pena minima da tre a sette anni di reclusione per chi compiva tale crimine, grazie all’introduzione della legge n° 442 del 5 agosto; lontani, ma non tanto, da quelle lotte femministe che bollarono, giustamente, tale reato come “La licenza di uccidere”. Il delitto d’onore, giustificato per troppo lungo tempo in questa nostra Patria, culla di civiltà e diritto, trovò in essa asilo come eredità culturale di antichissime tradizioni, antecedenti sia a quelle islamiche che cristiane; infatti se ne trova traccia nel Codice di Hammurabi (1792-1750 a. C.) e nelle Leggi assire (1200 a. C.) che sancivano l’appartenenza della verginità della donna alla famiglia. Seppur appaia oggigiorno una problematica superata, questa del delitto d’onore pone quantomeno ulteriori riflessioni: quanti omicidi, soprattutto nelle sfera dell’intimità familiare, e quanti cosiddetti oggi “femminicidi” sono direttamente riconducibili ad un senso traviato dell’onore? Questi efferati crimini non sono forse, anche, mossi da una cattiva e patologica concezione dell’altro come cosa propria, in un misto di possessività, violenza e gelosia comune agli “storici” delitti d’onore? Rientrano forse in quella categoria analizzata e studiata dal Centro di Ricerca e Documentazione sul fenomeno mafioso e criminale dell’Università della Calabria, quali gli “Omicidi Relazionali” scaturiti dalle lacerazioni delle relazioni interpersonali, interfamiliari ed intercomunitari? Chi scrive, consolata anche dal parere di studiosi più avvezzi all’argomento, è del parere che il delitto d’onore, se possibile, sia ancora più meschino avendo in sé una componente quasi sempre sociale; spesso, infatti, era il solo fine dimostrativo a cui aspirava la falsa eroina di turno, in una sorta di assurdo “riscatto sociale”. Mentre i delitti di relazione rimangono in un alveo più intimistico che lega a doppio filo la vittima al carnefice, alternando sentimenti forti quali l’amore e l’odio, quelli d’onore non sempre risultano commessi dai protagonisti di un rapporto\scontro affettivo relazionale, ma a volte da una figura terza, padre, suocero, fratello, ecc., rivestendo così un carattere più pubblico e paradossalmente più “condivisibile”. Non si vuol qui cercare le fondamenta a cancri sociali che possono trarre origine in contesti ampissimi a carattere socio-psico-educativo, piuttosto è un ulteriore pietra che si vuol buttare nello stagno di chi (stato sociale, istituzioni, scuola, famiglia, chiesa ecc.) è chiamato ad ingenerare un cambiamento di rotta
culturale, sollecitando sin dalla prima infanzia interventi e prassi di educazione all’affettività, che possano giustificare, nel tempo, la natura di una nazione quale Paese civile e sviluppato. Tornando alla figura di Pasquale Lo Torto, egli si occupò anche di numerosi processi di mafia, in diversi dei quali si ritrovò sconfitto, ma ugualmente tenace e coraggioso nel richiedere sentenze pesanti ed esemplari: dal processo sui fatti di Corleone, ai crimini di Borghetto e al sequestro Di Cristina, ando per gli ormai tristemente famosi uomini di mafia come Luciano Leggio, detto Liggio, ed il dott. Navarra. Non mancano poi nel suo curriculum i processi comuni e a carattere sociale, come quello connesso al “Diritto di Sciopero”, a seguito dei fatti di Partinico, trazzera di campagna, dove Danilo Dolci, fondatore de “Il Borgo di Dio”, aveva indetto uno “Sciopero alla Rovescia”. Il dott. Lo Torto si ritrovò da solo dinanzi ad una folta schiera di sostenitori del Dolci, tra intellettuali, politici e gente comune, a portare avanti le istanze dello Stato di cui era rappresentate titolato, non per demonizzare il sacrosanto diritto di scioperare, problematica che negli anni successivi terrà banco a livello nazionale, invadendo tutti gli ambiti democratici e civili, ma per affermare il ripristino del legale modo di esercitarlo, che a Partinico aveva lasciato campo libero a tafferugli, arresti, resistenza alle forze dell’Ordine. Il processo al Dolci lo vide contrapporsi a figure di elevata caratura professionale, politica e morale, come Piero Calamandrei che il 30 marzo del 1956 pronunciò l’arringa difensiva nei confronti dell’intellettuale triestino, chiamato a difendersi dalle accuse di violazione degli articoli 341 del codice penale “Oltraggio a pubblico ufficiale”, 415 “Istigazione a disobbedire alle leggi” e 633 “Invasione di terreni”, individuati dal Giudice Istruttore del processo. L’arringa di Calamandrei – capolavoro difensivo dettato oltre che da una profonda amicizia tra l’avvocato civilista ed il Dolci, dalla forza propositiva di vedere il concretizzarsi della, relativamente recente, Carta Costituzionale, attraverso l’abbandono di stagnanti capi d’accusa dettati ancora allora dal Codice Rocco – riporta più volte l’ammirazione per la “misurata” requisitoria del giudice Lo Torto; nella stessa arringa, però, gli contestava “l’ardire” di voler considerare quel processo una “comunissima vicenda giudiziaria” e di
pretendere l’esclusione nel giudizio dell’influenza di “correnti di pensiero” offerte in aula dalle numerose testimonianze “intellettuali”, che esulavano dal contesto prettamente giuridico. Le analisi e le valutazioni di quel processo, oggi come allora, possono essere innumerevoli e diversificate, spaziando dall’etica alla morale, dalla legge umana a quella di Stato, dalla filosofia alla religione. Rimane comunque il fatto incontestabile che il giudice Lo Torto fu chiamato ad assolvere il compito della pubblica accusa e, come tale, anche in quella occasione, nulla fece se non il suo dovere di Pubblico Ministero non esitando ad aggiungere, nell’ultima requisitoria, che non avrebbe avuto motivo di opporsi se i giudici avessero ritenuto sufficiente il carcere, già nel frattempo sofferto dagli imputati. Non mi resta, quindi, che ribadire la scaturigine di questo racconto: null’altro che un pretesto per ricordare la figura di quest’uomo, degno rappresentate e servitore dello Stato. Le figure, gli ambienti, gli oggetti e alcuni nomi sono ispirati al mio mondo di fanciulla, ai ricordi che soventemente riaffiorano dalla mia memoria, come il nome del protagonista Stefano, un cugino Lo Torto mancato ai suoi cari anzitempo, una traccia voluta anche per perpetuare istanti della vita dei numerosi membri della famiglia, sempre presenti ai miei occhi.
Caterina Sorbilli
I personaggi e le situazioni che vivono in questo libro sono in buona parte frutto della fantasia dell’autrice; ogni riferimento a fatti e persone deve ritenersi puramente casuale.
L’onorata vendetta
I
Eccola, in tutto lo splendore secolare. Si stagliava ai suoi occhi con il chiarore assicurato dalle antichissime pietre calcaree, che decenni prima erano servite per costruirla. La Normanna, cattedrale un tempo sede vescovile, si presentò con il suo fascino architettonico ancora sorprendente, come se quello spettacolo fosse nuovo alla sua vista, tanto da lasciarlo quasi stordito. Stefano avanzava senza fretta tra i vicoli inondati di deliziosi profumi di pranzi domenicali, odori particolari si perdevano nell’aria dissolti da un carico salmastro che saliva su per la rupe, come a salutare chi indifferente non ricordava di vivere sul mare. Per lui tornare era diventato fonte di molteplici emozioni, ritrovando, in un posto in cui non era nato, quanto di più familiare potesse mai desiderare. Spuntò, finalmente, da un vicoletto basolato e contorto, corridoio di portoni nobiliari e cortili signorili, stretto al punto da doverne osservare gli stemmi scolpiti nel granito, appoggiando le spalle ai palazzoni dirimpettai. La piazza, ornata da alberi centenari, custodiva come uno scrigno una fontana ottagonale marmorea e bianca, dispensatrice di acqua e giochi per i più piccini, che puntualmente nelle giornate torride trasformavano in piscina comunale all’aperto. Stefano alzò gli occhi a quel balconcino bianco, sicuro di trovarla così come l’aveva immaginata lungo il percorso che lo aveva condotto giù dalla stazione ferroviaria fino al cuore del paese: la figura esile e piccola del corpo contrastava con il viso greco ed austero di quella donna risoluta e forte, così come la ricordava. La colse in uno dei pochi momenti rari in cui poteva apparire scomposta. Un ciuffo di capelli corvini ed eterei, da anni incastonati in due treccine sottilissime ed arrotolate tra di esse, tanto da formarne una crocchia uniforme sulla nuca, svolazzava come piuma al lieve venticello di grecale, che dall’affaccio, posto al
lato dello slargo, degradava verso l’antico porto marinaro, lungo una scalinata costruita nella roccia. Quella ciocca piumosa fu ricondotta al suo posto con un gesto veloce e sicuro, domata da uno dei due pettinini stabili ai lati del capo ancora imbrunito nonostante l’età avanzata. Lei, donna Letizia, intenta a frugare tra le piante sospese della piccola apertura, che internamente portava luce ad un piccolissimo disimpegno adattato a cucinino, si prodigava a tener occupati anche quei pochissimi minuti in cui, come momento di massimo ozio, si concedeva a tenui raggi di sole filtranti dal fogliame dei vecchi faggi. Sembrava voler togliere le pulci al basilico ed al prezzemolo, ai garofani selvatici, ai gerani secchi ed ormai quasi completamente sfogliati. Stefano guardandola la trovò così come le tornava nei suoi pensieri durante i cinque anni trascorsi lontani e da quell’ultima visita che le aveva fatto. Vestita di nero da cima a fondo in un lutto che non la lasciò più da quando, a ventitré anni, dovette seppellire suo padre e sua madre ancora di giovane età, morti a distanza di tre mesi l’uno dall’altra, il primo a causa di una febbre emorragica e la seconda di crepacuore. Il “suo” lutto lo confermò anche nella promessa che aveva fatto in punto di morte al suo primo, unico, grande amore, che la convinse a rinunciare ad altri affetti per dedicarsi interamente a ciò che rimaneva della famiglia e delle incombenze ad essa legate e di certo non di poca cosa si trattava: nove tra fratelli e sorelle, di cui uno ancora in tenerissima età, Ernestino, ed un negozio avviato di porcellane, oltre a tutte le difficoltà che spettavano ad un capo famiglia. Donna intelligentissima, aveva da sempre condotto la sua esistenza non da attrice principale, ma da regista attenta e scrupolosa, capace di guidare, indirizzare e convogliare verso l’indipendenza economica e culturale la ciurma di fanciulli a lei affidati dalla vita e dalla sorte. Soprattutto i più piccini, rimasti orfani nella loro fanciullezza, avevano potuto trovare in lei una figura di riferimento materna e solida, capace di fissarsi nelle loro esistenza come punto fermo della bussola familiare. Letizia D’Amico, con l’aiuto dei fratelli e delle sorelle più grandi, fu capace di offrire a quelli più piccoli un’istruzione degna e sufficiente ad affrancarsi da una
eventuale vita di stenti: tutti furono messi nelle condizioni di studiare, tutti tranne Rita, già signorinella e promessa sposa, abile commerciante impegnata nel negozio di famiglia, e Nina, anch’ella in procinto di metter su casa. Giorgio, Guido, Teresa, Domenica, Salvo, Ernestino, chi in seminario chi in collegio, avevano potuto godere di una sicurezza sociale grazie soprattutto a lei, che mai aveva indugiato nella volontà di renderli migliori. Stefano aspettò di essere sotto il balconcino, concentrato com’era a spiarla compiaciuto, per lanciarle un fischio che potesse attirarne la sua curiosità; e pronta, sollecitata a conoscere il viso del maleducato di turno, si girò di scatto per coglierne i lineamenti. Solo un lampo di incertezza la trattenne dal verificare il nome del nipote, mentre prendeva già il sopravvento il lato più parsimonioso del suo carattere, quello che non concedeva troppi lussi di affettuosità a chi per una vita era stata costretta a farne a meno. L’unica concessione che fece al suo presentarsi freddo e distaccato fu un sorriso che non riuscì a trattenere, natole spontaneamente tra le gote candide, ed ancora levigate, di un volto che forse mai aveva conosciuto creme e misture cosmetiche. - “N’chjana”¹, disse a Stefano col solito piglio risoluto, per subito scomparire tra i battenti scorticati della finestra balcone. Stefano oltreò il portone sempre spalancato di un palazzo antichissimo, uno tra quelli della cittadina nobiliare che poteva vantare l’atrio suggestivo e particolare. Un affresco napoletano sembrava costituire quell’androne, elegante, sobrio e pittoresco; piccole logge circondavano i piani delle due scalinate, che partivano separate, come se fossero un abbraccio, dal piano terra fino al secondo piano, dove si ritrovavano in un unico corpo. Lei, donna Letizia, era lì sul etto prospiciente la porta d’entrata, così emozionata quasi da apparire imbronciata per quella sorpresa che aveva saputo coglierla impreparata. Stefano, nonostante il borsone che gravava col suo peso su una spalla, fece le scale velocemente, certo di ricevere un abbraccio affettuoso e familiare da tanto tempo atteso. Zia Letizia allargò le braccia per riceverlo in una commistione di profumi ed
odori che lo condussero direttamente ad atmosfere e sensazioni vissute solo da bambino. - “Picchì non mi telefonasti u mi dici ca venivi? Ti mandava a machina u ti pija a stazioni. Pensavi ca avivi u mi dici grazie?”², disse con tono sprezzante la donna. - “No, zia, è che volevo farti una sorpresa”, rispose Stefano a giustificarsi. - “Sì, sì, a sorpresa! I l’ova i Pasca nescinu i sorpresi”³, sbottò mentre lo esortava ad entrare in casa oltreando il robusto portoncino in noce. - “Attentu o gradinu”⁴. - “Sì grazie zia, lo ricordo, manco solo da cinque anni dopo tutto”. - “E hai a faccia puri u mu ricordi? Lazzarone!”⁵, lo tacciò con uno dei suoi aggettivi più forti. - “Hai ragione zia, ma lo sai, ho dovuto studiare tanto per la specializzazione. Poi, dopo la morte di papà, ho voluto stare il più possibile vicino a mamma, ho avuto tante incombenze da sbrigare, tante pratiche, questioni sospese. Ho dovuto accudire Fabio come un uccellino e Marcello è partito praticamente subito per l’accademia. Ma tu le sai queste cose è inutile che te le dica nuovamente”. - “Sì, sì, i sacciu sti così, però...” . - “Però, però, dai zia che questa volta rimango un po’ di più delle altre. Mi sono portato appresso qualche libro così potrò studiare anche qua, magari la mattina studio ed il pomeriggio scendo alla marina per i bagni”. - “Certu ca poi iri a marina; i cabini, mi dissi Rafaeli, ca sugnu già pronti e a nostra ‘ncia fici muntari u stessu, puru cu luttu, cusì si veni zia Teresa cu fijolu, ca avi tantu bisognu d’aria i mari, poti iri”⁷.
II
Quell’estate Stefano si rifugiò da zia Letizia, lontano dal pensiero di tutti quegli impegni che lo avrebbero atteso ai primi di ottobre quando, con il resto dei componenti dello studio di architettura, sarebbe dovuto andare negli Emirati Arabi, alla corte di un neo sultano del petrolio pronto ad investire il ricavato del suo oro nero in una mega costruzione ancora da progettare. Stefano amava quella casa, trasudava di vita ata, di storie che aveva imparato a conoscere attraverso i racconti di suo padre, rivissute fantasiosamente nelle foto ingiallite disseminate nelle stanze a testimonianza delle tante voci che un tempo risuonavano tra i mobili antichi, lasciati in eredità alla ciurma da una parente stravagante, forse un po’ alternativa per i tempi; questa prozia, vedova e senza figli, infatti, era solita sfoggiare non solo abiti appariscenti, ma una acconciatura che alternava pizzi e merletti a ciocche di capelli tanto mal colorati da trasformare un grigio perla in un delicato violetto tendente all’indaco. La stanza che più di tutte lo rilassava, facendolo sprofondare in una surreale atmosfera dei primi anni del ‘900, era il salotto buono, uno stanzone pavimentato con maioliche bellissime della tradizione meridionale, arricchito da poltrone e divani rivestiti di tessuto damascato color porpora e da due consolle in mogano, con ripiano in marmo, che si fronteggiavano quasi in una sorta di sfida, di qua e di là dalle pareti più lunghe. La sala, che in estate rimaneva sempre in penombra, faceva campeggiare al centro del soffitto un bellissimo lampadario in vetro di Murano, uno dei primi regali che zio Ernestino fece a sua sorella Letizia appena ebbe vinto il concorso presso la dogana di Venezia. Effettivamente i colori dell’arcobaleno che risplendevano al chiarore offerto dalle lampadine, un po’ cozzavano con il resto dell’arredamento, più desueto a causa del trascorrere del tempo. Il salotto divenne per Stefano, in quel tempo che ò ospite dalla zia, un luogo quasi sacro in cui riusciva non solo a ritrovare una certa tranquillità, ma uno spazio dove oziare in cerca di pensieri leggeri. Aveva sempre saputo dell’esistenza di un “cambarino”, come lo chiamava zia Letizia, uno stanzino posto lungo uno dei lati più corti del salotto; era una sorta
di intercapedine utilizzata dalla famiglia come ripostiglio di oggetti da conservare nonostante le loro inutilità. Una porta camuffata con la stessa carta da parati del resto della stanza, confondeva gli ospiti poco attenti e celava in una sorta di segreto casalingo l’entrata in uno spazio angusto, ma ordinatissimo, come del resto era tutta la casa piegata ad anni di rigore, quasi maniacale, della padrona. Dopo i primi giorni trascorsi in cerca di un adattamento spaziale e temporale, Stefano decise che doveva in qualche modo metter freno all’inevitabile aumento di peso, che da lì a qualche giorno avrebbe registrato, visti i quotidiani manicaretti preparati dalla zia. Pietanze ipercaloriche ad iniziare dalle pizze rustiche, ando per le frittelle di ogni qualità e sapore, attraverso i fritti di pesce freschissimo, che abili rigattieri le recapitavano direttamente a casa, come i delicatissimi pettini di mare, i “surici”, dal colore rosa corallo, che donna Letizia puntualmente invitava a consumare come se si dovesse suonare un organetto, spolpando cioè il povero pesce dalla testa alla coda, tenendolo tra l’indice ed il pollice delle due mani. L’apice arrivava poi con i dolci, diversi per ogni giornata: da succulente creme e zuppe inglesi, rigorosamente spugnate da un liquore rossastro, fino all’apoteosi della sua capacità culinaria, la “pasta ammendula”⁸, tipico dolce natalizio, preparato per lui nonostante fosse piena estate. Un pomeriggio, di ritorno dal mare, decise di riposarsi sul lettino in ferro battuto posto in una cameretta fresca e ventilata, adiacente al salone con cui divideva una delle porte. Approfittando dell’assenza della zia, decise di buttarsi, sporco come era di salsedine e sabbia, tra le candide lenzuola di lino tessute al telaio; pur se si fosse addormentato, avrebbe fatto comunque in tempo a farsi trovare pronto per l’appuntamento fissato in serata e che, insieme alla zia, li avrebbe visti entrambi ospiti di una lontana parente, la quale inaugurava la stagione estiva aprendo i battenti di una casa di campagna da poco restaurata. Si coricò provando piacere alla frescura delle lenzuola odoranti di gelsomino e borotalco; si girò più volte su un fianco e l’altro, intento a sfuggire ai tenui raggi di sole pomeridiani, che risultavano comunque fastidiosi nel loro riflesso abbagliante, perché ricadenti sullo specchio dell’antico armadio. Poi, il ticchettio dell’orologio racchiuso in una campana di vetro posato sopra il settimino, anch’esso di noce massiccio, finì con il procurargli una sensazione di
sgradevolezza e nervosismo che lo indusse a sollevarsi per mettersi seduto sul materasso. Guardandosi attorno notò, al di là della porta che affacciava in salotto, la porticina dello stanzino accostata, ed una sorprendente carica di curiosità vinse la stanchezza che lo aveva trascinato poco prima a letto. Si alzò e si mosse in quella direzione; i i rimbombavano sulle pareti quasi nude del salone, e gli sembrò di percepire al naso il librarsi in aria di colonie di acari e polvere, residui ostinati ospitati sui tappeti. La porticina si muoveva delicatamente producendo un sibilo stridulo quasi impercettibile, procurato da una leggerissima corrente aerea creatasi tra la finestrella, che faceva capolino nello stanzino, ed il balcone socchiuso della camera in cui era poco prima coricato. Avvicinandosi alla piccola apertura notò che questa affacciava su un cortiletto, il quale faceva da divisore tra il palazzo in cui era ospite e l’antico edificio un tempo gestito dalle suore di Maria Ausiliatrice. La Pia Opera di Accoglienza dava rifugio ed assistenza ai tanti poveri che la Grande Guerra ed un territorio rurale, periferico rispetto alle grandi città del Sud, avevano contribuito ad aumentare. A Tropea, paese di origini antichissime, era normale che si incontrassero ricchi proprietari terrieri connotati quasi sempre da titoli nobiliari ereditati da avi diretti, o comprati dagli stessi antenati, e gente povera, i “servituri”, votata a spaccarsi la schiena dalla sera alla mattina, praticamente per consentire la continuazione di una vita agiatissima al proprio signorotto ed al suo feudo. Non mancava una consistente porzione di borghesia, commercianti, artigiani che avevano trovato la loro fortuna col fiorente commercio di prodotti e mercanzie movimentate grazie al porto marinaro ed alla ferrovia, in attività sin dai primi anni del 1900. Tropea era così divenuta negli anni crocevia importante di scambi commerciali e culturali, cenacolo di studiosi sopraffini, rifugio di altolocati, religiosi e funzionari dello Stato, ed al contempo ricettacolo di personaggi non solo miserevoli, ma bisognosi di cure ed assistenza, calamitati dall’idea di trovare in questo paese qualcuno che potesse garantirne la sopravvivenza. L’Opera Pia per tantissimo tempo svolse il ruolo di lazzaretto cittadino: uomini e
donne, dei quali spesso nemmeno le suore ne conoscevano le origine e le storie, trovavano qui riparo dagli assalti ammorbanti della miseria; chi entrava, in quello che nient’altro era se non un ospizio per disadattati e malati mentali, rimaneva di primo acchito spiazzato dal fortissimo puzzo di varechina mista all’odore nauseabondo di urine ed escrementi di ospiti per lo più adulti che, seppur assistiti con devozione e carità dalle suore ausiliatrici, conservano l’istinto animalesco di provvedere ai propri bisogni corporali senza tener in gran conto le più elementari norme igieniche. Da questo quadro verghiano tanti anni erano, ormai, ati; Stefano praticamente vedeva dalla finestrella non più un vecchio edificio decadente e superato nelle sua attività filantropica, ma una nuovissima struttura accreditata al servizio sanitario regionale, che elargiva prestazioni assistenziali per ricoverati a lunga degenza. L’ospite di donna Letizia rimase come incantato ad osservare quel poco di cortiletto che riusciva a vedere dall’apertura, uno spazio ospitante delle fioriere curate in quel momento da due ricoverati, cosa che dedusse vedendoli indossare dei pigiami costituiti da magliette bianche, pantaloncini a righe e da ciabatte in plastica, come quelle di moda negli ultimi tempi. Ancora si potevano vedere due finestre recintate da delle inferriate a mo’ di sbarre protettive; in una di esse si intravedeva quello che doveva essere un locale adibito ad infermeria, mentre nell’altra faceva capolino un macchinario posto accanto ad un lettino. Effettivamente ebbe subito l’impressione che si trattasse di un respiratore artificiale di quelli che consentono “la vita vegetale dopo la morte umana” si disse tra sé e sé. Sì, era senz’altro una postazione per un paziente in coma, anzi allungando lo sguardo ebbe l’impressione di vederne il profilo del naso. - “Che fai?”, gli gridò all’improvviso zia Letizia da dietro le spalle. - “Porca miseria, zia mi hai fatto prendere un colpo”, replicò Stefano davvero seccato per lo spavento che gli aveva fatto fare un movimento brusco con il collo. Mentre Stefano si massaggiava i muscoli alla base del cranio la zia continuò: - “E mamma mia, che è? Pensavo mi avessi sentito quando ho chiuso la porta di casa. Cosa stai facendo qui?”.
- “Niente zia, ho visto la porta aperta dello stanzino e mi sono incuriosito, mi sono affacciato per vedere questo lato della casa che non ricordavo”. - “E mò u vidisti u spettaculu?” . - “Sì zia, non ricordavo neanche questa finestrella, pensa un po’; dopo tanti anni questa casa mi serba ancora sorprese”. - “E torna chi sorpresi, ma quali sorpresi?¹ . Questo posto piuttosto ti riserva polvere e odore di muffa; vedi un po’ sta finestra, non ci arriva mai il sole e dall’umidità il battente risulta gonfio ed ormai quasi non chiude più”. La zia armeggiò con la serratura nell’intento di far combaciare i ferri del saliscendi con i fori praticati nell’intelaiatura, ma niente da fare, l’infisso risultava ormai difettoso. - “Domani, fazzu venire a mastru Luigi u forgiaru, cusì vidimu sa conza”¹¹, disse donna Letizia. Stefano, spinto dallo sguardo molto comunicativo della zia lasciò, senza aggiungere altro alla discussione, lo spazio angusto in cui si trovavano e si diresse verso il bagno per prepararsi all’appuntamento previsto. La zia, occupata a richiudersi alle spalle la porticina, lo inseguì con un tono risoluto ed autoritario: - “Muoviti, preparati, tra un po’ a tua cugina Cornelia a prenderci”. Stefano dimenticò subito la vista desolante di quel letto d’ospedale, felice come era di sapere dell’arrivo della simpatica cugina tutta pepe ed allegria; la serata sarebbe quindi trascorsa in piacevole compagnia, nonostante la noia dell’idea di partecipare alla cena più per dovere che per scelta. La mattina successiva un sole caldissimo, sin dalle prime ore, prometteva una giornata di calore e sudore notevole; Cornelia, con la quale Stefano si era messo d’accordo per andare allo stabilimento balneare, era salita a salutare la zia sicura, anche, di trovare un ottimo latte di mandorla ghiacciato dentro il vecchissimo frigorifero bianco e bombato, rumoroso come un trattore. Bevuto un bicchierone per uno, Stefano e Cornelia si diressero verso le scale mentre la zia urlava sporgendosi dal balconcino interno che affacciava
nell’androne del palazzo: - “Chi voliti u mangiati a menziornu?”¹². - “Niente zia”, disse Stefano, “rimaniamo a mare, fa troppo caldo per mangiare. Compreremo due fette di anguria da Angelo, quello che si mette col carretto davanti allo stabilimento”. - “Faciti chiu chi voliti... io non parru chjiù!”¹³, disse donna Letizia evidentemente contrariata, prima di ritrarsi dentro la stanza.
Sulla 500 di Cornelia la strada per il mare sembrava ancora più tortuosa; le curve, che scendevano dal paese lungo la via dei vecchi mulini, conservavano per Stefano un fascino sempre particolare, costellate come erano dalle mille piante di ginestra selvatica e di capperi grossi e succosi, come quelli gemelli delle Isole Eolie prospicienti la terra ferma su cui adesso si trovava. La giornata a mare trascorse tra un tuffo ed una risata, un gelato, quattro chiacchiere, cento docce e zero preoccupazioni, così come desiderava fare da quando, non più adolescente, si era ritrovato uomo avvezzo prima allo studio e poi al lavoro. Sul finire del pomeriggio Cornelia, salutati gli amici e Mimmo, il fidanzato che presto avrebbe sposato, riaccompagnò il cugino dove la mattina lo aveva prelevato, direttamente sotto casa di zia Letizia. Fu costretta, però, a fermare la macchina davanti al grande portone di “Villa San Damiano”, la struttura sanitaria, perché l’unico posto in cui non avrebbe intralciato il traffico. Appena fermi, a Stefano venne di getto chiederle notizie della vecchia Opera Pia: - “Ma le suore ci sono ancora qua dentro? Ricordo particolarmente quella che portava un paio di occhialini con delle lenti giallastre, come si chiamava?”. - “Suor Lucilla!”, disse Cornelia, “Era terribilmente acida; poverina, è da tempo chiusa in un convento per sorelle non più autosufficienti”. - “Adesso questa cos’è esattamente”.
- “È una casa di cure per malati cronici a lunga degenza; ci lavora Ercole il figlio di zio Salvo, è geriatra”. - “Ah, allora l’ha ottenuto il trasferimento da Treviso, finalmente!”. - “Sì, sì, menomale. Sua madre stava impazzendo a saperlo ancora lontano. È stato trasferito da poco, da meno di un anno”. - “Va bene! Vado, grazie mille per il aggio!”, disse Stefano mentre scendeva dall’automobile, “Ci vediamo domani”. - “Ok, a domani”, rispose Cornelia, alle prese con la chiusura difettosa del tettuccio apribile della piccola auto. Stefano salì con molta calma le scale, cercando di guardare bene le caviglie per non rischiare di portare sabbia dentro casa. Aprì la porta con la chiave secondaria che zia Letizia gli aveva consegnato e raggiunse il bagno per farsi la doccia. Poco dopo, ancora con l’accappatoio addosso, decise di telefonare a Federica, la ragazza con la quale da qualche anno aveva stretto una relazione sentimentale bella e sincera e che, per motivi di studio, si trovava da due mesi in Irlanda per uno scambio culturale, organizzato dall’università in cui svolgeva un dottorato di ricerca. La conversazione fu breve purtroppo, Federica era attesa a cena all’ambasciata italiana con il resto del gruppo di lavoro, e così si ripromisero di sentirsi già nelle prime ore del giorno successivo. Chiuso il ricevitore, fu assalito da un forte nostalgia che gli procurò una sensazione di pesantezza al petto, come provava da ragazzino quando, innamorato di qualche compagna di scuola, non trovava la forza ed il coraggio di avvicinarla.
III
I giorni a Tropea trascorrevano veloci, incorniciati quasi sempre dal sole leonino e da una calura piacevole quando non si trasformava in afa africana. Tra i bagni al mare, lo studio per strutturare il lavoro che lo aspettava in autunno, e qualche eggiata in paese nelle ore più fresche, Stefano preferiva are il resto del tempo in casa, a ciondolarsi, coccolato dalle attenzioni di zia Letizia, la quale alternava compiti casalinghi e culinari ai quotidiani incontri piacevoli con la numerosa schiera parentale, che in estate si riuniva quasi completamente intorno a lei. Una mattina chiese a Stefano di cercare nello stanzino-ripostiglio un piccolo ventilatore perché le sarebbe stato utile in cucina, in vista di una grossa “battuta di fritto” orchestrata insieme a zia Nina. - “Trovalu, n’to cambarinu dev’essiri¹⁴! Così non moriamo di caldo chiudendo la porta per non fare puzzare tutta la casa”. - “Sì zia, ma dammi un po’ di tempo, è pieno di scatole e scatoloni lì”. - “Non aviri prescia; io intantu nesciu n’attimu¹⁵. Se viene zia Nina raccomandale di aspettarmi senza mettersi a frittuliari¹ in cucina”. Dopo aver finito il capitolo del libro che stava leggendo, andò in salotto, aprì la porticina dello stanzino, ma praticamente non riusciva a veder nulla; cercò l’interruttore della luce e non lo trovò, così decise di aprire la finestrella. Dovette girare la manopola di ferro con una certa forza ed altrettanto dovette fare nel dare uno strappo all’anta in legno affinché si aprisse tutta, ma alla fine l’ebbe vinta. Una luce debole entrò subito rischiarando le ombre delle scatole stipate, mentre la sua attenzione, come il primo giorno, fu rapita dalla vista della seconda finestra dirimpettaia. Questa volta ebbe chiara l’immagine dell’uomo disteso sul lettino automatizzato; il capo appariva sollevato rispetto al resto del corpo, anche se il biancore delle sue carni si confondeva con quello delle lenzuola.
Il viso scarnito, ed occupato nella zona inferiore da una mascherina per l’erogazione dell’ossigeno, aveva comunque un fascino particolare, un qualcosa che attirava l’attenzione per l’incapacità di definirne il genere, in un misto di femminile e maschile, percepibile in modo paradossalmente schizofrenico. Assorto come era per quella visione, non si accorse subito della presenza di una infermiera, corpulenta ed ossigenata, che cercava, con un fare agitato, qualcosa di particolarmente importante dentro un armadietto posto vicino alla finestra del relè infermieristico. Appena colse quella presenza, si ritrasse con tutto il corpo provando un senso di vergogna per quel voyeurismo istintivo che lo aveva assalito; non resistette tanto però e decise nuovamente, con movenze feline, di affacciarsi per osservare colui che nella sua mente aveva paragonato ad un “uomo albero”, o meglio, ad un “albero umano”. Come l’albero veniva cibato da radici filamentose, per lui trasparenti, e come un albero, nonostante l’immobilità, cresceva in fogliame, ogni tanto potato da mani generose. Forse era ormai un albero senza frutti, ma pur sempre un albero rimaneva in tutta la sua bellezza, figlio della natura e degno per questo di massimo rispetto. L’infermiera, nel frattempo, comparve nella stanza accanto, agitandosi intorno al lettino dell’uomo; la coda di cavallo con cui aveva raccolto i capelli si muoveva velocemente da una parte e dall’altra del suo capo. La vide chiudere con le dita l’infusore della flebo e con una mossa sicura smontare quella finita risistemandone una nuova, che evidentemente poco prima aveva cercato. Un tocco con le dita per far scendere la prima goccia e poi via, l’albero riprendeva a cibarsi dalla sua radice. Stefano ebbe l’impressione che la donna stesse parlando con qualcuno dentro quella stanza; in effetti, una mano incominciò ad accarezzare la fronte di quell’uomo, dolcissimamente, con il dorso prima, con l’indice piegato poi ed infine col palmo. Un lampo gli si conficcò tra gli occhi: rimase impietrito. “Non può essere”, pensò, mentre riguardava attentamente quell’anello del dito mignolo: lo riconobbe subito, un recinto quadrato in oro, ricoperto da tanti brillantini. Era l’anello di zia Letizia, portato giorno e notte e da cui mai si separava.
- “Zia Letizia, cosa ci fai lì?”, chiese a se stesso a bassa voce. Decise di non vedere più. Chiuse la finestra cercando di non fare il minimo rumore, afferrò la scatola del ventilatore, che fortunatamente non fu difficile trovare, e si richiuse la porta dietro le spalle come se dovesse tenere qualcuno lontano. Non riusciva proprio a capire, la sua testa incominciò a partorire mille congetture e soprattutto non riusciva a capacitarsi del perché la zia non avesse mai accennato a quell’uomo. Perché era lì? Chi era quell’uomo? Perché quella carezza familiare ed affettuosa? Incominciò a non darsi pace, arrovellandosi in pensieri contorti ed inconcludenti. Intanto posizionò il ventilatore in cucina, badando che funzionasse nonostante la prolunga della presa elettrica fosse un po’ vecchiotta. All’improvviso il suono a pernacchia del citofono lo distolse da ciò che stava facendo, ma non dal ricordo di quella scena vista poco prima. Decise che, almeno per il momento, era meglio non chiedere nulla, affrontare la zia in maniera diretta non era minimamente nelle sue intenzioni e avrebbe solo rischiato una situazione di imbarazzo o peggio di chiusura, come spesso le aveva visto fare. Quindi, risistemate le sue riflessioni in una apparente calma, prese la decisone di lasciare fare al caso, prima o poi avrebbe trovato il modo migliore per presentare alla zia le molte domande già presenti. Stefano si ritrovò dietro la porta d’entrata zia Nina, tutta trafelata per le scale appena percorse, seguita a ruota dalla sorella, Letizia, che la introdusse in un batter d’occhio in cucina dove le attendeva una cesta di pesce da paranza pronta per essere ripulita, infarinata e fritta. Lui, con la scusa di dover imbucare una cartolina coloratissima e brillantinata, uscì di casa per farvi ritorno solo all’ora concordata per il pranzo. Dopo circa due ore, ai rintocchi delle campane della Cattedrale, si introdusse in uno dei due vicoli che parallelamente portavano alla casa che lo ospitava ormai da più di un mese e, solo arrivato vicino al portone del palazzo, con la coda
dell’occhio, intravide una figura che indossava un camice bianco, a lui molto familiare. Ercole D’Amico, omonimo per cognome, lo salutava con un sorriso stampato e bianchissimo, sottolineato da una abbronzatura che, al confronto, avrebbe fatto impallidire quella di tanti pescatori di Tropea. - “Finalmente ci incontriamo”, gli urlò praticamente in faccia Ercole. - “Era ora”, rispose Stefano mentre si sporgeva per abbracciarlo calorosamente. - “Sapevo che eri qui, ma io sono rientrato solo l’altro ieri dalle ferie e come vedi sono già al lavoro”. - “Lo so, lo so, me lo aveva detto Cornelia, in primis del trasferimento e poi, non vedendoti, delle tue ferie”. - “Vieni, andiamo qui di fronte a prendere un aperitivo”. - “No, non posso, zia Letizia e zia Nina mi stanno aspettando per pranzare”, rispose quasi timoroso. - “Ma dai, facciamo presto. Tra un po’ inizia il mio turno, altrimenti sarei salito pure io a mangiare con voi... peccato. Alla prossima”. Stefano fu convinto dalla simpatia del cugino a ritardare nel rincasare, e soprattutto fu rapito dal pensiero di poter chiedere ad Ercole qualche notizia in più sull’uomo albero. Si sedettero in uno dei tavolini in vimini che facevano da appendice al locale, al fresco dell’ombra di grandi ombrelloni gialli, rallegranti con la loro chiazza di colore la piazza del centro storico, ed ordinarono da bere. Ercole praticamente si tuffò sulle tante prelibatezze tipiche della gastronomia di Tropea, che accompagnavano ogni buon aperitivo in origine frugale: pizzettine, olive di giara, salamino piccante, frittelle di cipolla rossa e fiori di zucca furono preda dell’appetito del cugino, il quale ad ogni boccone si giustificava dicendo: “Tanto tu adesso devi pranzare!”. Stefano in sostanza non toccò cibo, limitandosi a bere l’analcolico che aveva
ordinato. Dopo uno scambio di informazioni circa la buona salute dei rispettivi nuclei familiari, i cugini incominciarono a studiarsi celatamente, come facevano da bambini quando l’istinto di affermazione li induceva a stabilire chi fosse tra loro il migliore, il più forte, il leader di una piccola compagnia estiva di ragazzi, assemblatasi spontaneamente tra i vicoli dei palazzi del rione. Il medico si presentava con la possanza di un giovane uomo abituato al sudore della palestra, a cui associava una sorta di fierezza sociale rappresentata dal semplice fatto di indossare il camicie bianco; Stefano, invece, alla freschezza di una giovinezza brillante aveva aggiunto uno sguardo malinconico che non lo aveva più lasciato sin dal giorno in cui suo padre si ammalò. Quest’ultimo prese coraggio e portò l’argomento a sfociare nell’ambito lavorativo del cugino: - “È da tanto che lavori qui?”. - “Da circa un anno!”, rispose Ercole, “Tutto sommato mi trovo bene; poi giusto per accontentare mia madre, non ce la facevo più a sentirla lamentare per il fatto di avermi lontano. C’è stata la possibilità ed ho preso la palla al balzo; ti ricordi il professore Ferdinando? Prima di congedarsi mi ha chiamato offrendomi l’opportunità di sostituirlo”. - “Bene per te allora, hai potuto così avvicinarti a casa. Di che tipo di struttura si tratta?” - “È una casa per la salute. Ci prendiamo cura dei malati a lunga degenza, magari reduci da incidenti o da malattie invalidanti. Facciamo anche riabilitazione fisica e mentale e curiamo, anzi assistiamo, persone in coma o post coma”. - “Accidenti che lavoro, ci sarà tanto da fare. Quindi è una struttura all’avanguardia?”. - “Sì, i degenti provengono un po’ da tutto il sud Italia. Qui trovano una buona sanità, non perché ci lavori io, ma perché effettivamente gli investimenti di capitali privati e pubblici per una volta sono andati a buon fine”.
- “Meglio così. A proposito, stamattina ho visto zia Letizia entrarvi, forse ti cercava?”. - “No, non penso, sapeva che ero a casa; ha chiamato stamattina all’alba, saranno state le 7 e 30, perché cercava mia madre e le ho risposto proprio io. No, probabilmente è venuta a trovare Roberto”. Proprio in quell’istante suonò il cerca persone di Ercole, il quale tra una sbuffata e l’altra si alzò di scatto guardando verso l’entrata del nosocomio. - “Scusami Stefano, devo andare, se mi hanno cercato ci sarà un’urgenza”. Diede una stretta di mano al cugino e poi aggiunse: “Ci vediamo presto, una sera di queste ci organizziamo per andare a mangiare una pizza. Ciao, salutami le zie”, e mentre finiva la frase era già sparito dalla vista del cugino.
IV
La mangiata di fritto di mare si rivelò più superba di quanto l’aveva immaginata salendo le scale, inzuppate di un odorino succulento e stuzzicante. Zia Nina, raccolte le sue cose che aveva lasciato sul divanetto dell’entrata, salutò la sorella ed il nipote promettendo una visita in serata. Stefano, preoccupato quasi al pensiero di ritrovarsi da solo con donna Letizia, fu assalito dall’ansia di saperle chiedere con le giuste parole notizie di ciò che in mattinata i suoi occhi avevano visto inequivocabilmente; forse spinto da una leggerissima ebbrezza causata da un eccellente vino bianco, fresco fresco, regalatogli dall’inquilino del piano di sotto, riuscì ad aprire la bocca per fare uscire una serie di parole, che anche a lui parvero prendere animo da sole: “Senti zia”, le disse avvicinandosi al balconcino del salotto le cui ante stavano per essere accostate da donna Letizia, con il solito rituale pomeridiano, “oggi ti ho vista qui di fronte, alla casa di cura”. L’immobile cortina rigida, che soventemente accompagnava ogni comportamento di donna Letizia, parve traballare leggermente. Si toccò i capelli con un moto di stizza, con un gesto repentino scrollò dalle spalle eventuali capelli caduti, e si sistemò la camicetta, nera con piccolissimi pois grigi, lungo i fianchi. Poi come per spazzolare con le mani anche la gonna, mosse le braccia sul davanti e dietro in quella che poteva apparire come una danza ritmica dalla cadenza ripetuta. Si avvicinò al divano posto davanti ai balconcini del salotto e sprofondò tra i cuscini damascati di color granato, che insieme a lei sobbalzarono all’impatto duro con le molle, che ogni tanto spuntavano dall’imbottitura tra le trame del tessuto ormai liso dal tempo. Donna Letizia, data la sua statura, quasi non poggiava i piedi al pavimento, solo con le punte delle scarpine basse riusciva a sfiorare le maioliche celestine del pavimento della stanza e, nonostante la penombra in cui lo spazio era piombato, a Stefano sembrò di intravedere un filo di sudore sulle tempie della zia.
Un silenzio imbarazzante si intromise tra i due; lui cosciente del fatto che dalle parole pronunciate prima ormai non poteva più tornare indietro, donna Letizia rassegnata ad aprire cassetti della memoria per nulla piacevoli e per di più chiusi da una promessa suggellata dal vincolo sacro che la legava, a filo doppio, all’amore fraterno per Giorgio, padre di Stefano e primogenito della sua famiglia, Pubblico Ministero presso il Tribunale di Palermo tra gli anni ‘50 e ‘60. Stefano si guardò bene dal ripetere la domanda e decise di rispettare i tempi che in quel momento dettava la zia. Donna Letizia si mosse un po’ quasi a cercare la posizione migliore e comoda; con i piedi penzolanti ed incrociati, sistemò le spalle allo schienale del divano e mise le braccia incrociate sull’addome in atteggiamento di difesa. - “Come hai fatto a vedermi?”. - “Dalla finestrella dello stanzino. Stavo cercando il...”. - “Ah, sì, u sacciu”¹⁷, lo interruppe bruscamente la zia. - “Scusami se sono indiscreto”, disse Stefano, certo di aver intrapreso a camminare in un campo minato. - “No, no,”, continuò veloce Donna Letizia, “ero consapevole che prima o poi avrei dovuto affrontare la faccenda, ma contemporaneamente aspettavo il tuo ritorno, che dalla morte di tuo padre si è fatto attendere a lungo”. Stefano percepiva a pelle il forte imbarazzo della zia e in una sorta di salvaguardia spontanea ed affettuosa per quella donnina, si precipitò a porgerle nuovamente le sue scuse: - “Zia perdonami, forse non dovevo... Scusami non voglio costringerti a dirmi niente che tu non voglia, ma mi ha sorpreso e non poco vederti accanto al letto di quell’uomo, lì nella stanza di Roberto”. Donna Letizia a quelle parole sembrò molto impacciata, storcendo le labbra che più del solito apparivano sigillate e fini. - “Roberto, conosci anche il nome vedo, chi te l’ha detto?”.
- “È stato Ercole. L’ho incontrato poco prima di pranzare, sotto, giù in piazza. Abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere, era da tanto che non ci incontravamo; mi ha raccontato delle sue ferie e del suo nuovo lavoro”. - “Ercole, parra sempri assai, comu a mammisa”¹⁸. - “Sono stato io a chiedergli di quell’uomo, lo avevo già visto l’altro pomeriggio, casualmente perché la finestra dello stanzino sbatteva con il filo di corrente d’aria che c’era. Mi sono affacciato e poi dalla finestra dell’ospedale quasi lo puoi toccare con le mani”. La zia mugugnò, un sibilo greve si udì nonostante le sue labbra fossero serrate, e contemporaneamente, abbassando il capo in avanti, riprese a spazzarsi la gonna con il palmo delle mani. - “Chia finestra non c’è modu u ma fazzu acconzari”¹ , disse con tono duro, quasi come se la vera colpa di quel segreto violato fosse da attribuire a quattro pezzi di legno. - “Comunque”, continuò donna Letizia rassegnata a svelare ciò che prima o poi, in cuor suo, sapeva di dover condividere, “Roberto non è il suo vero nome. Si chiama Cosmo, Cosmo Guttara”. A Stefano quel nome non ricordò nulla se non la probabile origine meridionale di quell’uomo, quasi amorfo e privato di qualsivoglia identità. - “Roberto... Cosmo, oggi è un uomo di quasi 35 anni!”, continuò donna Letizia, “Lo portò a Tropea tuo padre più di dieci anni fa. Anche lui è palermitano”. Stefano incominciava a non capire dove la zia volesse andare a parare. Mille pensieri incominciarono a svolazzargli in testa ed ebbe anche la paura di scoprire chi potesse essere quello che lui aveva definito un albero umano. - “Mio padre...? E perché lo portò qui? Già malato...? Non capisco”. - “Stefano, tu allora eri poco più che un ragazzino. Quell’estate ricordo che a voi bambini vi mandarono in montagna con le suore del Sacro Cuore, tua madre rimase comunque a Palermo per star vicino a Giorgio”.
- “Sì, sì, zia, ma che c’entra la montagna, le suore eccetera; ricordo, fu l’estate più brutta della mia vita, ai le giornata a fare da guardia a Marcello e Fabio che ad ogni piè sospinto si metteva a piangere e a vomitare”, ribatté Stefano, sopraffatto dalla ansia di scoprire cosa ancora nascondesse la zia. - “Tuo padre quell’estate rischiò di rimanere ucciso”. A sentire quelle parole il ragazzo impallidì nonostante la calura estiva delle prime ore del pomeriggio fosse insopportabile; il sangue gelò le vene ed un brivido gli corse lungo la schiena. Conosceva il lavoro di suo padre, sapeva che non era stato dei più facili. A Palermo esercitare la professione di Pubblico Ministero non era mai stata cosa da poco conto, soprattutto presso la Corte d’Assise. Giorgio D’Amico, nato per fare il magistrato, come diceva spesso zia Letizia, per il senso di giustizia, d’onestà e di ordine appartenutigli fino alla fine, che spesso lo avevano portato ad assumere atteggiamenti coraggiosi, decisi e non sempre condivisi dai suoi stessi colleghi e dall’opinione pubblica, fu costretto a scontrarsi con il lato buio di una professione, che soventemente aveva saputo relegare gli uomini dello Stato negli abissi della solitudine e nella mediocrità della gratuita calunnia. Stefano, a quei pensieri, si sentì rinfrancato dai ricordi affettuosi di tanti amici di suo padre, generosi nel rammentarlo quale uomo aperto, leale, sincero e tenace. Donna Letizia faticò ad alzarsi; dopo aver appoggiato i piedi stabilmente sul pavimento, si diede una spinta con la mano pressata al bracciolo e si ritrovò in piedi davanti a suo nipote. Adesso guardava il figlio di suo fratello dritto negli occhi; le sue pupille, scure circondate da un cerchio sottile grigiastro di cataratta, apparivano al nipote più espressivi che mai, in un comunicare straordinario che solo gli animi profondi riescono ad avere, come forza propulsiva nel venir fuori da un corpo quasi sempre vissuto come limite e fonte di pudore. - “Quell’estate, Cosmo Guttara, salvò la vita a tuo padre”. Pronunciate quelle parole, donna Letizia si voltò quasi a nascondere la paura che
quel ricordo ancora le suscitava. - “Era il 10 agosto del 1964. In mattinata si era avuta la sentenza presso la Corte d’Assise di Palermo della condanna di un certo Gaspare Malatesta. Questo mostro aveva armato la sua mano contro la moglie Isabella Isidoro, colpevole secondo le maldicenze locali di intrattenere una tresca amorosa con il giovanissimo Cosmo, amico d’infanzia del figlio Antonino. L’uomo, quella mattina, fu condannato a dieci anni nonostante tuo padre avesse chiesto nella sua requisitoria almeno 14 anni di pena; invece la Corte decise diversamente condannandolo a dieci anni di reclusione avendogli riconosciuto alcune attenuanti. Anche in quell’occasione l’aula fu assediata da un pubblico ostile, pronto a difendere l’eroe dell’onorabilità, e non appagato da quella sentenza, seppur non rispondente alla richiesta avanzata dal Pubblico Ministero”. Donna Letizia si girò nuovamente, pronta a reggere lo sguardo interrogativo di Stefano, che prontamente domandò alla zia il ruolo di Cosmo in quella mattinata. - “Usciti dall’aula dove si era svolto il dibattimento, tuo padre incontrò nell’androne del palazzo Cosmo, il quale era parso sempre un ragazzo bravo ed educato. Cosmo Guttara si intrattenne con lui un po’, il tempo di ringraziarlo per l’impegno che aveva dedicato nel ristabilire, con le requisitorie, la verità del suo comportamento corretto e rispettoso. Arrivati davanti all’entrata del tribunale, videro Antonino Malatesta avanzare verso di loro, tuo padre pensò che si stesse avvicinando a Cosmo ma, prima che gli agenti di guardia se ne accorgessero, questi si scagliò contro Giorgio con un coltello in mano. Cosmo si mise in mezzo con il suo torace, facendo da scudo a tuo padre; quel povero ragazzo fu infilzato all’altezza del collo scatenando una cascata di sangue ed il successivo arresto cardiaco. Da quel momento è stato ridotto così, come tu l’hai potuto vedere, in coma da più di un decennio”. - “Sì... ma ancora non capisco, perché lo ha portato qua?”, chiese Stefano frastornato in un misto di curiosità e gelosia. - “Cosmo praticamente non aveva nessun familiare capace di prendersi cura di lui. Il giorno dopo l’operazione a cui fu subito sottoposto, tuo padre accompagnò la sorella in un negozio per comprare pigiami, asciugamani e quant’altro gli potesse servire in ospedale. Non possedevano niente, vivevano in una baracca a ridosso della Vucceria dove Stella, la sorella di primo letto di Cosmo, si prostituiva per campare. Fu lei stessa a pregare tuo padre di aiutarla, e Giorgio
non ci pensò due volte, mosso com’era dalla riconoscenza per quel ragazzo che gli aveva salvato la vita. Gli trovò un letto in una casa di cura a Terrasini, ma dopo circa un anno gli giunse notizia che Stella era stata trovata morta in una stradina di campagna di Cinisi. Allora, dopo aver sbrigato le scartoffie per poterlo avere sotto la sua tutela, decise di portarlo a Tropea. ‘Comu a nu nipoti trattalu’² , mi diceva ogni volta che veniva a trovarmi”. - “Zia, ma perché nascondercelo?”. - “Ma no, non voleva essere un segreto di stato. Tuo padre rimase sconvolto da quella vicenda. Nessuno in fondo seppe mai che il coltello era stato preparato per lui; Antonino Malatesta fu accusato di tentato omicidio nei confronti di Cosmo, cosa che naturalmente non smentì mai, i giornali nei giorni successivi pubblicarono solo articoli che raccontavano dell’incidente accaduto a Cosmo e commesso volontariamente da Antonino. Giorgio, poi, ha sempre cercato di tenervi fuori da questa storia per non darvi preoccupazioni, innanzitutto a tua madre, e poi a voi che eravate ragazzini con il diritto di vivere spensierati”. Stefano si mosse nella stanza senza avere ben in mente cosa effettivamente dovesse fare o dire. Fu zia Letizia che ancora una volta lo sollevò dall’imbarazzo: - “Dentro il baule della mia camera da letto c’è una scatola di latta grande, quella delle caramelle svizzere. Prendila per favore, e poi rimenti tuttu o postu”. Il nipote ubbidì più per educazione che per la voglia di uscire da quella stanza e dai suoi pensieri. Tornò velocemente con in mano la scatola begiolina, dipinta con mille tulipani colorati. Donna Letizia, che nel frattempo si era seduta su di una sedia impagliata vicino ad una delle consolle, perché molto provata da quella discussione, invitò il nipote ad aprire il contenitore, operazione che risultò non facile per tracce di ruggine sulla chiusura in metallo, tanto da costringere Stefano ad poggiare la scatola sul tavolinetto per forzarne l’apertura. Il contenitore racchiudeva un plico di quelli che apparivano documenti, articoli di quotidiani, pagine di riviste, racchiusi in una pila trattenuta da uno spago
colorato per dolci. Mentre il nipote istintivamente già snodava il fiocco, donna Letizia anticipò il contenuto: - “Sono ritagli di giornali, articoli che parlano di Giorgio e dei suoi processi; ci sono alcune foto e qualche brevissimo appunto che usava annotare tuo padre per le sue requisitorie. Me le ha donate tua madre, certa che mi faceva un gran bel regalo. Prendili, è giusto che li abbiate tu ed i tuoi fratelli”. Stefano fu ben lieto di ricevere quel regalo che andava a colmare in parte le lacune rappresentate dalla non conoscenza, particolare e precisa, della professione di suo padre. Giorgio D’Amico, infatti, cercò sempre di tenere la sua attività il più possibile lontana dalla famiglia; nessuna notizia a carattere giudiziario oltreava la soglia di casa e non usava preparare i discorsi che sempre procedevano vigorosi di fronte alla Corte. Mentre con avidità i suoi occhi iniziavano ad esaminare quelle carte, lo squillo del citofono squarciò la fitta concentrazione di quel momento. Immaginava chi fosse perché si ricordò immediatamente dell’appuntamento che aveva convenuto con Cornelia e Mimmo, i quali erano entusiasti all’idea di accompagnare il cugino in una breve visita presso alcune grotte paleolitiche rinvenute a pochi chilometri da Tropea. Chiuse immediatamente la scatola e si precipitò al citofono dove raccomandò a Cornelia di attendere il suo immediato arrivo. Tornato in salotto, si avvicinò alla zia, ancora seduta dove prima l’aveva lasciata; si mise in ginocchio di fronte alle sue gambe, sempre coperte da calze velate di nailon, e guardandola fissa negli occhi le disse: - “Zia, adesso devo andare. Mi dispiace se ti ho costretto a dire quello che ancora non volevi. Ciò che mi hai raccontato è molto importante, ed ora più che mai sono fermamente convinto che, in fondo, mio padre non lo conoscevo abbastanza”. Stefano pronunciò quelle parole con rammarico misto ad orgoglio e la zia, che tante cose avrebbe voluto ancora dirgli, restò sola per il resto del pomeriggio, ancorata al ricordo prezioso ed amorevole di suo fratello, uomo antico, morto
giovane proprio per quel cuore che tanto aveva combattuto fino a spezzarsi in due per un infarto, una notte stellata e calda del 1972.
V
Il pomeriggio in piacevole compagnia si prolungò per i giovani ragazzi fino a notte inoltrata; dopo la gita fuoriporta, Cornelia e la sua disinibita allegria trascinarono Stefano da Bettina, un’abilissima cuoca che sapeva trasformare le verdure, coltivate in un piccolo orto sull’altopiano sovrastante Tropea, in piatti sopraffini e raffinati. Tra un bicchier di vino e l’altro, la prima serata volò via senza che i cugini se ne accorgessero troppo, e le chiacchiere divertenti che accompagnarono la cena li condussero direttamente al lido dove, da qualche tempo, si organizzavano concerti e balli all’aperto. I ragazzi che ormai conosceva erano diventati tanti, qualcuno più simpatico qualcun altro meno, ma tutti pronti come lui a far baldoria fino alle prime luci dell’alba. Non avendo voglia di mischiarsi al gruppo di provetti ballerini rappresentati da Ugo, lo spilungone, che faceva il verso a John Travolta sulla musica dei mitici Bee Gees, Stefano si allontanò dalla pista da ballo incorniciata da un muretto costruito con le pietruzze di mare, dirigendosi verso gli ombrelloni chiusi, lasciati a contrastare da soli l’alta marea che ogni notte bagnava la spiaggia bianchissima e sottile. Ora la musica era diventata una semplice melodia di sottofondo, che confondeva le sue note con le voci sguaiate di un gruppo di ragazzi i quali, affacciati del belvedere del corso principale del paese, si sfidavano allo sputo più lungo, che avrebbe dovuto percorre circa una sessantina di metri di dislivello prima di toccare la spiaggia sottostante. In quel momento ebbe la sensazione di non avere più idee e talmente forte fu la sua voglia di rilassarsi che la vista della Croce illuminata, piantata in cima alla chiesetta costruita su un promontorio di roccia posto alla sua sinistra, si confuse con la luce splendente della luna piena, a quell’ora alta in cielo. Sdraiato sulla sabbia si addormentò per qualche minuto tanto da permettergli, in quel che forse era un semplice dormiveglia, di rammentare per un attimo come
in un fermo immagine il volto struggente e malinconico di Roberto... Ma la voce di Mimmo, che lo cercava lungo la battigia, lo destò da quel riposo fugace e rinfrancante. Riaccompagnato che già l’aurora si intravedeva dalle colline del golfo a nord della cittadina, Stefano intuì l’impossibilità di rinnovare il suo incontro con Morfeo e decise che avrebbe dovuto subito sanare la sua sete di conoscenza e curiosità, onde evitare un ulteriore perdita di tempo da dedicare allo studio, già trascurato in quella giornata. Trovò la scatola di latta sulla consolle in mogano della stanza più grande della casa, chiusa ed allineata ad una statuetta in bronzo raffigurante Napoleone in battaglia. La prese e si sedette sul divano dal lato dove c’era un piccolo treppiede con sopra una lampada in stoffa merlettata; toccò l’interruttore e la luce fioca dell’alba si ravvivò in quella più forte artificiale. Posata la scatola sulle gambe, aperta in modo più deciso e fermo, iniziò il lento rituale che già il pomeriggio prima aveva praticato, nell’intento di sciogliere il nodo racchiudente la pila di documenti. In cima, tra numerose scartoffie, galleggiava una fotografia ingiallita dal tempo con i margini smerlati tipici di quelle antiche; raffigurava suo padre in giovane età, quasi di spalle, appoggiato ad un tavolo, con indosso la toga da magistrato e gli occhiali alzati sulla fronte come chi, sudato e stanco, cerca refrigerio agli occhi ed alla gobba del naso. Sul retro dell’immagine, un’altra foto, rimasta attaccata da evidenti residui di colla ingiallita, mostrava, in posa, una coppia innamorata, quella dei suoi genitori; sua madre, donna elegante ed austera, dallo sguardo profondo e penetrante, in un viso incorniciato da una acconciatura corvina, che ricordava le prime star di Hollywood, cinta dall’abbraccio possente ed al contempo delicato di suo marito Giorgio, uomo distinto e dal sorriso accattivante, che sfoggiava un vestito sartoriale a doppiopetto a cui il Borsalino abbinato regalava un tocco di raffinatezza. Stefano guardò a quella scena con un filo di tenerezza, e sentì istintivamente la complicità emotiva che quell’immagine suggeriva; aveva sempre percepito il
forte legame che univa i suoi in un rapporto unico ed indissolubile.
Luisa Adamo, fanciulla di buona famiglia palermitana, secondogenita di tre sorelle, intorno ai primi mesi del ‘47 si ritrovò ad insegnare, da giovanissima supplente, presso il liceo classico Vittorio Emanuele II di via Cassiodoro, nella Palermo bene del periodo post-fascista; Giorgio D’Amico, appena ventenne, e fresco anche egli di licenza liceale, era stato selezionato, già dall’anno precedente, a ricoprire il ruolo di istitutore presso il Regio Convitto Nazionale della stessa città capoluogo di regione, lavoro che gli offriva la possibilità di proseguire gli studi universitari, avendo garantiti vitto e alloggio ed una modestissima paga mensile adeguata all’acquisto di qualche testo di studio, senza dover gravare sulle modeste economie della famiglia, che a Tropea già piangeva la scomparsa del capo famiglia. Il Regio Convitto Nazionale condivideva con il liceo Vittorio Emanuele un grande cortile alberato che solo un muretto basso ed una ringhiera in ferro tubolare separavano distintamente. Le due istituzioni, pur collocate in edifici indipendenti e con le entrate principali poste su vie parallele, internamente apparivano unite e contigue, come a formare un unico corpo; a sinistra, guardando verso i tetti dorati del teatro Politeama, si affacciavano i finestroni del Convitto ed il portoncino che immetteva nell’ampio spazio aperto, il quale fungeva, per i giovani studenti convittuali da area per le attività fisiche al mattino e da campo di calcio nei pomeriggi liberi dalle attività scolastiche; a destra, più o meno la stessa superficie, rappresentava il luogo preferito di ricreazione per i giovani rampolli palermitani, che frequentavano le aule del prestigioso Istituto Superiore della città siciliana. Fu durante una mattinata particolarmente turbolenta che Giorgio e Luisa ebbero modo di conoscersi. A differenza di quanto stabilito dal Consiglio Direttivo del Regio Convitto, gli allievi dell’ultima classe di studi, approfittando dell’assenza temporanea ed urgente di un insegnante, si ritrovarono carichi e pronti a sfidarsi in un eterno torneo calcistico, che sempre più spesso lasciva da parte qualsivoglia spirito sportivo per intraprendere la strada della competizione estrema e personale. La “battaglia”, che ormai durava da poco più di un quarto d’ora, si interruppe solo perché il pallone oltreò la linea di confine degli edifici, a causa di un tiro in porta mal calibrato da uno dei ragazzi; la sfera, finita tra le gambe di alcuni liceali poco propensi a far da raccattapalle, divenne
oggetto di contesa tra i due gruppi di giovani, separati oltre che dalla recinzione ferruginosa, da una mal celata intolleranza reciproca, evidente e palesata in diverse occasioni di confronto. Giorgio D’Amico, richiamato in cortile da un vociare sempre più rumoroso e minaccioso, trovò Lillo De sco in procinto di scavalcare la barriera, pronto come era a riappropriarsi dell’oggetto a lui più caro; fece in tempo a tirarlo giù, strattonandolo per i calzoni, mentre questi rovinava in terra inveendo contro i coetanei del liceo. L’istitutore riuscì a calmarlo e lo invitò a recarsi nei bagni per sciacquare il viso diventato paonazzo per il sudore e l’arrabbiatura. Giorgio diresse lo sguardo dall’altra parte del recinto in cerca di un interlocutore più ragionevole e pacato, e fu così che scorse per la prima volta il viso lindo e delicato di Luisa, la quale prontamente aveva nel frattempo recuperato il pallone e si accingeva a porgerlo. Giorgio le andò incontro, continuando a fissarla negli occhi mentre proseguiva la sua camminata decisa. - “Ci scusi, signorina”, disse abbassando lievemente il capo in segno di rispetto e di saluto, “i ragazzi oggi sono particolarmente turbolenti”. - “Non si preoccupi!”, rispose lei con un filo di voce, “Anche i miei da qualche tempo sono particolarmente, diciamo per essere buoni, agitati”. - “Piacere, mi chiamo Giorgio D’Amico e sono uno degli istitutori del convitto”. - “Piacere mio”, rispose lei con il viso che si illuminò in un sorriso gentilissimo, “Luisa Adamo, insegno Storia dell’Arte e sono qui da qualche mese”. Separati, come i cortili, dai paletti in ferro, si strinsero le mani, riuscendo lei a far scivolare l’esile mano destra attraverso una fessura molto stretta. Da quel giorno, l’ora di ricreazione divenne un appuntamento fisso per Giorgio e Luisa; lui, con la scusa di tenere sotto stretta vigilanza De sco, ragazzo dal carattere irruento e sanguigno, lei, ligia nell’accompagnare fuori, per i minuti di intervallo, i liceali delle classi in cui insegnava a cavallo della seconda e terza ora di lezione. Man mano che le giornate avano e l’anno scolastico volgeva alla fine, gli
incontri apparentemente fortuiti divennero più ricercati ed attesi, accompagnati da colloqui che crescevano per confidenze e intimità di giorno in giorno. Una mattina di fine maggio del 1947, Giorgio azzardò e chiese a Luisa il permesso di poterla riaccompagnare a casa. Si diedero appuntamento fuori dal portone d’entrata del liceo a fine mattinata; Luisa, varcata la soglia inondata di luce abbagliante del primo sole pomeridiano, scorse a malapena in controluce la figura dell’uomo che l’attendeva dall’altra parte della strada. Era praticamente la prima volta che si parlavano senza essere separati da una barriera; con naturalezza, si affiancarono e mossero i i lungo la via solitamente molto trafficata, diventata a quell’ora deserta ed infuocata dalla calura. Lei, nel suo abito in jersey leggerissimo stampato a piccoli fiori colorati, apparve a Giorgio ancora più giovane e fresca, delicatamente profumata da una fragranza agrumata. Giorgio, invece, sembrava ancora più alto e possente nel suo gessato in lino blu, ben rasato di barbiere, tanto che i baffi sottili apparivano dipinti da un abilissimo artista della matita. Percorsero lo stradone che costeggiava i giardini dell’orto botanico e decisero di fermarsi alla frescura offerta da un grande ficus, sotto il quale un venditore ambulante di granite aveva collocato dei tavolinetti per la degustazione. Giorgio spostò la sedia e fece accomodare Luisa, per poi allontanarsi di pochi metri ad ordinare le consumazioni. Lei ebbe così il tempo di compiacersi di quella affabile compagnia, ma contemporaneamente pensò a suo padre, il quale non sarebbe stato di certo contento a vederla insieme ad un estraneo. Il cavalier Adamo, uomo tutto di un pezzo, discendente da una famiglia di illustri avvocati, ed egli stesso tale, non avrebbe sicuramente visto di buon grado quell’illecita compagnia, e così Luisa fu assalita da una sorta di nervosismo che le fece vivere quel bellissimo momento come se fosse seduta non su una comoda poltroncina in vimini e bambù, ma su un cuscino di rose e spine. I due giovani si persero, da quel primo pomeriggio trascorso insieme, uno nei racconti dell’altra, iniziando una danza emotiva, soave e leggera, che avrebbe unito le loro anime per sempre. Luisa, riaccompagnata fin all’inizio della strada dove si trovava il palazzo di famiglia, si congedò da Giorgio con nostalgia e rammarico e, racchiuso il grande portone, si sentì sollevata nel pensare all’incontro successivo, fissato per il
giorno dopo. Mentre Giorgio ripercorreva i i che lo separavano dal convitto con un sorriso compiaciuto che mantenne per tutto il giorno, la ragazza, rientrata tra le pareti domestiche, non resistette al fiume impetuoso delle forti emozioni appena vissute e confidò alla sorella più grande i sentimenti di cui fu preda in modo irresistibile. Più ava il tempo e le giornate scandite da rapidi e fugaci incontri, più il loro amore cresceva solido e forte, proiettato al futuro a cui guardavano con speranza e ione. Ai primi di novembre dello stesso anno, di ritorno da una visita a Tropea in occasione delle festività di Ognissanti, Giorgio attese invano la ragazza all’appuntamento concordato prima della sua partenza; quel pomeriggio non ò velocemente ed un’ansia strana incominciò ad assillarlo insistentemente, diventando paura nei giorni successivi quando di Luisa non ebbe più notizie, se non quella che aveva ottenuto da un alunno liceale, che in cortile gli riferì dell’assenza per motivi di salute della professoressa di Storia dell’Arte. Nelle stesse ore in casa Adamo, la tragedia sembrava volesse impadronirsi del destino di Luisa; la giovane donna giaceva esanime nel suo letto, sopraffatta da una fortissima febbre causata dal tifo, contratto durante una breve vacanza autunnale trascorsa in una casa di campagna vicino Monreale. Ormai era quasi giunta allo stremo delle forze; in casa un via vai di parenti e medici si alternavano per cercare di offrire ai componenti alla famiglia conforto e vicinanza. Ida, la sorella maggiore, mentre sostituiva la madre nei brevissimi momenti di assenza, nel cambiare le pezzuole imbevute di acqua ed aceto sulla fronte di Luisa, nell’intento di tenere a bada l’alta temperatura che l’aveva assalita, raccolse uno dei pochissimi termini chiari emessi dalla sorella tra un rantolo e l’altro del suo smaniare: “Gio... Giorgio”, disse Luisa, con un filo di voce che ad Ida parve poco più che un cinguettio. In quelle fasi concitate della malattia, che si stava prendendo gioco di tutta la famiglia, il cavalier Giuseppe Antonino Adamo si rifugiò nel suo studio, consumandosi dal dolore e dal risentimento nel dover constatare l’impossibilità di poter fare qualcosa per porvi rimedio. Ida, dopo aver bussato, trovò suo padre seduto dietro la sua grande scrivania, con le mani che nascondevano gli occhi, stanchi e cerchiati dalle lacrime trattenute; appena si accorse della sua presenza,
stordito come era, quasi sobbalzò e, corrucciato nell’espressione, domandò alla figlia cosa fosse successo. - “Nessuna novità papà!”, disse Ida, “Ha ancora la febbre altissima, è che Luisa... Luisa ha detto una parola”. - “Ho capito Ida, ma perché mi parli con questo tono dimesso, cosa ha detto?” Ida cercava di trovare le parole più appropriate per non far infuriare suo padre: “Luisa ha pronunciato il nome di... di Giorgio”. - “Giorgio? E chi è Giorgio? Non conosciamo nessuno che si chiami Giorgio”, disse il Cavaliere prontamente. Ida allora si fece coraggio e raccontò a suo padre dell’amicizia nata tra la sorella minore e Giorgio D’Amico, convincendolo, come solo lei sapeva fare, che per amore di Luisa sarebbe stato giusto mandarlo a chiamare, a testimonianza di un atto d’amore familiare per quella figlia sul letto di morte. A malincuore l’avvocato cedette alla richiesta vibrante mossagli da Ida, e dopo poche ore Giorgio varcava la soglia di casa Adamo. L’istitutore si trovò ancora ansimante, per la pena della notizia e per la corsa fatta lungo le strade di Palermo, alla presenza del capofamiglia, il quale, vedendolo all’improvviso e mosso forse da un istintiva gelosia, gli disse con tono autoritario: - “Giovanotto, regolarizzi la sua posizione”. Giorgio inizialmente non afferrò cosa gli venisse richiesto e girò lo sguardo verso Ida, la quale lo tolse subito dall’imbarazzo: - “Papà, è Giorgio l’amico di Luisa che con estrema gentilezza è venuto a chiedere notizie delle sue condizioni”. Salvato in extremis dall’intervento della ragazza, dopo un breve colloquio con la madre, fu introdotto nella stanza di Luisa; vedendola in quel letto, stremata dalla malattia, provò un profondo senso di sgomento e gli venne istintivo avvicinarsi per stringerle ancora una volta la delicatissima mano appoggiata sulle lenzuola. Ciò che avvenne dopo quel momento ebbe del miracoloso: Luisa aprì gli occhi
ed accennò ad un lieve sorriso e Giorgio parve trasmettergli con la sua presenza una forza misteriosa, che di giorno in giorno portò la ragazza a riprendersi completamente. Da quell’episodio trascorsero poco più di quattro anni e Giorgio D’Amico entrò a far parte della famiglia Adamo, regolarizzando, questa volta in maniera quanto mai legale, la sua posizione, essendo divenuto nel frattempo sposo affettuoso di Luisa.
La fotografia immediatamente successiva era invece di qualche anno dopo, forse risalente all’epoca in cui sua madre, di questo Stefano però non era certo, aspettava la nascita del secondo figlio. L’immagine riportava suo padre avvolto in un lungo cappotto in lana di cammello, con il risvolto del collo rialzato, molto probabilmente a causa del freddo. Lo ritraeva accanto al Capo della Procura Palermitana all’uscita dal carcere di l’Ucciardone, in occasione della gravissima sommossa carceraria che fece registrare alle cronache morti e feriti.
Quella sera, Nora, l’anziana cameriera che aveva voluto a tutti i costi seguire Luisa nella sua nuova vita familiare accanto a Giorgio, aveva servito la cena poco dopo la fine della sigla del Carosello. Stefano, ancora in calzoncini corti da bambinetto, si era accomodato sulla sedia che dava le spalle alla finestra, in postazione utile a guardare ancora per poco la televisione, che puntualmente sarebbe stata chiusa di lì ad una mezzoretta, giusto il tempo per ascoltare il telegiornale delle venti. Sua madre si accomodò di fianco a lui, pronta come sempre a ripulirlo nell’eventualità si fosse sporcato con la minestrina ancora bollente e fumante. Appena il tempo di prendere il cucchiaio preferito, quello dipinto con gli smalti colorati, e Stefano sentì il citofono suonare e si divertì a vedere Nora, prontissima come una centometrista, schizzare verso la porta ad accogliere Giorgio e la sua borsa marrone di pelle quasi consumata. Il dottor D’Amico, ormai da anni in servizio presso la Procura di Palermo, salutò sull’uscio della stanza da pranzo i presenti, cacciando appena il naso dentro il locale invaso da un ottimo profumino di minestra fatta in casa.
- “Ciao a tutti”, disse col vocione da tenore che si ritrovava. - “Ma dove corri Giorgio?”, chiese Luisa mentre stendeva il capo come a seguirlo nell’altra camera. - “Luisa scusami non ho tempo, devo correre. Mi cambio e torno a lavoro”, gridava dal disimpegno che portava alle stanze da letto. - “Ma come, non ti fermi neppure a cenare?”. - “Luisa non posso, non ne ho il tempo, e poi ho perso la fame pensando alla nottata che mi attenderà”. La donna incominciò a preoccuparsi; sapeva a cosa il marito si riferisse, ancora nelle orecchie sentiva il rumore assordante delle sirene che per tutto il pomeriggio avevano imperversato per le strade di Palermo. Un andirivieni di macchine della Polizia, della Finanza e dei Carabinieri e poi quelle in servizio alla Procura ed anche qualche ambulanza; intorno alle 14, all’ennesima scorribanda di auto della polizia, non aveva più resistito e combinò sul tasto rotante del telefono il numero diretto dell’ufficio di Giorgio il quale, dopo aver cercato di rasserenarla un po’, le spiegò i motivi di tutto quel trambusto per la città: un numero cospicuo di detenuti avevano inscenato una rivolta, al termine dell’ora d’aria. Adesso, però, non immaginava che il marito dovesse ancora continuare il suo lavoro per quella lunghissima giornata. Lasciò Stefano al tavolo, intento a giocare con le palline di mollica, e si diresse nella stanza dove Giorgio stava finendo di sistemarsi il nodo della cravatta. - “A che ora tornerai?”, chiese Luisa un tantino imbronciata. - “Non ne ho idea!”, disse l’uomo mentre si girava per farsi sistemare meglio il nodo intorno al collo, “C’è bisogno della nostra presenza al carcere, praticamente la protesta è dilagata nella maggior parte dei bracci e la Polizia attende ordini per muoversi”. Luisa aggiustò il cappotto del marito, che con la giacca sotto gli rimaneva sempre un tantino storto sulle spalle, poi si alzò sulla punta dei piedi e con rapidità estrema, dettata da un profondo senso del pudore, baciò il suo Giorgio. - “Stai attento”, aggiunse la donna mentre lo riaccompagnava di là, dove Stefano lo attendeva per il bacio della buona notte.
Salutata la famiglia e Nora, che prontamente gli aprì la porta di casa, il magistrato non ebbe la pazienza di attendere l’arrivo dell’ascensore e si precipitò a o veloce giù per le scale, alla fine delle quali un giovane agente delle Forze dell’Ordine lo attendeva per scortarlo all’Ucciardone. La nottata fu veramente difficilissima, il Procuratore Capo aveva tentato la mediazione con quelli che capeggiavano la rivolta, onde evitare ulteriori disordini e soprattutto atti violenti nei confronti della guardie carcerarie, due delle quali rimaste tra gli spazi occupati dai detenuti. Ogni tanto una sventagliata in aria di mitraglietta veniva ordinata agli agenti antisommossa, sistemati nel cortile interno di fronte alle feritoie dell’edificio B, per sedare le grida e gli strilloni che dalle celle si diramavano per tutto il vicinato, ormai da più di dodici ore; alle raffiche seguivano puntuali gli schiamazzi e le ingiurie accompagnate dallo sbattere incessante delle gavette sui ferri delle grate. - “Oh capitanu... sparanci a sta grandi minchiaaa!”, gridò una voce dal braccio numero quattro. - “Sì, sì, sparanci accussì to matri chiangiii ahhhh....”, gli fece eco Baldassarro Serrao dalla cella numero 149. La situazione precipitò intorno all’una e mezza quando arrivò la conferma che un secondino era stato bloccato all’altezza della terza scala del braccio B. L’ultima raffica di colpi si concluse con l’uccisione di un detenuto, non curante dello stato di crisi in cui si trovavano tutti gli uomini dentro la casa circondariale, che si era piazzato dietro le sbarre della finestra della cella numero 57. Con quella morte tutto si placò; l’agnello sacrificale portò con se calma e silenzio, e Giorgio insieme agli altri uomini della Procura lasciò l’Ucciardone, assediato da giornalisti e fotografi, per far ritorno a casa alle prime luci del mattino. Il dottor D’Amico – diceva la relazione per la promozione a magistrato di Corte d’Appello – si è inoltre distinto per l’elevato senso del dovere ed eccezionale operosità in occasione della gravissima rivolta dei detenuti nel carcere giudiziario di Palermo, durante la quale egli intervenne prontamente, andovi anche la notte, per collaborare col Capo della Procura nell’opportuna assistenza alle drammatiche operazioni di repressione da parte delle forze dell’ordine, al
fine di garantire la perfetta legalità; e successivamente, non appena sedata la rivolta, collaborò efficacemente con altri colleghi nell’istruzione del procedimento, senza indugio promosso con rito sommario, per assicurare e raccogliere le prove ed identificare i responsabili dei numerosi e gravi reati che durante la rivolta erano stati consumati, riuscendo, con i colleghi, mediante un’attività intelligente ed indefessa, ad ultimare nel termine di legge l’istruzione sommaria del complesso procedimento, conclusosi col rinvio a giudizio di ben 183 detenuti imputati di numerosi gravi delitti. Per tale comportamento il dott. D’Amico ha riportato un encomio del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo²¹.
VI
Stefano mise da parte le fotografie e si ritrovò davanti la metà di un foglio di giornale piegato in quattro; lo spazio era occupato dall’articolo giornalistico del quotidiano “L’Ora di Palermo”, datato 21 giugno 1962, e recava un titolo a caratteri cubitali: Ventitre anni di reclusione chiesti dal PM dott. Giorgio D’Amico, mentre il sottotitolo, in corsivo, riportava una scritta più decentrata: Per l’omicidio di Matteo Intrieri, il valoroso rappresentante della pubblica accusa ha sostenuto la piena responsabilità dell’imputata. A corredo delle parole, una fotografia di suo padre durante il dibattimento in aula e poi un lungo pezzo giornalistico firmato dal caporedattore che comprendeva aggi della requisitoria, il più lungo dei quali attirò la sua attenzione: Il fatto di sangue di cui ci stiamo occupando è uno dei tanti episodi che siamo soliti trattare in queste tormentate aule di Corte di Assise; eppure attorno a questo episodio si è fatto molto clamore, come dimostra questa folla che è stata assalita da una morbosa curiosità forse per il tenore piccante della vicenda e forse per la qualità della vittima. Ma questo clamore, questo bisbiglio di popolo, rimane al di là di quelle transenne, ritenuto che si tratta di una comunissima vicenda per la quale siamo qui per fare Giustizia, quella Giustizia che è concessa solo agli uomini. Rosina Santina Rustico è di fronte a voi, signori della Corte, per rispondere dell’uccisione dell’Onorevole Matteo Intrieri. Perché la Rustico uccise? Quando avremo dato una risposta a questo interrogativo sapremo applicare la pena adeguata all’imputata per il delitto che ha commesso. All’imputata si deve riconoscere il reato rubricato come omicidio premeditato, stando alla cronologia dei fatti, tanto da configurare lo spettro della richiesta, da parte della difesa, di attenuanti per particolari motivi di valore morale riconducibili alla territorialità del delitto, circostanza diminuente troppo spesso invocata nei tribunali del sud Italia.
No, non posso che oppormi alla concessione di tali attenuanti, e men che meno alla fattispecie dell’omicidio per cause d’onore, e spero d’altro canto che i difensori non avanzino la tesi della legittima difesa putativa, tesi impossibile, insostenibile. Sono sicuro che voi donne ed uomini d’esperienza, che rappresentate la parte sana della società, quella parte che è scevra dai pregiudizi, sono certo che voi valuterete l’episodio con serena obiettività, emettendo un pronunciamento che verrà non solo a rendere giustizia sostanziale, ma varrà, anche a ricordare a tutti che la vita è il bene più grande che Iddio ci ha dato ed appunto perché ci viene da Dio, a nessuno è dato di toglierla al proprio simile. Ormai, purtroppo c’è una tariffa per chi uccide. Si spara sapendo che la legge non condannerà a più di sei anni e qualche mese, solo che appaia una parvenza di ragione d’onore. Ma bisogna reagire a questo andazzo: per chi uccide non c’è tariffa. È un fatto di mera criminalità, cosciente e spietata, mossa dal desiderio di affermare il proprio prestigio personale di fronte a chi non si voleva piegare al suo volere. L’onorata vendetta troppo spesso è avallata da decisioni cieche ed arcaicamente ancorate al ato, diventando col tempo pretesto dietro cui nascondere violenza, prevaricazione e ricatti. Rosina Rustico, pur accecata dalla gelosia, ha violato la legge degli uomini e voi giudici dovete emettere una sentenza che ristabilisca la dignità ed il valore alla vita umana²². Stefano lesse quelle parole tutte d’un fiato, orgoglioso che fossero state pronunciate dal padre; ricordava vagamente quei nomi ed anche il giorno in cui Giorgio D’Amico decise di portar via la sua famiglia per una finta vacanza anticipata, che potesse servire a raffreddare gli animi dei colleghi, urtati dall’essere stati moralmente accusati di troppa faciloneria alla derubricazione di atti criminali. Continuò a spiluccare i sottili fogli, ed uno più sporgente degli altri, incitò le sue dita a tirarlo fuori dalla pila.
Si trattava di una pagina della rivista “L’Opinione” che recava la data del mese di luglio del ‘62. In alto in un riquadro c’era scritto: Colloqui con i lettori e più giù in grassetto il sottotitolo: Un Magistrato Coraggioso. Interessato da quell’aggettivo si mise a leggere: Si capisce che il magistrato è coraggioso e deve esserlo per il sol fatto di avere scelto questa carriera; ma il dottor Giorgio D’Amico, Sostituto Procuratore della Repubblica a Palermo, merita più di qualsiasi altro l’appellativo di magistrato coraggioso. Pensate: nel sostenere la pubblica accusa in un processo, il dottor D’Amico ha voluto centrare la maggior parte della sua requisitoria contro anacronistici pregiudizi locali che avevano deliberatamente mosso l’imputata, Rosina Rustico, a commettere un atroce delitto, facendola apparire agli occhi della massa, eroina e non assassina. Non c’è che dire, al dottor D’Amico va riconosciuta un gran dose di coraggio. Le severe parole con cui egli tuonò nel cuore della Sicilia, contro mentalità dominanti in tutto il sud Italia, secondo cui per la sedotta respinta non rimane altro che lavare l’onta con il sangue, si sono scontrate con l’ostilità manifesta del pubblico. Ma questo non ha indotto il magistrato a fermarsi, anzi ha incalzato nella sua requisitoria con veemenza, avanzando una coraggiosa accusa contro l’ambiente siciliano che quei delitti giustifica, quando addirittura non esalta. Non è da oggi che il dottor D’Amico si batte contro chi ammazza per onore, nonostante sia anch’egli un meridionale e figlio della stessa millenaria cultura, e come tale sa bene come siano profondamente radicati questi pregiudizi che ora combatte. Non fa che raccogliere sconfitte, questo è vero, non solo perché il pubblico protesta quando egli parla, ma soprattutto perché i giudici continuano a dimostrarsi, essi stessi, schiavi di quei pregiudizi. Ci vorranno molti anni prima che in Sicilia si possa superare questa mentalità? Il dottor D’Amico non deve scoraggiarsi. Egli ha già raggiunto un importante traguardo: quello di essere riuscito ad
attirare l’attenzione del grosso pubblico, nonché dell’élite intellettuale dell’isola su quel problema di costume, sulla mentalità medievale ed animalesca, non del tutto estranea neppure nelle più progredite e spregiudicate regioni del nord²³. L’articolo, a firma del professore Nicastro, continuava con una serie di interventi inviati dai lettori della rivista, alcuni interessanti che incitavano suo padre a continuare la battaglia intrapresa, identificando nell’azione della sua professione le avvisaglie di un possibile cambiamento culturale, altri più o meno denigratori ed offensivi. Ripiegò quel foglio e fece per scorre nuovamente la pila, quando all’improvviso sentì il rumore delle chiavi nella toppa della porta d’ingresso. Ebbe paura ed istintivamente si alzò dal divano per nascondersi dietro la porta a due ante del salotto, che in quel momento era completamente aperta. Trattenne il fiato ed un’ansia compulsiva iniziò a fargli battere intensamente il cuore; non sapeva cosa fare se non assottigliarsi il più possibile per non essere visto dietro lo stipite. Il rumore si fece più forte nel momento in cui la porta esterna si chiuse alle spalle dell’intruso, poi i rimbombanti nel silenzio di quell’alba. Si accorse di aver lasciato la lampada accesa, capì di aver fatto un grosso errore e ragionò sul fatto che quella luce potesse attirare l’attenzione di chi in quel momento stava profanando la casa. Così fu. I i si diressero proprio nel salotto ed a lui non restò altro che capire cosa stesse succedendo. Uno, due, tre... intravide la figura e, come nei più scontati gialli letterari, si profilò ai suoi occhi in modo netto il corpo di donna Letizia. - “Zia... o Dio mio, mi hai fatto paura”, disse Stefano ancora col fiatone mentre usciva dal nascondiglio. - “Che fai alzato a quest’ora?”, chiese la zia sorpresa quanto lui di vederlo già vestito, ma con la barba ancora non rasata. - “Io sono rientrato da un po’, con Cornelia e Mimmo abbiamo fatto l’alba;
pensavo dormissi in camera tua, invece che fai, da dove vieni?”. - “Ieri sera, ate da poco le undici, mi ha chiamata Ercole. Roberto si era aggravato. Da tempo non rispondeva più alle terapie e nonostante il catetere non urinava da giorni. Due ore fa...”. La zia si commosse ed abbassando gli occhi cercò di nascondere le lacrime. “Due ore fa, è morto”. Stefano provò pena per “l’albero umano”. A Cosmo, Roberto, si sentiva legato nonostante non lo avesse mai conosciuto, da un qualcosa che non avrebbe potuto definire. Abbracciò la zia nell’intento di lenirne il dolore giustificato dall’affettuosa assistenza, che in tanti anni aveva generosamente saputo offrire a quel ragazzo. Poi sentì il bisogno di vederlo per un’ultima volta, questa volta però non in modo furtivo dalla finestra dello stanzino. Allora, accompagnata la zia a riposare sul suo letto in ottone nichelato, la rassicurò e le disse che sarebbe uscito per qualche minuto. Introdotto da Ercole, che aveva incontrato lungo il corridoio del secondo piano della casa di cura, entrò nella stanza che aveva più volte osservato dalla finestra; l’infermiera in servizio stava sistemando i fili del respiratore artificiale, desolatamente chiuso, mentre Roberto appariva non molto diverso da come si ricordava. Coperto con un lenzuolo bianco fin sopra il petto, mostrava un profilo intenso ed interessante, quasi a sfociare nel bello. Una vecchia cicatrice ornava gran parte del collo sottile, il viso accennava una peluria adolescenziale che occupava le gote a macchie sparse. Doveva essere stato un bel ragazzo, pensò guardandolo attentamente, e pur avendo le palpebre chiuse se lo immaginò con grandi occhi verdi. Con pudore e riverenza strinse sotto il suo palmo una delle mani, liscia, quasi lignea, non ancora troppo fredda e gli parve di sentirne ancora il sangue pulsare. Ercole si avvicinò al suo orecchio per sussurrargli che sarebbe andato a casa stremato dalla nottata di lavoro appena ata, ed anche lui decise di andar via congedandosi per sempre, alle luci di quel nuovo giorno, dall’albero umano.
Due giorni dopo, poco prima delle otto, si ritrovò seduto tra i banchi dell’antichissima chiesa del cimitero, insieme a zia Letizia, il cugino Ercole, Cornelia e Mimmo, zia Nina, zio Ernestino, appena arrivato con il treno letto delle 6, Silvana, l’infermiera ossigenata, Rosina, la perpetua di don Eliseo, il quale da lì a poco avrebbe celebrato i funerali di Roberto, e cinque assistenti al servizio funebre. Mentre il rito cristiano procedeva nel silenzio più assoluto ed i movimenti lenti di don Eliseo apparivano ancor più sincopati alla tenue luce che filtrava dal rosone della chiesa, Stefano fu assorbito dal ricordo di un altro funerale, quello di suo padre, e con la mente ritornò al caldo pomeriggio d’estate di cinque anni prima, all’enorme sala granitica del Palazzo di Giustizia di Palermo in cui il feretro di Giorgio D’Amico fu accolto prima dell’ultimo viaggio verso la sua Tropea. Nel salone assiepato di gente, tra toghe, magistrati, uomini in divisa, qualche politico e tante persone amiche, ad iniziare da Saverio, l’edicolante da cui ogni giorno si fermava a comprare i giornali, Giorgio D’Amico fu salutato per sempre con ammirazione e tantissimo affetto. A Stefano tornarono in mente, in modo chiaro e lucido, le parole di commiato pronunciate dal Procuratore Generale della Repubblica che, sebbene concepite per affrontare un discorso istituzionale, lasciarono più volte campo libero all’emozione, tra scrosci d’applausi, che allora gli apparvero intermezzi liberatori e rinfrancanti: Spetta purtroppo a me il dolorosissimo compito di esprimere a parole l’estremo distacco da Giorgio D’Amico, a nome anche di tutti i magistrati e dei funzionari degli uffici giudiziari del distretto; a me non soltanto come odierno Capo di Corte, ma anche come antico compagno di lavoro ed amico. Ogni orazione funebre non sfugge al fascino della retorica ed io non posso né voglio essere retore davanti alla bara di quest’uomo, la cui vita breve è stata di una semplicità lineare, la cui morte di una drammaticità sconcertante.... Potei ben presto apprezzarne le elevati doti di ingegno, di cultura, e di operosità come quelle della fermezza del carattere, della bontà d’animo e della squisita signorilità dei modi, qualità che facevano di lui uno dei migliori magistrati
dell’Ufficio... Lo ebbi come collaboratore per molti anni ed in ogni circostanza potei avvalermi in processi grevi e delicati, delle sue elevate capacità, del suo scrupolo e del suo alto senso di giustizia e di una profonda cultura giuridica. In questa terra palermitana alzò il suo dito accusatore per smascherare tutto un mondo di putredine morale e sociale, pur consapevole di muoversi su un terreno minato, nel cuore della Palermo mafiosa, trovò nella luce della sua coscienza onesta la forza di aggredire il male alle radici, anticipando con singolare chiaroveggenza ed enucleando con zoliano nudismo, il problema secolare che affligge l’isola... Quando muore un uomo buono si dice che il mondo piange ed il cielo sorrida, ed io vedo ora il pianto della folla muta che rende onore a questo feretro... Verremo, verremo al tuo sepolcro e nel pianto sconsolato per il tuo amaro destino sentiremo, come una nota di celestiale melodia, il palpito sempre robusto del tuo grande generoso cuore²⁴.
Epilogo
Dopo circa un’ora la bara di Cosmo veniva appoggiata in un loculo della cappella di famiglia, palazzotto raffinato anche quello, che campeggiava lungo il corridoio centrale del cimitero monumentale del paese. “Fam. D’Amico” c’era scritto su una lastra in marmo accanto al portoncino lavorato di ferro battuto. Roberto, per volere di Stefano, fu sistemato sopra la tomba del padre. A muratura avvenuta, toccò il muro di cemento fresco con la punta delle dita; poi si voltò e, appoggiando il braccio sulla spalla della zia, quasi si giustificò: “Così continuerà a proteggerlo per molto tempo ancora”.
Postfazione
“UN GIUDICE CORAGGIOSO”
“Il giudice onesto, coraggioso e libero, se è impreparato – e può capitare – sbaglierà più di chi, oltre ad essere onesto, coraggioso e libero, è anche tecnicamente preparato. Giudice coraggioso. Voglio proprio ricordare qui un magistrato calabrese: il collega Pasquale Lo Torto, Sostituto Procuratore della Repubblica a Palermo. In Corte di Assise si dibatteva di un omicidio commesso da una giovane donna contro il proprio seduttore. L’imputata, la folla, i giudici popolari, si aspettavano dal Pubblico Ministero una vibrante requisitoria contro l’ammazzato ed un madrigale per l’eroina dell’onore rivendicato. Ma non è stato così. Lo Torto si scagliò contro la folla e i suoi forsennati feticci che avevano armato la mano dell’imputata mostrando una tenace vocazione all’impopolarità. Il discorso di quel Pubblico Ministero, quindi, non è stato una anemica omelia dentro l’orto chiuso della legge, ma un atto di coraggio, di cultura e di stimolo per rivedere certi tabù. Non basta – scrisse Piovene – fare al Sud strade, case ed industrie per poi lasciarvi stagnare vetusti ed oscuri riti tribali, fenomeni di mafia e di camorra ed ogni altro codice di clan e di boscaglia”²⁵.
Antonio Scopelliti, Magistrato ucciso dalla mafia
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Note
1 “Sali”. 2 “Perché non mi hai telefonato per dirmi che saresti venuto? Avrei mandato la macchina a prenderti alla stazione. Pensavi che avresti dovuto dirmi grazie?”. 3 “Sì, sì le sorprese! Dalle uova di Pasqua vengono fuori le sorprese”. 4 “Attento al gradino”. 5 “E hai la faccia anche di ricordarmelo? Lazzarone”. 6 Sì, sì le so queste cose...”. 7 “Certo che puoi andare alla marina. Le cabine, mi ha detto Raffaele, sono già montate e la nostra l’ho fatta montare lo stesso, nonostante il lutto, così se viene zia Teresa col bambino, che ha tanto bisogno di aria di mare, può andarci”. 8 “pasta di mandorle”. 9 “E adesso l’hai visto lo spettacolo”. 10 “E torna con le sorprese, ma quali sorprese?”. 11 “Domani faccio venire il mastro fabbro Luigi, così vediamo se riesce ad aggiustarla”. 12 “Cosa volete mangiare per pranzo?”. 13 “Fate quel che vi pare, io non parlo più!”. 14 “Trovalo, dev’essere nello stanzino”. 15 “Fai con calma, io intanto esco un attimo”. 16 “armeggiare”.
17 “Ah sì, lo so”. 18 “Ercole, parla sempre molto, come sua madre”. 19 “Quella finestra non c’è modo per farla aggiustare”. 20 ‘Come un nipote lo devi trattare’. 21 Tratto dallo scrutinio ordinario per la promozione a magistrato di Corte di Appello del dott. Pasquale Lo Torto, a firma del Procuratore della Repubblica dottor Pietro Scaglione in data 07-03-1964. 22 Sviluppato da una serie di interventi del dott. Lo Torto, inseriti in diversi articoli giornalistici. 23 Tratto da un intervento giornalistico apparso sulla rivista “La settimana Incom Illustrata”, n°18, Anno XII, 2 maggio 1959. 24 Tratto da due distinte orazioni funebri, omaggio al giudice Pasquale Lo Torto. Una tenuta dal Procuratore Generale della Repubblica di Palermo dott. Pasquale Garofalo, l’altra dal procuratore Generale della Repubblica a Torino, dottor Domenico Jannelli, amico d’in-fanzia. 25 Da Parole efficaci - Scritti e interventi pubblici di Antonio Scopelliti, a cura di Maria Pascuzzi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, p. 119.